Motta Bertin Antologia critica coeva PDF

Title Motta Bertin Antologia critica coeva
Course Letteratura Italiana
Institution Università degli Studi di Parma
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Motta Bertin Antologia critica coeva, letteratura italiana medievale...


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ANTOLOGIA DELLA CRITICA COEVA Proponiamo di seguito ampi stralci dal De vulgari eloquentia dantesco e dalla Summa artis rithimici vulgaris dictaminis di Antonio da Tempo, che costituiscono, in modo tra loro differente ma assai significativo, due imprescindibili documenti per riflettere sui testi poetici delle Origini. L’incompiuto trattato dantesco si colloca cronologicamente dopo la Vita nova e prima della composizione dell’Inferno, mentre la compilazione di Antonio da Tempo è in pratica contemporanea all’embrionale creazione del Canzoniere petrarchesco. Entrambi i testi offrono dunque la possibilità, per stare alla suggestione-guida del manuale (➥p. 5), di “mettersi nei panni di un lettore” e seguire le riflessioni condotte sui testi del Due-Trecento non a posteriori, ma in medias res, annullando, così, quel gap cronologico e culturale che oggi ci separa da essi1. Oltre ai numerosi passi già citati nel corso delle pagine del volume, sono stati qui antologizzati alcuni stralci significativi e, per certi versi, paralleli dei due trattati. I brani sotto riportati permettono, in qualche caso, di suffragare alcune affermazioni condotte nel corpo della nostra trattazione e, più in generale, di confrontare sinotticamente le due opere, per coglierne i punti di contatto o le rispettive peculiarità.

1

Scritto tra il 1303 e il 1305 e rivolto a un pubblico cólto di letterati (per questo redatto in latino, a differenza del Convivio, iniziato in quegli stessi anni ma imbandito con intenti più divulgativi), il De vulgari eloquentia era stato pensato in quattro libri ma è giunto a noi sospeso a metà di una frase al capitolo XIV del secondo libro. Un’interruzione così brusca appare singolare e, sebbene il trattato sia incompiuto, è tuttavia inverosimile che sia stato così improvvisamente troncato 2. Piuttosto bisognerà considerare una storia testiPer il trattato dantesco si fa riferimento alla nuova edizione e alla relativa traduzione a cura di E. Fenzi (Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Salerno Editrice, Roma 2012). Il testo latino della Summa è invece tratto dall’edizione critica di R. Andrews (Antonio da Tempo, Summa artis rithimici vulgaris dictaminis, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1977), alla numerazione di righe della quale si riferiscono le cifre arabe dopo l’indicazione del capitolo. La traduzione italiana, invece, è nostra. 1

2

«Ex quo ‹duo› que sunt artis in cantione satis sufficienter tractavimus, nunc de tertio videtur esse tractandum, videlicet de numero carminum et sillabarum. Et primo secundum totam stantiam videre oportet aliquid; deinde secundum partes eius videbimus. Nostra igitur primo refert discretionem facere inter ea que canenda occurrunt, quia quedam stantie prolixitatem videntur appetere, quedam non. Nam cum ea que dicimus cuncta vel circa dextrum aliquid vel sinistrum canamus – ut quandoque persuasorie quandoque dissuasorie, quandoque gratulanter quandoque yronice, quandoque laudabiliter quandoque contemptive canere contingit –, que circa sinistra sunt verba semper ad extremum festinent, et alia decenti prolixitate passim veniant ad extremum…» [Dopo aver trattato a sufficienza di due elementi propri della tecnica della canzone, è ora il momento di affrontare il terzo, quello che riguarda il numero dei versi e delle sillabe. In primo luogo, occorre fare qualche considerazione a proposito della stanza presa nella sua interezza; poi, vedremo quello che riguarda le sue parti. Per cominciare, m’interessa fare una distinzione tra gli argomenti che si presentano come materia di canto, poiché alcuni mostrano di volere una stanza lunga e altri no. In effetti, tutto ciò che esprimiamo in poesia lo cantiamo in tono positivo o negativo: così accade di cantare talvolta in tono persuasivo e talvolta dissuasivo; talvolta in tono gratulatorio e talvolta ironico; talvolta per lodare e talvolta per disprezzare. Ora, le parole riferite a contenuti negativi dovranno sempre affrettarsi alla conclusione, mentre le altre ci arriveranno un poco per volta, con giusta lunghezza…] (Dve II, XIV, 1-2).

© Loescher 2013 - Questa pagina è complemento didattico del testo Poesia italiana delle Origini di Bertin, Motta.

Dante Alighieri, De vulgari eloquentia

Antologia della critica coeva moniale travagliata, che ha portato alla conservazione di soli tre manoscritti, probabilmente derivanti da un archetipo anepigrafo, cioè senza titolo, le cui ultime carte sono cadute o si presentavano corrotte e illeggibili. Fu fatto conoscere dall’umanista Gian Giorgio Trissino (1478-1550), che entrò in possesso di T (il codice Triv. 1088 della Trivulziana di Milano) e lo tradusse nel 1529 nel nuovo particolare alfabeto che stava teorizzando proprio in quegli anni3.

2

Il proemio dell’opera

© Loescher 2013 - Questa pagina è complemento didattico del testo Poesia italiana delle Origini di Bertin, Motta.

Il volgare è presentato da Dante come lingua naturale, non artificiale, e per ciò stesso più nobile. Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam inveniamus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus, cum ad eam non tantum viri, sed etiam mulieres et parvuli nitantur in quantum natura permictit; volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes, Verbo aspirante de celis locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum. Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa versatur, dicimus, celeriter actendentes, quod vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus. Est et inde alia locutio secondaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa. Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat. Et de hac nobiliori nostra est intentio pertractare. (Dve I, I, 1-4)

Poiché non ci risulta che alcuno prima di noi abbia scritto sopra ciò che occorre sapere intorno all’eloquenza volgare, e poiché d’altra parte vediamo benissimo che tale eloquenza è necessaria a tutti – tant’è che non solo gli uomini ma, per quanto glielo concede la natura, anche le donne e i bambini si sforzano di impararla –, con l’assistenza del Verbo celeste cercheremo di giovare alla lingua degli illetterati, mossi come siamo dal desiderio di illuminare in qualche modo la capacità di giudizio di quelli che se ne vanno come ciechi per le piazze e spesso s’immaginano d’aver lasciato dietro di sé ciò che invece sta ancora loro davanti. Per riempire un vaso così grande non attingeremo 3 È lo stesso Trissino che nel 1529, nell’attacco alla sua Poetica, accosta il De vulgari e la Summa in un binomio che di lì in poi diverrà inscindibile nella manualistica (oltre che penalizzante per da Tempo): «Ne la quale [poesia], se bene da mωlti pωεti è stato pωεticamente scrittω, ε cωn arte, nessunω però fin qui ha di essa arte trattatω se nωn Dante εt Antoniω di Tempω, i quali qua∫i in una mede∫ima età ne scrissenω in latinω; ma iω ne scriverò ne la nostra lingua, e sperω di dirne più cωpiω∫amente ε più distintamente che niunω di lωrω» (G.G. Trissino, La Poetica, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, Laterza, Bari 1970, vol. I, p. 24).

De vulgari eloquentia solo dall’acqua del nostro ingegno, ma mescoleremo il meglio di quello che abbiamo preso e riunito insieme da altri, sì da poter somministrare uno squisito idromele. Poiché qualsiasi disciplina non è tenuta a dimostrare il proprio oggetto, bensì a dichiararlo chiaramente perché si sappia di che cosa si occupa, per rispondere rapidamente alla questione diremo che chiamo lingua volgare quella che i bambini imparano a usare da chi sta loro intorno non appena cominciano ad articolare i suoni; oppure, per dirla in modo più breve ancora, quella che impariamo senza regola alcuna quando imitiamo la balia. Noi abbiamo poi un’altra lingua, che si apprende in un secondo tempo, che i Romani chiamarono “grammatica”. Anche i Greci e altri popoli hanno una siffatta lingua, ma non tutti: e in verità pochi sono quelli che riescono a farla propria, perché si arriva a impararne le regole solo in tempi lunghi e con studio assiduo. Di queste due lingue la volgare è più nobile: perché è stata la prima ad essere usata dal genere umano; perché il mondo intero la usa, benché divisa secondo diverse pronunce e diversi vocaboli; perché è la nostra lingua naturale, mentre l’altra ha un’origine artificiale. E proprio di questa, che è la più nobile, è nostra intenzione trattare.

3

Lingua “viva” e lingua “della grammatica”

Nam si alia nostra opera perscrutemur, multo magis discrepare videmur a vetustissimis concivibus nostris quam a coetaneis perlonginquis. Quapropter audacter testamur quod, si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur. Nec aliter mirum videatur quod dicimus quam percipere iuvenem exoletum quem exolescere non videmus: nam que paulatim moventur, minime perpenduntur a nobis, et quanto longiora tempora variatio rei ad perpendi requirit, tanto rem illam stabiliorem putamus. Non etenim ammiramur si extimationes hominum qui parum distant a brutis putant eandem civitatem sub invariabili semper civicasse sermone, cum sermonis variatio civitatis eiusdem non sine longissima temporum successione paulatim contingat, et hominum vita sit etiam, ipsa sua natura, brevissima. Si ergo per eandem gentem sermo variatur, ut dictum est, successive per tempora, nec stare ullo modo potest, necesse est ut disiunctim abmotimque morantibus varie varietur, ceu varie variantur mores et habitus, qui nec natura nec consortio confirmantur, sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur. Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis. Hec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. Adinvenerunt ergo illam ne, propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo vel saltim imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta, sive illorum quos a nobis locorum diversitas facit esse diversos. (Dve I, IX, 7-11)

Se esaminiamo con attenzione tutto ciò che ci riguarda, infatti, ci troveremo assai più diversi dai nostri antichissimi concittadini che dai contemporanei

© Loescher 2013 - Questa pagina è complemento didattico del testo Poesia italiana delle Origini di Bertin, Motta.

Il testo riportato è esempio della modernità della riflessione linguistica dantesca: le regole della grammatica sono necessarie per contrastare le “fluttuazioni” della lingua (varianti diacroniche, diatopiche, diastratiche; ➥ p. 17 sgg.) e permettere di accedere a testi lontani nel tempo e/o nello spazio.

Antologia della critica coeva

© Loescher 2013 - Questa pagina è complemento didattico del testo Poesia italiana delle Origini di Bertin, Motta.

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anche i più lontani. Onde oso dire che se ora i vecchissimi Pavesi risorgessero, parlerebbero una lingua mutata e diversa da quella dei Pavesi di oggi. Quanto dico non deve meravigliare più del fatto che ci accorgiamo che un giovane è diventato adulto senza averne osservato il processo di crescita. Delle cose che procedono poco a poco, infatti, non riusciamo a percepire il movimento, e quanto più la trasformazione di una cosa richiede tempo, tanto più la giudichiamo stabile. Non stupiamoci dunque se il giudizio di uomini che poco differiscono dalle bestie li porta a credere che una medesima città abbia sempre condotto la sua vita civile attraverso una lingua invariabile, dal momento che la trasformazione della lingua vi avviene poco a poco, in un decorso temporale lunghissimo, mentre la vita degli uomini è invece, per sua natura, brevissima. Se dunque la lingua parlata dalla stessa gente varia attraverso il tempo, come s’è detto, e in nessun modo può rimanere uguale a se stessa, necessariamente ne deriva che quella di chi vive separato e lontano si trasformi nei modi più vari, così come varie sono le trasformazioni di costumi e abitudini che non sono fissati né per natura né per mutua obbligazione, ma si sviluppano secondo le libere scelte degli uomini e le singolarità dei luoghi. Gli inventori della grammatica sono partiti proprio da qui: la grammatica, infatti, non è altro che una inalterabile identità di linguaggio attraverso luoghi e tempi diversi. Questa lingua della grammatica ha ricevuto le proprie regole dall’unanime consenso di molte genti, e non è perciò soggetta all’arbitrio del singolo né di conseguenza può essere variabile. Essa fu dunque inventata per evitare che, a causa delle trasformazioni di una lingua fluttuante secondo il capriccio dei singoli, ci fosse impedito di raggiungere, del tutto o anche solo imperfettamente, il pensiero e le imprese degli antichi, così come di quelli che la diversità dei luoghi ha reso diversi da noi.

Tutti devono usare il volgare illustre? La lingua non ha una funzione meramente esornativa e pertanto non deve essere usata in tal modo: a una lingua “illustre” devono corrispondere concetti “illustri”. Queramus igitur prius utrum omnes versificantes vulgariter debeant illud uti. Et superficietenus videtur quod sic, quia omnis qui versificatur suos versus exornare debet in quantum potest quare, cum nullum sit tam grandis exornationis quam vulgare illustre, videtur quod quisquis versificator debeat ipsum uti. Praeterea, quod optimum est in genere suo, si suis inferioribus misceatur, non solum nil derogare videtur eis, sed ea meliorare videtur: quare si quis versificator, quanquam rude versificetur, ipsum sue ruditati admisceat, non solum bene facere, sed ipsum sic facere oportere videtur: multo magis opus est adiutorio illis qui pauca quam qui multa possunt. Et sic apparet quod omnibus versificantibus liceat ipsum uti. Sed hoc falsissimum est: quia nec semper excellentissime poetantes debent illud induere, sicut per inferius pertractata perpendi poterit. Exigit ergo istud sibi consimiles viros, quemadmodum alii nostri mores et habitus: exigit enim magnifícentia magna potentes, purpura viros nobiles; sic et hoc excellentes ingenio et scientia querit, et alios aspernatur, ut per inferiora patebit. Nam quicquid nobis convenit, vel gratia generis, vel speciei, vel individui convenit, ut sentire, ridere, militare. Sed hoc non convenit nobis gratia generis, quia etiam brutis conveniret; nec gratia speciei, quia cunctis hominibus esset conveniens, de quo nulla questio est – nemo enim montaninis rusticana tractantibus hoc dicet esse conveniens –:

De vulgari eloquentia convenit ergo individui gratia. Sed nichil individuo convenit nisi per proprias dignitates, puta mercari, militare ac regere: quare si convenientia respiciunt dignitates, hoc est dignos, et quidam digni, qui dam digniores, quidam dignissimi esse possunt, manifestum est quod bona dignis, meliora dignioribus, optima dignissimis convenient. Et cum loquela non aliter sit necessarium instrumentum nostre conceptionis quam equus militis, et optimis militibus optimi conveniant equi, ut dictum est, optimis conceptionibus optima loquela conveniet. Sed optime conceptiones non possunt esse nisi ubi scientia et ingenium est: ergo optima loquela non convenit nisi illis in quibus ingenium et scientia est. Et sic non omnibus versifìcantibus optima loquela conveniet, cum plerique sine scientia et ingenio versificentur, et per consequens nec optimum vulgare. Quapropter, si non omnibus competit, non omnes ipsum debent uti, quia inconvenienter agere nullus debet. Et ubi dicitur quod quilibet suos versus exornare debet in quantum potest, verum esse testamur; sed nec bovem epiphiatum nec balteatum suem dicemus ornatum, immo potius deturpatum ridemus illum: est enim exornatio alicuius convenientis additio. Ad illud ubi dicitur quod superiora inferioribus admixta profectum adducunt, dicimus verum esse quando cesset discretio: puta si aurum cum argento conflemus; sed si discretio remanet, inferiora vilescunt: puta cum formose mulieres deformibus admiscentur. Unde cum sententia versificantium semper verbis discretive mixta remaneat, si non fuerit optima, optimo sociata vulgari non melior sed deterior apparebit, quemadmodum turpis mulier si auro vel serico vestiatur.

5

Per cominciare, vediamo se tutti quelli che scrivono versi volgari debbono usarlo [cioè il volgare]. A prima vista si direbbe di sì, poiché chiunque componga versi deve abbellirli quanto più può: ora, dal momento che non esiste nulla che conferisca tanta bellezza quanto il volgare illustre, sembrerebbe chiaro che qualsiasi versificatore sia tenuto a usarlo. Inoltre, ciò che è ottimo nel suo genere, se è mescolato a ciò che nello stesso genere gli è inferiore, non solo non gli toglie nulla ma lo migliora; perciò, se qualche versificatore, per quanto grossolano, mescola quel volgare al suo rozzo prodotto, non solo si direbbe che faccia bene, ma anche che proprio così debba fare. Chi ha poche capacità, infatti, ha molto più bisogno d’aiuto di chi ne ha molte, e parrebbe dunque che tutti i versificatori siano autorizzati ad usarlo. Ciò è tuttavia completamente falso, poiché neppure i poeti più eccellenti debbono sempre rivestirsene, come si potrà giudicare da quello che argomenterò più avanti. Questo volgare esige infatti persone che siano al suo livello, allo stesso modo degli altri nostri costumi e abiti. La magnificenza pretende persone in grado di sostenere grandi spese, e la porpora richiede nobili individui: ugualmente, anche il nostro volgare esige persone eccellenti per ingegno e sapere, mentre disprezza tutti gli altri, come nel séguito apparirà chiaro. In effetti, tutto quello che è specifico dell’uomo, lo è in virtù del genere, della specie o dell’individuo, come provare sensazioni, ridere o militare come cavaliere. Ma il volgare illustre non ci si addice in virtù del genere, altrimenti dovrebbe appartenere anche alle bestie. E neppure in virtù della specie, altrimenti converrebbe a tutti gli uomini, e ciò è fuori discussione: nessuno dirà che sia adatto ai montanari che s’occupano di faccende da contadini. Dunque, il volgare illustre sarà conveniente o no secondo criteri di tipo individuale. Ma nulla s’addice all’individuo se non in virtù della sua personale posizione sociale: per esempio fare il mercante, esercitare la cavalleria o governare. Perciò, se è vero che ciò che conviene o meno dipende dalla posizione, e cioè dal personale

© Loescher 2013 - Questa pagina è complemento didattico del testo Poesia italiana delle Origini di Bertin, Motta.

(Dve II, I, 2-10)

Antologia della critica coeva

© Loescher 2013 - Questa pagina è complemento didattico del testo Poesia italiana delle Origini di Bertin, Motta.

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grado di dignità secondo il quale alcuni possono essere degni, altri più degni e altri ancora degnissimi, è chiaro che le cose buone converranno ai degni, le migliori ai più degni e le ottime ai degnissimi. Poiché la lingua è l’indispensabile strumento del nostro pensiero, così come lo è il cavallo per il cavaliere, e poiché ai migliori cavalieri s’addicono i cavalli migliori, come s’è detto, allora ai pensieri più alti converrà la lingua migliore. Ma i pensieri più alti non possono esistere se non dove...


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