Storia della giustizia amministrativa PDF

Title Storia della giustizia amministrativa
Course Diritto Amministrativo
Institution Università degli Studi di Enna Kore
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Storia della giustizia amministrativa

Al momento dell’unificazione del Regno d’Italia, nel 1861, si avvertì l’esigenza di dare al nuovo Stato un sistema normativo unificato, in questo come negli altri settori dell’amministrazione. Questa unificazione legislativa si compie nel 1865 con una serie di leggi organiche per le varie materie, una delle quali è la cd. legge abolitiva del contenzioso amministrativo (L. 20 marzo 1865, n. 2248). Questa legge compie una scelta tra un sistema dualistico, caratterizzato dalla presenza di due giudici a seconda che la lite sia tra privati o nei confronti della pubblica amministrazione, e un sistema monistico con un unico giudice per ogni ordine di controversie, nel quale, quindi, le situazioni del privato e quelle dell’Amministrazione erano equiparate. Il legislatore dell’epoca optò per un sistema di giurisdizione unica stabilendo la regola secondo la quale vi fosse un unico giudice, il giudice ordinario, competente a conoscere sia delle controversie insorte tra privati, sia di quelle insorte tra privati e Amministrazione. Altri organi giurisdizionali non c’erano in quanto i tribunali del contenzioso amministrativo venivano appunto aboliti. In primo luogo, la legge prevedeva che fossero affidate al giudice ordinario tutte le controversie che attenessero a contravvenzioni, oppure nelle quali fosse fatta questione di diritti civili o politici dei privati; quest’ultima espressione, allora, designava la figura del diritto soggettivo, cioè dell’unica situazione di diritto che si riteneva meritevole di tutela giurisdizionale. L’art. 2, poi, affermava che anche le controversie nelle quali era interessata un’Amministrazione e “ancorché siano stati emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa” sarebbero state decise dal giudice ordinario. Rispetto ai c.d. “affari non compresi”, cioè quelle situazioni soggettive per cui non c’era un giudice competente, era previsto che venissero decise direttamente dall’Amministrazione (art.3).

La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione risultava, dunque, così articolata: nelle materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico era ammessa la tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario; nella altre materie, gli affari non compresi, la tutela del cittadino si risolveva nell’ambito dell’Amministrazione stessa. Gli artt. 4 e 5 della richiamata legge ci consentono di cogliere cosa succede quando il diritto soggettivo si “scontra” con la posizione di un atto amministrativo, quando interferisce con una attività della Pubblica Amministrazione. Tre sono le affermazioni fondamentali: 1. “I tribunali civili si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”: non potranno annullare, revocare, modificare l’atto, potranno conoscerlo solo ai limitati effetti della controversia. 2. Si crea la categoria dei ricorsi amministrativi: “L’atto amministrativo potrà essere revocato o modificato solo dalle competenti autorità amministrative, le quali hanno l’obbligo di conformarsi al decisum del tribunale nei limiti del caso deciso”. 3. “Le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi in quanto siano conformi alle leggi”: il giudice ordinario aveva il potere di valutare se l’atto amministrativo fosse illegittimo e, nel caso, disapplicarlo, e, quindi, come diceva chiaramente la legge, ritenerlo improduttivo di effetti per quanto riguarda il caso deciso. La scelta del legislatore era nel senso di affidare tutte le controversie al giudice ordinario dotato non di un potere di annullamento ma di un potere di disapplicazione. Dunque, nel caso in cui un soggetto avesse voluto contestare il modo in cui l’Amministrazione si era determinata, la legge del 1865 offriva queste possibilità: a) Per ottenere che la decisione assunta dall’Amministrazione fosse riesaminata si doveva fare ricorso alla stessa autorità amministrativa che aveva adottato l’atto, o ad un suo superiore gerarchico; si creava, così, la categoria dei ricorsi amministrativi; b) Quando un soggetto si rivolgeva al tribunale ordinario invocando la tutela di un suo diritto civile o politico, il giudice, nell’esaminare la richiesta di giustizia, avrebbe dovuto disapplicare l’atto dell’Amministrazione se lo avesse riconosciuto illegittimo. Nello schema della legge del 1865 abolitiva del contenzioso amministrativo non trovava posto l’interesse legittimo; c’era o il diritto soggettivo o il semplice interesse di fatto, cioè la possibilità di far riesaminare alla stessa Amministrazione la sua pretesa, non costituente situazione giuridica soggettiva.

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In sede applicativa le cose però andarono diversamente. La giurisprudenza iniziò infatti a ritenere che l’atto dell’Amministrazione fosse pur sempre un atto autoritativo e, in quanto tale, avesse l’automatico effetto di sopprimere il diritto del privato, di degradare, come poi si è detto, il diritto del privato: nacque così la c.d. teoria della degradazione dei diritti soggettivi. Si ritenne in sostanza che, quando la controversia investe direttamente provvedimenti amministrativi, per necessità non può esserci più in capo all’amministrato un diritto soggettivo. Pensiamo al decreto di esproprio: il diritto di proprietà di Tizio, nel momento in cui viene adottato il decreto di espropriazione, si estingue e la proprietà viene acquisita dall’ente espropriante, perchè l’effetto tipico dell’esproprio è

proprio quello,

legislativamente stabilito, di far acquisire all’espropriante la proprietà del bene. Se così è, si è detto, poiché il presupposto per rivolgersi al tribunale civile è la titolarità del diritto soggettivo, dal momento che il diritto soggettivo è degradato a interesse di fatto, il privato non ha più quel presupposto essenziale – costituito proprio dalla titolarità d un diritto soggettivo – per poter rivolgersi al giudice: il proprietario, non avendo più il diritto, essendo cioè divenuto un semplice ex-proprietario in seguito all’adozione dell’atto, non potrà rivolgersi al giudice ordinario. In tale visione, il potere di disapplicazione si riduce a casi estremamente marginali, tali da non garantire compiutamente la tutela al privato nei confronti dell’Amministrazione, perchè, se il giudice non ha giurisdizione, non ha il potere di adottare alcuna decisione di merito, ivi compresa quella di disapplicare l’atto eventualmente illegittimo. Le situazioni dei soggetti coinvolti da un provvedimento amministrativo erano lasciate in balia della stessa Amministrazione perché avevano come unico rimedio la possibilità di proporre un ricorso amministrativo, quindi un ricorso alla stessa Amministrazione che aveva adottato l’atto (c.d. ricorso in opposizione) o all’Amministrazione gerarchicamente sovraordinata (c.d. ricorso gerarchico) Questi ricorsi esistono tutt’oggi, anche se hanno perso gran parte, se non quasi tutta la loro importanza, per una serie di ragioni: 1. Esiste ormai una completa tutela giurisdizionale. 2. Nel 1971, con l’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali (e così il doppio grado di giurisdizione anche amministrativa) è venuto meno il presupposto richiesto dalla legge di avere previamente esperito tutti i ricorsi amministrativi prima di potersi rivolgere al giudice amministrativo. Fino al 1971 valeva in generale la regola secondo cui la

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possibilità di ricorrere al giudice amministrativo era garantita solo nei confronti dei provvedimenti definitivi dell’Amministrazione: quindi, nei confronti di provvedimenti per i quali fossero già stati esperiti tutti i ricorsi amministrativi previsti dalla legge. Il cittadino, per ricorrere al giudice amministrativo, aveva l’onere di esperire previamente i ricorsi amministrativi ordinari, proponendoli in più gradi così da percorrere tutta la scala gerarchica,

fino

ad

ottenere

una

decisione

che

costituisse

l’ultima

parola

dell’Amministrazione (provvedimento c.d. definitivo). Dopo l’istituzione dei Tar, il ricorso al giudice amministrativo può invece essere esperito sia nei confronti di un provvedimento definitivo, che nei confronti di un provvedimento non definitivo. 3. In realtà, il ricorso gerarchico ha ormai in gran parte perso il suo stesso presupposto, essendo venuta meno la gerarchia, cioè la normale attribuzione all’organo sovraordinato di sostituirsi a quello sottoordinato. A seguito dell’affermazione, ad opera della giurisprudenza, del principio della degradazione del diritto soggettivo nei confronti dell’atto amministrativo autoritativo, la situazione parve dunque giustamente non soddisfacente e inadeguata: vi era un vuoto di tutela giurisdizionale, l’interesse del privato era ridotto ad un interesse di fatto, cioè ad un interesse privo di effettiva protezione giuridica. Questa situazione di insoddisfazione portò alla legge del 1889 (L. 31 marzo 1889, n. 5992), data in cui nasce l’interesse legittimo nel nostro ordinamento, cioè nasce l’idea che il diritto soggettivo non si estingue, ma si trasforma in una vicenda dinamica, degrada a interesse legittimo. Parallelamente l’idea, o meglio l’esigenza, era quella di garantire il rispetto del principio della divisione dei poteri, in virtù del quale il giudice non poteva sostituirsi, nell’esercizio del potere, all’Amministrazione. Vi era la necessità di creare un giudice non completamente estraneo all’Amministrazione. Questo fu ravvisato nel Consiglio di Stato. La legge del 1889 aggiunse alle tre sezioni del Consiglio di Stato, organo consultivo del Governo, una quarta sezione, cui fu attribuito il potere di decidere sui ricorsi presentati da privati-cittadini contro gli atti dell’Amministrazione che si assumessero viziati per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge. Sembrò che questa soluzione non incrinasse il principio della divisione dei poteri in quanto si affermava che il Consiglio di Stato, facendo parte dell’Amministrazione, non attuava un giudizio nei

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confronti “della” Amministrazione, ma attuava un giudizio “nella” Amministrazione, cioè al suo interno. Inizialmente, alla luce di quanto detto, vi era il convincimento che la giurisdizione del Consiglio di Stato fosse diversa da quella del giudice ordinario; la si definiva, allora, una giurisdizione di diritto oggettivo, cioè preordinata alla corretta tutela non tanto dell’interesse del privato ricorrente, quanto del diritto oggettivo, cioè del rispetto da parte dell’Amministrazione delle norme che ne regolano l’azione. L’idea di fondo era che il Consiglio di Stato dovesse preoccuparsi principalmente dell’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa.: si parlò di giurisdizione di diritto oggettivo contrapposta alla giurisdizione di diritto soggettivo, quella del giudice ordinario, volta a rendere giustizia al soggetto ricorrente. Il Consiglio di Stato ebbe però una sua importante evoluzione: affermò con decisione di essere organo di terzietà, con la funzione di garantire l’interesse del ricorrente. La giurisdizione amministrativa è diventata anch’essa giurisdizione di diritto soggettivo, giurisdizione “vera” che tutela la situazione giuridica soggettiva del privato. Il giudizio amministrativo ha preso, decisamente, la strada del giudizio di parte; il che comporta le seguenti importanti conseguenze. 1. Non solo il giudice amministrativo si pronuncia unicamente se l’interessato ha proposto ricorso, ma inoltre non può pronunciarsi se il ricorrente, che pur ha attivato il giudizio, rinuncia al ricorso. Il privato è dunque, il dominus del giudizio amministrativo, cioè colui che lo attiva, che può interromperlo in ogni momento e impedire che si arrivi alla pronuncia finale. 2. Oggetto del giudizio sono i singoli motivi individuati dal ricorrente. Il giudice si pronuncia soltanto sui vizi che sono stati formulati nel ricorso, che costituiscono le censure proposte dal ricorrente. Non può annullare per vizi diversi che il ricorrente non ha formulato; inoltre il ricorrente può anche rinunciare a uno o più dei motivi fatti valere, così limitando l’oggetto del processo. 3. Il giudice, riscontrata la illegittimità, deve senz’altro annullare il provvedimento impugnato. Differentemente, nell’ipotesi di annullamento di ufficio (espressione della funzione amministrativa) si deve valutare la sussistenza di uno specifico interesse pubblico alla eliminazione del provvedimento.

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Questo è il significato della affermata natura di giurisdizione “vera” del Consiglio di Stato. Dopo le legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni per la tutela del cittadino pose il problema di individuare criteri per il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Nel nostro ordinamento, come vedremo, il principio accolto e trasfuso nella nostra Costituzione è quello che fa leva sulla natura della situazione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente. Alla stregua di quali circostanze si può capire se sia stato fatto valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo? Secondo la c.d. teoria della prospettazione, si deve attribuire rilievo decisivo alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva come risulta dagli atti introduttivi del giudizio. Se l’attore allega di essere titolare di un interesse legittimo (ad esempio chiede al giudice l’annullamento del provvedimento), la tutela spetterebbe al giudice amministrativo; se, invece, si presenta come titolare di un diritto soggettivo (chiede il risarcimento), sarebbe competente il giudice ordinario. Ciò che rileva non sarebbe la realtà effettiva della posizione giuridica di cui sia titolare il cittadino, ma la situazione soggettiva che viene fatta valere, così come prospettata dal cittadino nelle sue difese. Tuttavia, le sezioni unite della Cassazione hanno negato valore e rilevanza alla teoria della prospettazione, affermando che “il sistema di riparto è basato non sulla situazione giuridica soggettiva quale vantata dal ricorrente, ma quale effettivamente è”. Ciò che rileva ai fini del riparto di giurisdizione è l’effettiva natura della situazione giuridica soggettiva. Rileva, però, la reale situazione giuridica soggettiva in astratto, non in concreto: affermare se sussiste in concreto spetta alla pronuncia di merito del giudice. Bisogna distinguere non se c’è l’interesse legittimo o non c’è (questo è merito) ma se nella struttura oggettiva della norma che regola il rapporto la situazione giuridica del ricorrente è di diritto soggettivo o di interesse legittimo. L’art. 113 della Costituzione afferma “contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”. Con questa norma si è voluto fotografare la situazione esistente nel periodo in cui venne adottata la Costituzione. Il sistema, allora, si era consolidato intorno alle due situazioni giuridiche fondamentali, quella di diritto

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soggettivo e quella di interesse legittimo. Su queste due posizioni il sistema faceva leva per distinguere le due giurisdizioni, rispettivamente quella ordinaria e quella amministrativa. Il criterio di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo basato sulla natura della situazione giuridica soggettiva fatta valere presentava non pochi inconvenienti. Vi erano, infatti, situazioni in cui le due vie di tutela giurisdizionale potevano essere esperite anche cumulativamente, in quanto il soggetto era titolare di entrambe le situazioni giuridiche (c.d. doppia tutela 1), e casi in cui risultava estremamente difficile anche solo identificare quale fosse effettivamente la posizione vantata dal soggetto, materie nelle quali diritti soggettivi e interessi legittimi risultavano strettamente connessi. Situazioni del genere hanno indotto il legislatore a cercare un rimedio consistente nell’attribuzione di particolari materie e delle relative controversie alla giurisdizione di un solo giudice. È il caso della cosiddetta giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cioè una giurisdizione estesa anche ai diritti soggettivi. Lo stesso art. 103 della Cost. individua quale criterio principale di riparto della giurisdizione quello che fa leva sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere (diritto soggettivo o interesse legittimo) e quale criterio eccezionale quello della materia, riconoscendo la possibilità di una giurisdizione esclusiva “in particolari materie indicate dalla legge”. In questi casi la determinazione della giurisdizione avviene con un criterio diverso da quello della situazione giuridica fatta valere, si utilizza il diverso criterio della materia: tutto ciò che attiene ad una determinata materia è devoluto alla giurisdizione di un giudice (quello amministrativo), senza ulteriori indagini sulla situazione giuridica esistente alla base della pretesa. La giurisdizione esclusiva (introdotta nel 1923) riguarda materie in cui è “esclusa” la giurisdizione di ogni altro giudice e, in particolare, del giudice ordinario. Nel nostro ordinamento questa ipotesi era considerata del tutto eccezionale, il caso più importante all’epoca era quello relativo alla materia del pubblico impiego, le cui

L’espressione “doppia tutela” viene utilizzata per designare alcune ipotesi particolari in cui il cittadino può agire davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto e davanti al giudice amministrativo per far valere un proprio interesse legittimo. L’ipotesi più nota è quella che si verifica in materia edilizia: il proprietario pregiudicato da una costruzione del vicino può agire contro questi in sede civile, ai sensi dell’art. 872 c.c., e può agire contemporaneamente davanti al giudice amministrativo, impugnando il permesso di costruire rilasciato dal Comune per la nuova costruzione. In altri termini, il vicino è titolare di un diritto soggettivo al rispetto delle regole edilizie da parte di chi costruisce; è, altresì, titolare di un interesse legittimo al regolare rilascio del permesso di costruire. 1

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controversie erano devolute interamente alla giurisdizione del giudice amministrativo, indipendentemente dal tipo di pretesa fatta valere. Il tema della giurisdizione esclusiva assunse un rilievo ancora maggiore a seguito della privatizzazione del pubblico impiego – avviata con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 - e della conseguente devoluzione delle relative controversie, ad eccezione di alcune categorie di dipendenti – come magistrati, diplomatici, professori universitari –, al giudice ordinario. Per “compensare” il giudice amministrativo della perdita di gran parte del contenzioso dei dipendenti pubblici, il legislatore prima nel 1998 (D.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), poi con la legge del 2000 (L. 21 luglio 2000, n. 205) ha assegnato al giudice amministrativo in via esclusiva importantissimi settori: le controversie in materia di pubblici servizi, edilizia e urbanistica. La questione del se questa così grande estensione della giurisdizione esclusiva sia compatibile con la Costituzione, in altre parole con quel criterio secondo il quale la regola del riparto della giurisdizione debba fondarsi sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere, è stata sollevata dinanzi alla Corte Costituzionale la quale, come vedremo, con la nota sentenza 204 del 2004 ha sottolineato l’esigenza di una interpretazione della giurisdizione

esclusiva

rispettosa

dell’art.

103

della

Costituzione

(in

termini

sostanzialmente identici, con alcune precisazioni, si è espressa la Corte stessa con la sentenza n.191 del 2006). La norma costituzionale, infatti, fissa come criterio generale di riparto quello della situazione giuridica soggettiva fatta valere e considera eccezionale il criterio della materia, rendendo possibile la giurisdizione esclusiva solo “in particolari materie indicate dalla legge”. Come ho detto, accanto alla giurisdizione di generale di legittimità, in alcune ipotesi è assegnata al giudice amministrativo una giurisdizione estesa anche sui diritti soggettivi (c.d. giuris...


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