Thomas Mann - La montagna incantata PDF

Title Thomas Mann - La montagna incantata
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Thomas Mann La montagna incantata Der Zauberberg - 1924 Traduzione e Introduzione di Ervino Pocar Edizioni Corbaccio - 1992 > Scansione e digitalizzazione: Yorikarus @ TNTVillage < INTRODUZIONE Delle circostanze nelle quali concepì “La montagna incantata” e del lunghissimo periodo di dodici an...


Description

Thomas Mann La montagna incantata Der Zauberberg - 1924

Traduzione e Introduzione di Ervino Pocar Edizioni Corbaccio - 1992 > Scansione e digitalizzazione: Yorikarus @ TNTVillage <

INTRODUZIONE

Delle

circostanze

nelle

quali

concepì

“La

montagna incantata” e del lunghissimo periodo di dodici anni, dal 1912 al ’24, in cui l’opera andò prendendo forma e giunse alla maturazione e al compimento, Thomas Mann diede più volte esplicite notizie, in particolare nel suo Saggio autobiografico del 1930 e poi, in parte con le stesse parole, nella lezione che, durante l’esilio americano, tenne nel maggio

1939

agli

studenti

dell’università

di

Princeton: lezione che è riportata integralmente in appendice a questo volume. Tali notizie, nonché alcuni importanti passi delle lettere

recentemente

dall’obbligo

di

pubblicate,

parlarne

ci

dispensano

diffusamente.

Diremo

soltanto che, come altre volte, l’argomento del

progettato breve racconto che doveva essere un inserto nelle “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”, gli crebbe per così dire tra le mani. Le

cose

hanno

una

loro

volontà.

Già

“I

Buddenbrook”, concepito sul tipo dei brevi romanzi del norvegese Kielland, salirono a mille pagine, perché al nucleo, che doveva essere centrale, della storia di Hanno, il narratore si sentì portato ad aggiungere la storia dei suoi antenati, del padre, del nonno, del bisnonno. Così “La morte a Venezia” doveva essere un raccontino adatto alla rivista “Simplicissimus” e diventò un breve romanzo. E così il soggetto della “Montagna incantata” venne a trovarsi in un tale centro di “rapporti” da richiedere, per il tono discorsivo che aveva assunto e per la sua “ampiezza umoristica”, molto più spazio di quanto non fosse previsto. In quanto all’intenzione e al fine dell’opera l’autore stesso ebbe a dire durante il lavoro:

“L’interesse alla morte e alla malattia, ai fenomeni patologici, alla decadenza non è che una variata espressione dell’interesse alla vita, all’uomo, come dimostra la facoltà umanistica di medicina: chi s’interessa ai fatti organici, alla vita, s’interessa in particolare alla morte; e potrebbe essere oggetto di un

romanzo

avente

per

tema

la

formazione

spirituale dell’individuo, mostrare che l’esperienza della morte è infine un’esperienza di vita, e che conduce all’uomo”. Quando Thomas Mann faceva questa allusione a un ipotetico romanzo, esso era già a buon punto. E ad opera compiuta confessò: “Il mio progetto era di dare una storia grottesca dove il pensiero della morte che era stato il motivo della novella veneziana doveva essere volto al comico: qualcosa dunque come un dramma satiresco aggiunto a ‘La morte a Venezia’”. E oltre a ciò si legge di “un’opera dal vasto orizzonte interiore, con elementi politici,

filosofici e pedagogici, che costituisce un tentativo di rinnovare il Bildungsroman”, sicché il romanzo rispecchia

“una

formazione,

un’educazione

interiore, e al tempo stesso qualcosa di simile a una parodia”. In queste poche righe ricorrono tutti gli elementi che compongono il grandioso affresco di questo libro. Esso è la storia di una formazione, un romanzo pedagogico, paragonabile ad altre opere della letteratura tedesca, come per esempio al Guglielmo Meister di Goethe o ad Enrico il Verde di Gottfried Keller. Hans Castorp, il giovane ingegnere amburghese, entrato in un mondo per lui nuovo, passa di stupore in stupore (in quel Thaumàzein che, secondo la saggezza antica, è fonte e principio di ogni conoscenza) e impara. Comincia a imparare da suo cugino Joachim a muoversi in quel mondo d’alta montagna; continua ad imparare dai dibattiti di forze avverse, dalle discussioni dei due pedagoghi

che si contendono il suo spirito, il sereno umanista italiano

Settembrini,

liberale

e

assertore

del

progresso umano, e Naphta, l’ascetico e violento gesuita d’origine ebraica, comunista e dogmatico negatore

dell’umanesimo

progressista;

impara

dall’amore per Claudia e dalla personalità di Peeperkorn finché, potenziato e maturato, il colpo di tuono del 1914 lo fa scomparire alla nostra vista. Egli si evolve nel tempo, non è quindi un personaggio già compiuto e delineato, ma, a rigore, nonostante l’evoluzione e gli esperimenti non si può dire che raggiunga una forma conclusiva. Il suo ultimo destino infatti è incerto: non sappiamo quale sarà la sorte di Castorp avviato alla trincea. Ma questo è un carattere comune a tutti i romanzi: di essi è sempre possibile una continuazione, come dimostrano i romanzi ciclici e come la vita stessa conferma

con

l’illimitato

susseguirsi

delle

generazioni. L’orizzonte interiore non solo è vasto, ma si direbbe sconfinato. E qui dobbiamo ammirare la sbalorditiva cultura dell’Autore quando guida il suo protagonista da una scoperta all’altra nei campi più svariati: anatomia, fisiologia, radiologia,

patologia,

farmacologia,

musica,

botanica,

psicologia,

biologia,

meteorologia, occultismo, filosofia, teologia, politica, ecc. Non importa se oggi, dopo mezzo secolo di studi scientifici, qualche sua ipotesi è crollata. Vero è che al suo occhio acuto nulla sfugge di quanto avviene intorno a noi e dentro di noi. L’uomo non ha misteri per lui, egli lo spia con precisione realistica nei gesti, nell’espressione di uno sguardo, nelle

intenzioni,

palesi

o

mascherate,

e

nei

particolari anormali del fisico o del pensiero. Con

un

pessimismo

che

risale

alla

sua

venerazione per Schopenhauer e Wagner egli scrive qui il grande poema della morte. La scelta stessa

del luogo, un sanatorio di tubercolotici, destinati la maggior parte a morire di consunzione, ci rende pensosi e rivela quanto sia sentito il suo dolore per l’umanità sofferente. Ma se la morte (non senza l’amore, poiché “fratelli, a un tempo stesso, amore e morte ingenerò la sorte”) domina la vita con tutti gli echi del romanticismo tedesco (basterà pensare a Novalis), se per arrivare alla salute dello spirito è necessario passare attraverso la malattia e la cognizione della morte, se al Paradiso si può salire soltanto dopo essere discesi nell’Inferno e aver scalato il Purgatorio, è chiaro che questo poema della

morte

è

in

sostanza

un

avviamento,

un’iniziazione, un inno alla vita. Infatti, “l’unico modo sano e nobile, l’unico modo ‘religioso’ di considerare la morte consiste nel comprenderla e sentirla

come

parte

e

accessorio,

come

sola

condizione della vita”. E nel capitolo in cui si legge quello

stupendo

pezzo

di

bravura

che

è

la

descrizione della tormenta di neve e del sogno di Castorp intorpidito dal gelo, la simbolica visione di un

mondo

ideale, sereno e

armonioso,

e

di

un’umanità concorde e rispettosa del prossimo, gli apre gli orizzonti della mente e gli fa intendere il valore della morte e il mistero della sapienza e dell’amore. Egli comprende che la morte è una grande potenza, che ad essa dobbiamo, sì, restare fedeli, ma senza dimenticare che la fedeltà alla morte e al passato è soltanto tetra voluttà e misantropia. Alla

morte

si

oppone

l’amore,

al

passato

l’avvenire. Le riflessioni del giovane si condensano quindi nelle parole che possiamo considerare il punto più alto del romanzo, in cui si assomma e si accentra il suo significato: “Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri”.

Ma si adeguerà il nostro eroe a questa scoperta? Già la sera stessa, ritornato sano e salvo al sanatorio,

mentre

le

sue

intuizioni

stanno

impallidendo, egli non comprende più esattamente il pensiero che ha concepito un’ora prima. La famosa

ironia

manniana

adombra

la

visione

ottimistica e la trasforma in una tragica delusione. Un velo che si stende su tutto il libro. La vita intera, con i lati belli e con le brutture, è osservata mediante una lente spessa che ne svela i minimi particolari, mediante il cannocchiale a rovescio che, senza perdere i particolari, concentra il quadro e permette di vederlo non solo nel suo insieme, ma anche con opportuno distacco. E di qui nasce non soltanto l’ironia del bonario sorriso (come quando leggiamo di quel commerciante che, finché era vivo, rivolgeva la sua attenzione al commercio dei fiori), ma anche la sottile e talvolta amara osservazione delle debolezze e contraddizioni

umane, quel modo (che ricorda la romantica ironia heiniana) di assistere dall’alto agli avvenimenti narrati e di sorriderne, come se non fosse l’Autore a inventarli. Egli stesso una volta avverte che, al pari dei lettori, anche lui si prende la libertà di avere le sue idee personali su quanto viene narrando. E ha il diritto di stupirsene: “A questo punto sta per affacciarsi un fenomeno, del quale il narratore stesso farà bene a stupirsi, affinché il lettore non abbia a stupirsi troppo a sua volta”. Lo scrittore non è di quelli che proiettano il racconto su uno schermo

obiettivo

e

in

quanto

narratori

scompaiono: egli invece è presente e partecipa alle vicende con i suoi commenti spesso ironici. Non fu lui stesso a dire che “già il fatto di aver rinnovato il Bildungsroman tedesco sulla base della tubercolosi è una parodia”? Il lettore, per parte sua, anche quando non è invitato a farlo, assiste con sempre desta curiosità alla vita multiforme che si

svolge nella “provincia pedagogica” del sanatorio, al plastico movimento dei personaggi, tutti vivi e inconfondibili, al giuoco musicale wagneriano dei caratterizzanti scoppiettio argomenti

motivi

delle che,

cattolicesimo

al

conduttori,

discussioni oltre

ai

pietismo

sui

citati,

al

magico

più

svariati

spaziano

protestante,

dal dalla

massoneria alla pena di morte, dalla tortura alla cremazione

dei

cadaveri,

dalle

produzioni

del

cinematografo a quelle del grammofono, e così via, traendo la sicura e convinta impressione che quest’opera (per la sua mole l’Autore la definì “un mostro”) è un fedele, complesso, esauriente ritratto della civiltà occidentale di cinquant’anni fa e, nella sua incantata fusione di prosa e poesia, di vastità scientifica e di arte raffinata, il libro, forse, più grandioso che sia stato scritto nella prima metà del secolo in cui viviamo. Ervino Pocar

PREMESSA

La storia di Hans Castorp che ci accingiamo a raccontare - non già per amor suo (il lettore troverà in lui un giovane semplice, ma simpatico) bensì per amore della storia che ci sembra altamente degna di essere narrata (e qui dovremmo pure far notare in favore di Hans Castorp che si tratta della storia “sua”, ché non a tutti capitano tutte le storie) questa storia è molto lontana nel tempo, è, diremo così, già tutta coperta di nobile patina storica e va assolutamente raccontata nel tempo del più remoto passato. Per una storia questo non sarebbe un danno, ma piuttosto un vantaggio; le storie infatti devono essere passate, e più sono passate, si potrebbe dire, tanto meglio per esse in quanto storie e per il

narratore, il mormorante evocatore del passato remoto.

Essa

però

viene

a

trovarsi

in

una

condizione, nella quale si trovano oggi anche gli uomini e tra questi non ultimi i narratori di storie: è molto più vecchia dei suoi anni, la sua età non si può calcolare a giorni né la sua grave anzianità a giri di sole; deve, insomma, la misura del suo passato non proprio al “tempo”… Affermazione con la quale si vuole alludere e accennare di passaggio alla problematicità e alla singolare duplice natura di questo misterioso elemento. Ma, per non rendere artificialmente oscuro uno stato di cose chiaro, diremo che, se la nostra storia è così largamente passata, lo deve al fatto di svolgersi “prima” di un certo termine, di una crisi che frastagliò a fondo la vita e la coscienza… Si svolge o, per evitare a bella posta ogni presente, si svolse e si è svolta in addietro, in giorni remoti, nel mondo che precedette la grande guerra, dal cui

principio sono cominciate tante cose che forse non hanno ancora cessato di cominciare. Prima dunque, anche se non molto tempo prima. Ma la natura remota di una storia non è tanto più profonda, perfetta, fiabesca, quanto più recente è il suo passato? Oltre a ciò potrebbe darsi che la nostra, per sua intima natura, abbia anche qualche altro punto di contatto con la fiaba. La narreremo ampiamente, con esattezza e a fondo… Quando mai, infatti, una storia è stata divertente o noiosa in proporzione allo spazio e al tempo che ha richiesto? Senza temere il discredito in cui versa la meticolosità siamo anzi propensi a credere che soltanto ciò che va in profondità riesce a divertire. Perciò il narratore non smaltirà la storia di Hans in un batter d’occhio. I sette giorni della settimana non saranno sufficienti e nemmeno sette mesi. Meglio di tutto sarà che egli non preveda in anticipo

quanto tempo terreno dovrà passare intanto che essa lo tiene impegnato. Non saranno, se Dio vuole, addirittura sette anni! E così possiamo cominciare.

Capitolo primo

L’arrivo

Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell’estate da Amburgo, sua città natale, per DavosPlatz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane. Da Amburgo fin lassù però il viaggio è lungo, troppo lungo, a dir il vero, per un soggiorno così breve. Si passa attraverso parecchi paesi, in salita e in

discesa,

dall’altipiano

della

Germania

meridionale sin giù alle rive del “Mare svevo” e col battello sulle sue onde tremolanti, sopra abissi che un tempo erano considerati inesplorabili. Di lì il viaggio si fraziona dopo esser progredito comodamente

per

linee

dirette.

Si

hanno

interruzioni e intoppi. Nei pressi di Rorschach, località in territorio svizzero, ci si affida di nuovo

alla

ferrovia,

ma

si

arriva

sol

tanto

fino

a

Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti

a

cambiare

treno.

Dopo

una

sosta

piuttosto lunga in quella zona ventosa e poco attraente, si prende una linea a scartamento ridotto, e nel momento in cui la locomotiva, piccola ma, come si vede, dotata d’insolita potenza di trazione, si mette in moto, comincia la parte propriamente avventurosa del viaggio, una salita ripida e costante che pare non debba finire mai. Infatti la stazione di Landquart si trova a un’altezza relativamente modesta; ora invece, per una via scoscesa tra rocce selvagge, si monta davvero verso l’alta montagna. Hans Castorp (così si chiamava il giovane), con una valigetta di coccodrillo, dono del suo tutore e zio, il console Tienappel (per dire subito anche questo nome), col suo cappotto invernale, che oscillava appeso a un gancio, e la coperta da viaggio

arrotolata, si trovava solo sui cuscini grigi di un piccolo compartimento; teneva il finestrino aperto e, siccome il pomeriggio si faceva sempre più fresco, il figlio di papà, delicatuzzo com’era, aveva alzato il bavero del soprabito estivo, ampio secondo la moda e foderato di seta. Sul sedile, accanto a lui c’era un libro in brossura, intitolato Ocean steamships che al principio del viaggio egli aveva ogni tanto compulsato; ora invece stava là trascurato, mentre l’invadente respiro della locomotiva ansimante ne insudiciava la custodia con bruscoli di carbone. Due giornate di viaggio allontanano l’uomo (specie l’uomo giovane le cui radici sono ancora poco abbarbicate alla vita) dal mondo di tutti i giorni,

da

quelli

che

egli

considerava

doveri,

interessi, affanni, previsioni, assai più di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo si dipana tra lui e la sua residenza

sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. Come quest’ultimo, esso genera oblio, ma lo fa staccando la persona dai suoi rapporti e trasportando l’uomo in uno stato di libertà originaria… anzi, trasforma in un baleno persino il pedante borghese in una specie di vagabondo. Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l’aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità. Tale fu anche l’esperienza di Castorp. Egli non aveva voluto attribuire particolare importanza a quel viaggio, né parteciparvi con tutta l’anima. Era stato invece del parere di sbrigarlo in fretta perché era necessario farlo, di ritornare tale e quale come era-partito e di riprendere la sua vita esattamente nel punto in cui per un momento aveva dovuto

lasciarla. Fino al giorno prima era stato immerso nella solita cerchia di pensieri, aveva riflettuto sul recente passato, sul suo esame, e sull’immediato futuro, sul suo ingresso come praticante nella ditta Tunder & Wilms (cantiere navale, fabbrica di macchine e produzione di caldaie) e aveva sorvolato su quelle tre prossime settimane con quel tanto d’impazienza che il suo carattere consentiva. Ora però gli pareva che le circostanze richiedessero tutta la sua attenzione e non fosse lecito prenderle sotto gamba. Quel sentirsi sollevato in regioni nelle quali non aveva mai respirato, dove, come sapeva, regnavano condizioni di vita del tutto insolite, specificamente

scarne

e

rarefatte,

cominciò

a

eccitarlo, a mettergli addosso una certa ansietà. La sua casa e la vita ordinata erano non solo assai lontane, ma anzitutto molti metri più in basso di lui, che ancora continuava a salire. Sospeso fra quelle e l’ignoto si domandava come se la sarebbe

passata

lassù.

Non

era

forse

prudente

e

pregiudizievole che, nato e avvezzo a respirare soltanto qualche metro sopra il livello del mare, si facesse trasferire all’improvviso in quelle regioni estreme senza essersi trattenuto almeno un paio di giorni in un luogo di media altezza. D...


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