Tu sanguinosa infanzia PDF

Title Tu sanguinosa infanzia
Course Statistica aziendale
Institution Università Europea di Roma
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Tu sanguinosa infanzia...


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TU, SANGUINOSA INFANZIA. MICHELE MARI I GIORNALINI Un professore universitario sta per diventare padre e trova impossibile l’idea di regalare le sue prime letture, i giornalini, a suo figlio Filippino. Giornalini unica cosa positiva della sua infanzia, mezzo per ripararsi dai suoi problemi. Decide così, a suo malincuore, di chiudere tutti i fumetti che stanno nella sua libreria in una scatola e metterli in cantina, in modo tale che il figlio non possa prenderli e scarabocchiarli. Si riferisce ai giornalini chiamandoli “documenti”, “fossili”, cose “sacre” dicendo che: “sono ciò che solo io so cosa sono”. Parla del figlio come una creatura, amata certo, ma sbavante. Vuole sottrarre i giornalini alla contaminazione dello spiritello. Rivolgendosi al figlio non ancora nato dice che questi giornalini sono la sua essenza, il fiore della sua infanzia e che togliendoglieli lo si uccide. Infanzia cosa troppo personale anche da condividere con il figlio L’UOMO CHE UCCISE LIBERTY VALANCE Un padre porta il figlio, ormai adulto davanti ad una porta chiedendo se sapesse cosa essa contenesse. Al suo interno c’erano tutti i vecchi giocattoli del figlio che aveva smarrito, scambiato oppure ceduto. Come delle vecchie biglie, il suo amato orsetto di peluches che gli è stato sottratto dal padre all’età di 16 anni (l’unico che si differenzia dagli altri). Il figlio ammette solo in questo momento di voler così bene al padre. Il padre vuole fare capire al figlio quanto non abbia dato tanto peso ai ricordi della sua infanzia, e quando questi ultimi siano di grande valore sentimentale. Alla fine del racconto il padre, per cambiare discorso e sdrammatizzare chiede al figlio: “vuoi che parliamo di Lemmy Caution? Di Liberty Valance?” e lui risponde di sì. Il padre vuol sdrammatizzare ma fargli capire che ha sbagliato. Infanzia le cose di valore della nostra infanzia si capiscono solo da adulti LE COPERTINE DI URANIA Un nipote ricorda i momenti passati con il nonno, ormai deceduto, a leggere i giornalini di Urania (copertine). Descrive questi ultimi come dei mostri con una serie di aggettivi a tratti dispregiativi. Gli urania del nonno erano per lui la parte scura, cupa della letteratura. Anche senza leggere quei libri conosceva tutte le copertine, i dettagli. Alcune le aveva stampate nella testa, ma altre doveva continuare, insistentemente a guardarle, come se lo chiamassero. Erano belle e spaventose, tanto da chiedere un continuo approfondimento. Presi in sequenza i titoli producevano effetti di saturazione, rifrazione, di espansione. Le copertine sono numerate e dice che il nonno è arrivato solamente ad un certo numero, perché poi è deceduto. MI HANNO SPARATO E SON MORTO Si riferisce al gioco di un bambino, in cui egli finge di essere in un canyon e i cui nemici gli sparano alle spalle. Nel suo gioco egli non vede mai in faccia chi gli spara, lo colpiscono alle spalle. Il bambino ogni volta cade a terra dicendo: “mi hanno sparato e sono morto”. Il bambino finge di mettere la sella al proprio cavallo e andare a combattere. Quando va a scuola prova un odio cupo verso i compagni, e ripeteva tra se “mi hanno sparato, sparato, sparato” per sentirsi meglio. Modo per estraniarsi dalla vita reale. L’ORRORE DEI GIARDINETTI I ricordi da parte di una persona del parchetto in cui giocava da piccolo. Si ricorda in anzi tutto delle ginocchia che si sporcavano di erba e terra; poi delle mamme, la cui presenza dava a tratti fastidio, ma che era necessaria perché dava anche un senso di protezione e di tranquillità. Le mamme le

ricorda sedute sulle panchine, che facevano a maglia e parlavano tra di loro. Poi degli sputi suoi e degli altri bambini, e di quanto non gli piacesse quell’ambiente sporco. Si ricorda dei giri con la sua bicicletta e del chiosco, pieno di cose che gli piacevano (come le granite), che non gli piacevano (le merendine) e che lo incuriosivano (le liquirizie). Del chiosco ricorda come tutti i suoi coetanei chiamavano il proprietario “capo”, e che lui si rivolgeva all’uomo soltanto chiamandolo “signore”, sapendo di fare la cosa giusta ma sentendosi estraneo. Lui si permetteva di mangiare tutto, perché mentre gli altri avevano la madre a preparare la cena, lui non vive con la mamma e non deve sentirsi in colpa. Infine ricorda la fontana, i vecchietti che lo giudicavano perché si divertiva (anche se lui dice che non era così) e il tragitto verso casa, in cui incontrava sempre volti familiari. Infanzia tema della madre, da una parte più libero dall’altre gli manca qualcosa. OTTO SCRITTORI Il narratore parla di otto scrittori, tanti affini, da poter affermare che fossero lo stesso scrittore: Conrad, Defoe, London, Melville, Poe, Salgari, Stevenson, e Verne. Tutti scrivono del mare. Nel corso del racconto Mari inizia a scartarli uno alla volta, fingendo di avere dei veri e propri dialoghi con questi ultimi. I primi 5 sono stati abbastanza facili da scartare: è come se fossero messi in scala, dal meno importante al più importante. Alla fine rimasero solamente Melville, Conrad e Stevenson. La battaglia finale fu tra Melville e Stevenson. Infine vince Melville. Ognuno di questi autori furono un tassello importante nell’infanzia dell’autore. Egli sostiene che siano così diversi ma anche così tanto simili, che i loro personaggi possano essere considerati parte di un unico grande racconto. In questo racconto si annulla la distinzione tra vita e letteratura, è come se l’autore non volesse lasciare a nessun costo la sua infanzia. Le otto voci iniziano a fondersi in quella di un unico autore, quello che possiede la chiave di accesso al suo cuore. Ma quando queste voci si fanno troppo insistenti, egli sostiene che qualcosa non va. Ogni scrittore viene “ripudiato”, con la consapevolezza che ogni rinuncia è una ferita. Si avvia verso un cammino di ricerca dell’unico “vero” autore dell’infanzia. Il cammino si conclude con l’ultimo rimasto Melville, con il suo Moby Dick. Alla fine del racconto, però, Mari ribalta tutto e ricompone a bordo del Pequod le otto voci, e allora tutti si ritroveranno di nuovo. Il senso del racconto è che è impossibile tentare di liberarsi dell’infanzia, l’infanzia non avrà porto di destinazione (morte). LA FRECCIA NERA Nella biblioteca della casa di campagna dei nonni, l’autore inizia a cercare un libro da leggere. Quando scelse fu più per sfinimento che per convinzione, inizialmente era indeciso fra tre libri: la freccia d’oro di Conrad, la freccia Nera di Stevenson e la freccia bianca di Cooper. La sua scelta cadde infine sulla freccia Nera. Finita la lettura, dopo tre giorni, venne informato dal nonno che sarebbe venuto il padre per una visita di alcuni giorni. L’autore spiega che il suo rapporto con il padre non era dei migliori, necessitava di molti chiarimenti, era un rapporto in cui mancava l’espressione dell’affetto. Prima di allora il padre non era mai andato a trovarlo nella casa dei suoi suoceri, definiti dall’autore “alieni” per il padre. Quando arrivò il padre di buon umore, gli annunciò di avergli portato un “presente” (come egli chiamava i regali). Gli porse un libro, e pur sembrando impossibile era “la freccia nera” di Stevenson. L’autore fa quindi due pensieri, il primo il fatto che la sua ottima scelta di quattro giorni prima era in realtà orribile, il secondo che la scelta non era una conseguenza della scelta paterna, ma qualcosa di costruttivo. I suoi pensieri vanno al senso di colpa di aver già letto quel libro, del fatto che il padre avesse speso dei soldi per un libro da lui già letto. Quel libro non poteva piacergli, perché oltre ad averlo appena letto, una rilettura deve nascere dal desiderio. Il gesto di affetto del padre non può raggiungerlo. Simulò l’entusiasmo, l’affetto e l’impazienza di iniziare a leggere il libro. Quando alla sera si misero a leggere, il padre un manuale dell’università e lui quel “maledetto libro” facendo finta di seguire le

parole, si rese conto che la perdita di verità nel rapporto era diventata irreversibile. Cercando di nascondere al nonno il fatto che stesse leggendo di nuovo lo stesso libro gli venne in mente il fatto che le due edizioni potessero essere diverse. E così, infatti, era. Globi di gioia lampeggiarono nella sua mente, in quanto poteva illudersi della non completa coincidenza dei due libri. All’inizio del libro lesse da una parte Nel pomeriggio e dall’altra in un pomeriggio: si sentii salvo. Iniziò a confrontarli, non per stabilire la superiorità della seconda edizione, ma per scoprire la loro diversità, solo in questo modo il regalo del padre sarebbe stato accolto come lo meritava. Inoltrandosi nel romanzo senti di poter inviare al padre affetto, poche ore prima di finire il libro pensò di telefonargli per dirgli che il libro gli era piaciuto. Ma alla fine non disse nulla. CERTI VERDINI Racconta la passione per i puzzle che coltivava con sua madre. Il primo era un paesaggio spagnolo del diciottesimo secolo, composto da settecentocinquanta pezzi. Lui e sua madre dividevano i pezzi per colorazione o grana in alcune tazze, pentolini. Spiega le regole insegnatoli da sua madre per la costruzione di un puzzle. Per arrivar a collocare un pezzo dovette aspettare il puzzle successivo: un Hans Holbein da mille. Descrive il pezzo come se si sciogliesse nel quadro come una goccia di mercurio. Il corretto inserimento del pezzo segnò la sua iniziazione alla sublime disciplina. Descrive sua madre come un mostro di bravura, e nel corso di due anni anche l’autore acquisì destrezza per impegnarla in competizioni. Al terzo anno raggiunse il suo livello. Quando, dopo altri tre anni, finì una sfida difficilissima (quattromila). La madre lo abbracciò e ne fu molto felice, confidandogli che ne era certa. Egli spiega che fu anche un modo per imparare la storia dell’arte in maniera non scolastica, attraverso i dettagli e la fisicità delle pennellate. Sua madre, che da tempo si teneva sopra alla soglia dei cinquemila pezzi, scese al livello più basso per insegnare al figlio. Dopo di che lo trascinò con lei sopra i cinquemila. Si dovrebbe intraprender un puzzle non per passare il tempo ma solo per amore di tale cimento in se stesso. Imparò da sua madre che il momento più idoneo per cominciarne uno è quando siamo oberati di impegni, nell’urgenza delle cose serie. Occorre che l’opera si dissolva nel momento in cui si completa, proprio perché l’inutilità deve essere perfetta. Il puzzle, secondo l’autore, non dovrebbe mai essere esibito ad estranei. Esauriti tutti quelli in produzione dovevano attenderne di nuovi. La questione del rifacimento era troppo delicata. L’autore fa un sognante viaggio d’iniziazione ed apprendimento tra madre e figlio, una passione comune, trasmessa dalla prima al secondo, i due vengono trascinati da un’affascinante e straniante amore per i puzzle. Il loro legame rivive nelle migliaia di pezzi assemblati e si ciba della loro corsa al puzzle impossibile. CANZONI DI GUERRA Poche cose nel mono sono struggenti come le canzoni degli alpini. Queste canzoni, inspirate nella voce della madre dell’autore, accompagnano la sua infanzia. Parla del ricordo che ha della madre, che cantava lei. Le usava come fossero ninna nanne, fiabe. Il testamento del capitano, il protagonista adulto fa una interpretazione. Il capitano muore e il suo corpo viene diviso in 5 parti, il bambino prova a pensare quale parte del corpo va a chi. E IL TUO DIMON SONO IO Bambino fa un giro del cimitero con la morte, che gli mostra le tombe delle persone morte nella sua testa. Inizia un lungo viaggio di ricordi di litigate e di faide con i compagni e dei momenti nei quali per lui hanno cessato di esistere. Una metafora, non per indicare la morte reale dei singoli ragazzi ma per indicare l’esclusione dai ragazzi. Il protagonista si accorge di aver causato la morte dei suoi

LGGIU’ Dialogo di due anziani in una casa di riposo, flashback dei ricordi d’infanzia. Botta e risposta tra i due. Il racconto vuole infondere al lettore una forma di nostalgia. Tutto il bello della vita concentrato nell’infanzia....


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