Analisi 1 libro Iliade PDF

Title Analisi 1 libro Iliade
Course Cultura Greca
Institution Università degli Studi di Sassari
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Analisi libro 1 Iliade...


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Ogni Proemio diviso in invocazione alla musa e protasi; solitamente si trova nel primo libro. (1-7) L’Iliade si apre con la parola tematica MENIS, l'ira del protagonista Achille, che, offeso dal comandante della spedizione greca contro Troia, Agamennone figlio di Atreo, si ritira dalla guerra: senza il loro maggior campione, e anche per il volere di Zeus che ha promesso alla dea Teti, madre di Achille, di rendere in questo modo onore all'eroe, i Greci subiscono da parte dei Troiani rovinose sconfitte, che il poeta menziona sottolineando, oltre la morte, il rischio della mancanza di onoranze funebri, fobia suprema per i guerrieri. Poiché i lutti dei Greci sono dovuti all'assenza di Achille, il proemio fornisce una eloquente e quasi paradossale risposta agli interrogativi critici che spesso sono stati sollevati sull'effettivo protagonismo dell’eroe, dal momento che dallo scoppio della lite alla sua risoluzione nel libro XIX la focalizzazione raramente si appunta su di lui (con l'eccezione del IX libro, dove fallisce un tentativo di riconciliazione promosso da Agamennone); ma sul racconto delle vicende belliche la la sua mancanza determinante proietta un'ombra gigantesca. Il proemio non anticipa invece gli esiti indiretti della menis che formano la chiave di volta del poema: una soluzione di compromesso proposta dall'amico carissimo di Achille, Patroclo, porta quest'ultimo a combattere travestito da Achille e alla testa dei suoi Mirmidoni per dare respiro ai Greci; ma Patroclo è ucciso dal maggiore eroe troiano, Ettore, ed è per vendicarlo che Achille torna a combattere e uccide Ettore: la risoluzione della lite con Agamennone è a questo punto per lui una funzionalità collaterale, sbrigativamente adempiuta. Questa breve sezione mitografica, che copre meno di un mese dell’ultimo anno della guerra di Troia, è raccontata dal poeta ispirandosi alla Musa, una (indeterminata) delle dee figlie di Zeus e di Mnemosyne (la memoria) che presiedono all'attività intellettuale e che altrove nel poema vengono designate con un plurale anch'esso indeterminato. Il vero protagonista del poema non è, dunque, la guerra di Troia, ma l’ira. (8-21) Un'abile transizione interrogativa conduce dall'enunciazione dell'argomento del poema al corpo vivo della narrazione: è stato il dio Apollo a suscitare la lite tra Agamennone e Achille sterminando i Greci in punizione della colpa commessa da Agamennone contro il suo sacerdote Crise. Si noti come questo accenno ancora generico basti a sbilanciare pesantemente la valutazione autoriale della lite a tutto danno di Agamennone ben prima che siano stabilite anche le premesse della lite medesima. Crise dunque era venuto alle navi dei Greci per chiedere la liberazione della figlia, indicata appunto solo col patronimico Criseide e caduta prigioniera durante il sacco di Tebe Ipoplacia, la città di Eezione, padre della moglie di Ettore, Andromaca (ma lo verremo a sapere solo dal racconto di Achille alla madre Teti ai vv. 300-309): restano però motivi di Oscurità, sottolineati dal fatto che Crise non sembra essere istituzionalmente un nemico dei Greci, come mostra l'augurio che egli fa loro di conquistare la città e tornare felicemente in patria. Comunque sia, offre un ricchissimo riscatto, secondo la pratica che è usuale anche per i nemici: lo stesso Achille dichiara essere stata per lui usuale finché la morte di Patroclo non lo ha spinto a volere irriducibilmente la morte di ogni Troiano (XXI 99-105). Ulteriore e massimo elemento di credito che dovrebbe portare all'accettazione della richiesta di Crise è naturalmente il suo statuto sacerdotale, il cui messaggio implicito è che benefici o malefici compiuti nei suoi confronti possono essere come "trasferiti" al dio medesimo. Crise ne ostenta infatti i simboli, le bende sacre che avvolgono lo scettro. Bende di lana attorno a ramoscelli definiscono, almeno in età classica, lo statuto del supplice, ma Crise in ogni caso non è tale perché gli manca l'altro requisito essenziale, l'umiliazione di sé che il supplice attua neutralizzando la propria energia somatica attraverso il contatto col corpo (ginocchia, mento, mani) del supplicato: al contrario la sua sobria preghiera comunica un'impressione di grande dignità. (22-32) La risposta negativa di Agamennone contraddice l'accoglienza benevola che gli altri greci fanno a Crise e alla sua richiesta. Questa dissociazione tra il capo e la collettività altro segnale negativo nella raffigurazione di Agamennone, tanto più che le sue parole mettono in luce come opponendo a Crise un rifiuto egli non dia una valutazione diversa della situazione, ma semplicemente difenda interessi privati: in effetti Crise si era rivolto alla generalità dei Greci, e ad Agamennone e Menelao (neppure al solo Agamennone!) come loro rappresentanti, ignorando che la figlia fosse divenuta proprietà privata di Agamennone: di questo bene egli dichiara di non volersi privare, aggiungendo al rifiuto particolari crudeli (Criseide è destinata a seguirlo ad Argo) e una minaccia che contiene un'esplicita e pericolosa sfida alla divinità: Apollo non basterà a proteggere Crise se questi tornerà a importunare Agamennone. (33-42) Addolorato e umiliato, Crise chiede vendetta al suo dio, rivolgendogli una preghiera che ha la struttura tradizionale sia nell'enumerazione dei luoghi di culto (Crisa e Cilla, città della Troade, l'isoletta di Tenedo), sia nella concezione classica del do ut des, per cui il culto reso al dio autorizza a chiedere un ricambio che stavolta consiste appunto nella punizione dei Greci. (39) Sminteo" è un epiteto oscuro, apparentemente connesso con sminthos, "topo": Apollo protettore del raccolto e distruttore dei topi, o residuo di un antico culto teromorfico? (43-67) Apollo esaudisce il suo sacerdote, con rapidità solenne e sinistra. Le sue frecce, che simboleggiano la morte improvvisa, portano tra i Greci la pestilenza. Dopo 9 giorni, un tempo magicamente connotato, Achille, non Agamennone, convoca l'assemblea dei Greci per cercare un rimedio alla situazione. Oggettivamente colpevole della sciagura pubblica, Agamennone è anche socialmente inefficiente e passivo nei suoi confronti: il fatto che sia Era a suggerire questa mossa ad Achille rientra nel regime della cosiddetta doppia determinazione, per cui dio e uomo indirizzano parallelamente e indipendentemente l'azione, e non sminuisce la solerzia dell'eroe. Il rimedio da lui proposto è il solo che si possa escogitare: capire le cause dell'ira divina, in prima istanza ipoteticamente individuate in qualche trascuratezza che abbia privato il dio del culto a lui dovuto. (68-91) Esperto di scienza divina tra i Greci è Calcante; ma l’indovino ha paura di parlare perché le sue parole irriteranno un uomo potente, contro il quale chiede ad Achille protezione. L’allusione ad Agamennone è già trasparente: rassicurando il profeta, Achille la esplicita con una limpida, ma non provocatoria, esibizione della propria sicurezza. (92-120) Agamennone, come Calcante aveva previsto (ma potremmo anche dire, cascando nella trappola) si irrita terribilmente per la denuncia pubblica delle sue responsabilità: la verità di Calcante non viene negata, ma viene associata a una negatività che costantemente colpirebbe Agamennone: benché l'allusione resti generica, è inevitabile pensare al responso che Calcante diede in Aulide all'inizio della guerra, rivelando che la flotta greca non avrebbe potuto partire se prima non fosse stata sacrificata ad Artemide la figlia di Agamennone Ifigenia. Poi Agamennone giustifica il rifiuto opposto a Calcante con la sua predilezione nei

confronti di Criseide, da lui addirittura posposta a Clitennestra, sua moglie legittima. Ma l'elogio di Criseide serve a mettere in rilievo l'entità danno subito nel restituirla al padre, come Agamennone non esita a fare nell'interesse del bene pubblico, nei confronti del quale vanta quindi un credito di cui è lecito dubitare dal momento che esso arriva a riparare (e per di più tardivamente) un danno che la sua personale e privata condotta ha arrecato ai Greci. Invece il capo supremo dei Greci lamenta nella perdita di Criseide, al di là delle doti di lei, quella del gheras, del "premio" di guerra che attesta il suo ruolo militare e sociale: i commilitoni pensino dunque a preparargli subito un premio sostitutivo. (121-147) La risposta di Achille è particolarmente moderata e ragionevole, anche se i vocativi iniziali associano all'onore che spetta al capo supremo una critica alla sua avidità: non viene contestato il diritto di Agamennone di avere un premio sostitutivo, ma l'inopportunità e impossibilità di averlo subito, quando il bottino di guerra è già stato diviso, e l'unico modo di risarcire Agamennone sarebbe quello di danneggiare qualcun altro dei capi greci (che per di più Achille evita di aggiungere, subirebbe la perdita essendo perfettamente incolpevole a differenza dello stesso Agamennone). Ma il capo supremo potrà essere risarcito con ampiezza dopo la presa di Troia; in questa proposta di dilazione Agamennone legge evidentemente una provocazione, perché la ignora nella sua furiosa replica, che è tutta fondata sul principio di autorità e che per la prima volta personalizza violentemente il dissenso: dicendo infatti che non e possibile che lui perda il suo gheras, mentre i subalterni lo conservano, Agamennone sceglie a rappresentarli proprio il suo interlocutore, che lungi dal rendersi conto di questa impossibilità, ha appena dichiarato di considerare impossibile la soluzione opposta. Se dunque i Greci non gli offriranno spontaneamente un risarcimento sarà Agamennone stesso a esigerlo, togliendolo a qualche altro tra i capi greci, i maggiori e più rappresentativi, se e vero che subito dopo vengono indicati come i possibili capi dell'ambasceria che riporterà Criseide al padre. La digressione sull'urgenza di questo compito dovrebbe, nelle intenzioni di Agamennone, sviare il discorso dalla spinosa questione del gheras sostitutivo, come se egli avesse voluto affermare la propria autorità, ma non intendesse spingere agli estremi lo scontro discorsivo. (148-171) Achille, peraltro, non è disposto a chiudere neanche provvisoriamente la questione: la sua inserzione nella lista delle possibili vittime è per lui sufficiente a concretizzare una concreta minaccia di perdita del suo gheras; tuttavia gli argomenti da lui avanzati non mirano a difendersi da questo rischio, quanto a stigmatizzare l'ingiustizia del comportamento di Agamennone. Achille risale infatti al fondamento dell'autorità così arrogantemente vantata dal suo interlocutore, e ne demistifica la fragilità: prima ancora di essere i capi dell'armata, lui e Menelao (intesi come unità solidale) sono i beneficiari della guerra, che non è scoppiata per torti che Achille o altri abbiano subito dai Troiani, ma solo per gli interessi familiari dei figli di Atreo. Verso gli altri Greci essi sono dunque non in credito ma in debito, e questo debito si accresce nella prassi quotidiana della guerra, giacché il capo supremo, in quanto tale, si arroga ogni volta il diritto di scegliere il premio migliore, anche se non ha certo fornito il maggiore contributo al successo militare: se chi ha svolto la maggior parte del lavoro deve temere di perdere anche quel premio minore che già rappresenta un'ingiustizia ai suoi danni, Achille non ha dubbi a rescindere un contratto che si presenta ai suoi occhi come l'obbligo di dare senza ricevere, più ancora che sul piano dei beni materiali, della timè, dell'onore di cui essi rappresentano la forma tangibile. (172-187) Agamennone è pronto a screditare l'avversario declassando a "fuga" -l'accusa più oltraggiosa che possa muoversi a un guerriero - la minaccia di Achille di ritornare in patria; ma l'improbabilità di accusare di vigliaccheria Achille si misura anche in una contraddizione soggettiva con le successive parole del sovrano, che dichiara di avere odioso Achille perché sempre ti sono chiari i litigi, le battaglie, le guerre": in questo elenco si confondono volutamente ma improvvidamente l'esercizio istituzionale e lodevole dell'aggressività che dà luogo al valore bellico dell'aretè con quello che va a danno della propria comunità e che Agamennone stesso, piuttosto, dovrebbe rimproverarsi. Altro segnale d'inattendibilità è il tentativo di sminuire il valore di Achille attribuendolo a un dono divino: nell'orizzonte omerico il rapporto privilegiato con il divino non sminuisce ma accresce i meriti dell'individuo, dei quali rappresenta la sanzione oggettiva. A questo punto il conflitto è arrivato al culmine, e la minaccia contro Achille non resta più nell'esemplificazione generica, ma si concretizza in un progetto che verrà puntualmente eseguito: come compenso per la cessione di Criseide, Agamennone si prenderà la schiava di Achille, Briseide, marcando in tal modo la propria superiorità gerarchica, e scoraggiando anche per il futuro le velleità, che chiunque possa avere, "di parlare di fronte a me e dichiararsi mio pari". (188-244) Il dilemma che si pone ad Achille, se vendicare o no immediatamente l'offesa con l'uccisione di Agamennone, è risolto nel senso dell'autocontrollo; Achille se ne riconosce esplicitamente il merito per quanto riguarda la trascrizione della vicenda interiore nei termini "esterni" del dialogo tra umano e divino, come vuole il regime della doppia determinazione: gli compare infatti, visibile a lui soltanto, Atena, spedita da Era, che si preoccupa allo stesso modo di lui e di Agamennone. Ripetendo il messaggio della dea maggiore (tornano a 208-209 i vv. 195-196), Atena riconosce pienamente ad Achille il suo diritto di avere soddisfazione nell'offesa, ma gli chiede di accontentarsi dell'aggressione a parole, promettendogli che in futuro l'offesa stessa sarà riparata con "splendidi doni". È dunque in esecuzione dell'ordine, o dell'autorizzazione divina, che Achille investe con violenza Agamennone, aggravando le precedenti accuse: quello che si presentava come uno squilibrio tra meriti e benefici diventa adesso una circostanziata accusa di vigliaccheria: Agamennone rifiuta i rischi della battaglia (e di quella sua variante aristocratica che è il lochos, l'agguato "dove meglio si vede il valore degli uomini”, XIII 277). Per la prima volta alle accuse contro Agamennone si associa quella contro i compagni che non intervengono a impedire il suo sopruso: "gente da nulla", li chiama sprezzantemente Achille, legittimando dunque il fatto che la sua vendetta ricadrà sulla generalità dei Greci, e solo indirettamente sul suo offensore. Quanto alla forma di vendetta scelta, Achille giura con la massima solennità, individuando un futuro certo come è che lo scettro che ha in mano nell'assemblea non potrà più rifiorire: e giura non l'adempimento del suo progetto (si ritirerà in disparte dalla guerra, ma non sceglierà la forma definitiva che avrebbe il minacciato ritorno a Ftia), ma l'esito che esso avrà a danno dai Greci: essi saranno sconfitti e uccisi da Ettore, e Agamennone non potrà far nulla per loro. (245-284) Arrivato così il conflitto al suo culmine, un tentativo di conciliazione è compiuto dal vecchio Nestore, re di Pilo (presumibilmente la Pilo di Messenia). Egli chiede ai 2 litiganti di dargli retta adducendo il credito da lui posseduto verso eroi delle generazioni precedenti, che per ciò stesso vengono investiti del crisma di una superiorità nostalgicamente considerata. In

particolare, Nestore ricorda i Lapiti nella loro lotta contro i Centauri, scoppiata alle nozze di Piritoo con Ippodamia. Forse è la tradizionale amicizia con Piritoo a introdurre in questo contesto il nome dell'eroe ateniese Teseo (la cui intrusione è stata da altri considerata un'interpolazione di parte ateniese). Nestore interviene nella disputa con grande equilibrio: nella sostanza dà torto ad Agamennone, chiedendogli di rinunciare alla prevaricazione contro Achille, ma attribuisce ad Agamennone il diritto di vedere riconosciuta dall'avversario l'autorità di cui la prevaricazione medesima vuole essere il segno. Anche a prescindere dall'elezione a capo supremo della spedizione, fa capire Nestore, Agamennone può vantare su Achille la superiorità che gli viene dal possedere un regno più importante. L'ultima parola, però, è ancora rivolta ad Agamennone: tenga conto del valore insostituibile che ha per i Greci il contributo militare di Achille. (285-303) La scena si conclude con il fallimento della mediazione di Nestore. Agamennone rifiuta di compiere la resipiscenza richiesta presentando la lite - in perfetta malafede e ribaltamento della realtà - come il frutto della volontà di Achille di prevaricare e imporsi sugli altri; Achille lo interrompe formalizzando il suo rifiuto di prestare d'ora in poi obbedienza al rivale. Cederà Briseide senza resistenza, perché gliela tolgono quelli stessi che gliel'hanno donata, ma sfida Agamennone a togliergli qualche altra cosa del suo; allora scorrerà il sangue che oggi Achille non ha voluto o potuto versare; proprio la compensazione immaginaria per la mancata vendetta è alla radice della truce sfida di Achille, che nei fatti si riferisce a un'ipotesi improbabilissima (Agamennone è stato già trascinato dallo sviluppo delle circostanze e dal bisogno di riaffermare la propria autorità più lontano di quanto volesse, in un primo momento, arrivare). (304-348) Esiti dell'assemblea: si arma la nave che riporta Crise al padre, e il comando e affidato al re di Itaca Odisseo; gli araldi di Agamennone vengono incaricati di andare a prendere Briseide alla tenda di Achille, dove l'eroe si è ritirato assieme all'inseparabile Patroclo, figlio di Menezio. Gli araldi eseguono "controvoglia" l'ordine che li espone alla temibile presenza di Achille, ma l'eroe ha per loro squisita gentilezza e comprensione, e chiede loro soltanto la testimonianza del torto subito. "Controvoglia" anche Briseide li segue: finora si è parlato di lei sempre come oggetto dotato di un prevalente valore simbolico; ora emerge il suo essere persona, e il dolore che le provoca la sua separazione da Achille, ma anche Achille a IX 341-343 mostrerà quali tesori di affezione si nascondono dietro l'apparente anonimato oggettuale del premio che gli viene tolto. (348-412) Achille si confida con la madre in una scena commovente, inaugurata da un tratto essenziale della sua personalità, e fin qui non nota: il destino di Achille (sia o no l’effetto di una sua scelta, come viene detto a IX 410-416) è di avere vita brevissima: tanto più patetica risulta la frustrazione nell'onore che dovrebbe in qualche modo bilanciare lo sfortunato destino. Il racconto ripercorre (anche verbalmente, tornano i vv. 13-16 e 22-25) le vicende già note, e sfocia nella richiesta di intervenire presso Zeus, vantando Teti nei suoi confronti un antico beneficio: quando infatti le altre divinità olimpiche volevano incatenarlo, fu Tebe a propiziargli l'alleanza con il gigante dalle 100 mani, Briareo, "più forte dello stesso padre" – che dovrebbe essere il dio del mare Poseidone, se lo si può dedurre dal fatto che Egeone, nome di Briareo in lingua umana, è appunto un epiteto di Poseidone. In memoria di quel beneficio, Teti chiederà a Zeus la provvisoria vittoria dei Troiani, che faccia rimpiangere ad Agamennone l'offesa arrecata al "migliore dei Greci". (413-430) Teti promette al figlio di soddisfare la sua richiesta andando a supplicare Zeus quando tra 12 giorni tornerà dal mitico paese degli Etiopi, dove è andato con tutti gli altri dei fin dal giorno prima (eppure Atena era "tornata sull'Olimpo" a v.221). (430-487) Avviene la restituzione di Criseide al padre, episodio costituito da scene tipiche con alta densità di linguaggio formulare. Prima è descritto l'approdo a Crisa, poi la consegna della giovane e la seconda preghiera di Crise ad Apollo, con la quale gli chiede di far cessare la vendetta richiesta con la preghiera precedente: di essa viene ripreso l'incipit ai vv. 451-452, che ripetono i vv. 37-38. Segue la lunga e minuziosa descrizione delle fasi del sacrificio: la disposizione delle vittime intorno all’altare, il lavaggio delle mani, il lancio dei chicchi d’orzo, lo sgozzamento degli animali con le teste rivolte all’indietro, cioè verso il cielo. Poi vengono scuoiati, le ossa femorali destinate all’offerta sono avvolte nel grasso, messe insieme a bocconi di carne magra allo scopo ricostituire simbolicamente l’integrità della vittima, e bruciate alimentando la fiamma con goc...


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