Bespaloff - Iliade - Riassunto PDF

Title Bespaloff - Iliade - Riassunto
Author Francesco Terenghi
Course Filosofia
Institution Università degli Studi di Milano
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Summary

Riassunto completo del libro "Sull'Iliade" di Bespaloff...


Description

RACHEL BESPALOFF – “SULL’ILIADE” 1. ETTORE Bespaloff presenta le caratteristiche di Ettore: nobiltà, pianto e felicità 1. Nobiltà e gloria - Ettore non è né superuomo, né semidio, né simile agli dèi, ma uomo, e principe tra gli uomini. È dotato di una nobiltà priva di affettazione che non ammette superbia nel rispetto di sé, né umiltà nel rispetto degli dèi. - La passione per la gloria lo esalta senza accecarlo, lo sostiene là dove la speranza lo abbandona; questo lo sprona a sfidare il fato. 2. Pianto - Egli è tutt’altro che indifferente al suo pianto. Niente è penoso per Achille, invece tutto lo è per Ettore: l’uomo del risentimento, nell’Iliade, non è il debole, ma l’eroe che ha saputo piegare tutto alla sua forza. 3. Felicità - In Ettore la volontà di grandezza non rivaleggia mai con la volontà di felicità. Quel poco di vera felicità che importa sopra ogni cosa perché coincide con la verità della vita meriterà di essere difeso fino al sacrificio della vita stessa, cui avrà dato misura, forma e valore. - La sua disposizione alla felicità lo rende più sensibile al sacrificio chiestogli dagli dei della guerra. Confronto Ettore-Achille a. Ettore, prima di combattere, prova una estrema esitazione: perché non evitare di combattere promettendo ad Achille Elena e le ricchezze di Troia? Subito dopo si ravvede: - Achille non decide della guerra, è la guerra a decidere di lui. Non si può ammansirlo con promesse, placarlo con ragionament, piegarlo a sentment di umanità, più di quanto si possa fare con un ciclone. b. Ettore affronta Achille e prova terrore: Omero l’ha voluto in tutto e per tutto uomo, e non gli ha risparmiato né il tremore della paura né l’umiliazione della viltà. c. Omero descrive l’inseguimento tra Achille e Ettore. Qui, attraverso la storia, Omero tocca il fondamento dell’orrore nell’universo, un orrore che non conosce epilogo né redenzione: non è intorno alle mura di Troia che l’inseguimento del predatore e la fuga della preda si protraggono all’infinito, ma nella cerchia del Cosmo. Questo episodio è esemplificativo di due concezioni (secondo me): fato e forza 1. In assenza di un Dio, il fato diventa strumento di retribuzione I. Ettore paga la morte di Patroclo; II. così come Achille paga quella di Ettore. Entrambi, spingendo la vendetta fino all’empietà, vogliono profanare il corpo della vittima per uccidere anche la sua anima. Fra queste due scene di oltraggio nei confronti del vinto c’è un rigoroso parallelismo: I. II.

Patroclo annuncia a Ettore «la morte e il feroce destino»; così come Ettore predice ad Achille la morte alle porte Scee.

Questo parallelismo è quasi universale: il vincitore assomiglia a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vint. Ovunque nell’Iliade, l’immagine del destno è strettamente collegata a quella del castgo. Estranea a qualsiasi sanzione di ordine morale, a qualsiasi imperatvo di origine divina, la vendetta della Nemesi antica – dea della distribuzione della giustizia – fa apparire retrospettivamente colpevole l’atto che non rientrava nella categoria del peccato. 2. Forza: concezione della bellezza della forza 1

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La forza si conosce e gode di sé solo nell’abuso in cui abusa di se stessa, nell’eccesso in cui si dissipa. Omero rende evidente la bellezza della forza: il balzo sovrano, la folgorazione omicida in cui calcolo, fortuna e potenza concorrono a sfidare la condizione umana. Omero non celebra la bellezza dei guerrieri con l’intento di idealizzare o stlizzare i suoi personaggi: Achille è bello, Ettore è bello perché la forza è bella, e solo la bellezza dell’onnipotenza, diventata l’onnipotenza della bellezza, ottiene dall’uomo quel consenso totale alla propria distruzione, al proprio annientamento, quella prosternazione assoluta che, nell’atto di adorazione, lo consegna alla forza.

Nell’Iliade la forza appare dunque come: a. la suprema realtà b. e insieme la suprema illusione dell’esistenza perché in essa Omero divinizza la sovrabbondanza di vita che prorompe nel disprezzo della morte, nell’estasi del sacrificio. Per mostrare l’istupidimento che l’illusione di onnipotenza provoca in colui che essa acceca, il poeta non sceglie Achille o Aiace, ma Ettore, il principe della saggezza. -

Nell’ebbrezza di un’effimera vittoria, Ettore perde di colpo la capacità di riflettere, il dono della misura e il senso del limite. Respinge con veemenza i prudenti consigli di Polidamante, che minaccia di uccidere.

Ettore ha perduto tutto tranne che la gloria: -

che per il guerriero di Omero, non è una suadente illusione, una vana protervia, bensì l’equivalente della redenzione per il cristano: una certezza d’immortalità, oltre la storia, nel supremo distacco della poesia.

Non è dunque l’ira di Achille, in realtà, a costituire il motvo centrale dell’Iliade, ma il duello tra Ettore e Achille, il confronto tragico fra l’eroe della vendetta e l’eroe della resistenza. Infatti la guerra di Troia può essere considerata come una “successione indeterminata di duelli”, nei quali i predatori non perdono mai la fiducia nella loro invincibilità. In questa luce i destini di Achille e di Ettore sono accomunat nella lotta, nella morte e nell’immortalità. La poesia scopre, al di là dei conflitti, la misteriosa predestinazione che rende degni l’uno dell’altro gli avversari chiamati a un duello inesorabile. Bespaloff chiude con una descrizione extra-morale, non c’è morale nell’Iliade: “dove sono i buoni nell’Iliade? Dove sono i cattivi?” -

Condannare o assolvere la forza equivarrebbe a condannare o assolvere la vita stessa. E nell’Iliade (come nella Bibbia e in Guerra e pace) la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustficare dal vivente; essa giudica se stessa solo prendendo coscienza della propria ineffabilità.

2. TETI E ACHILLE Bespaloff offre una descrizione di Tet: -

Teti continua a vegliare sul figlio; l’affetto apprensivo che la rende consapevole della sventura umana le fa disprezzare la sua condizione di immortale. 1. Rapporto Tet-Dei - Gli dèi amano Teti e la accolgono con benevolenza, ma Teti rifugge gli dèi dell’Olimpo.

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Più che moglie di Peleo, Teti è figlia del mare e madre di Achille. In questo amore, che una duplice amarezza preserva da una lenta consunzione, si realizza la sua natura umana e divina: si congiunge agli elementi cosmici e insieme alle passioni umane. 2. Tet come madre - Teti conserva la freschezza di una giovane madre china sul bambino che la isola dal mondo. - Invece di recriminare, sostene il figlio Achille, perora la sua causa al cospetto di Zeus; gli chiede solo di attendere le nuove armi che ha pregato Efesto di forgiare per lui. - La madre si rivolge al figlio con gli epitet più affettuosi; Achille si inchina all’ordine degli dei trasmessogli dalla madre: nell’obbedienza ritrova per un istante la serenità che gli è negata. Dopo aver descritto Teti, Bespaloff parla di Achille e del suo rapporto con la madre (rapporto figlio-madre mentre prima era madre-figlio). Achille è più umano con la madre: -

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Solo con la madre Achille si lascia andare, ridiventa umano nel suo bisogno di essere protetto e consolato. E Teti: I. non è mai la madre orgogliosa dell’eroe trionfante, II. ma sempre la madre straziata del figlio agonizzante. La sua presenza restituisce ad Achille proporzioni più umane, impedendogli di sfumare nel mito: dell’eroe della forza udiamo solo il grido di frustrazione, in quanto Teti non ha saputo rendere invulnerabile il proprio figlio.

Bespaloff introduce una riflessione sul criterio di giudizio omerico, basato sull’amore e non sull’azione: I. II.

Omero svela la natura profonda degli esseri non nelle loro azioni, ma nel modo che hanno di amare, nella scelta d’amore. Per questo è importante, in mezzo all’atrocità della guerra: l’amore tra Andromaca ed Ettore, l’amicizia tra Tet e Achille.

Riprende poi la descrizione di Achille, trattando della sua duplice natura: la duplice natura di Achille, umana e divina, genera in lui solo contrasti e dissidi. I. II. -

In quanto dio, invidia agli dèi l’onnipotenza e l’immortalità; in quanto uomo, invidia alle belve la ferocia, e vorrebbe fare a pezzi il corpo della sua vittima per mangiarlo crudo. Achille simbolo dell’umanità: Non è l’eroismo di Achille a tenerci con il fiato sospeso, ma il suo scontento, la sua meravigliosa ingrattudine. Senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace. Senza Achille, l’umanità si rattrappirebbe, si addormenterebbe congelata dalla noia ben prima del raffreddamento del pianeta.

3. ELENA Elena attraversa l’Iliade come una penitente, con la maestà che le conferisce la perfezione della sua sventura, della sua bellezza. 1. Passività: Elena asservita degli dei - Questa regale reclusa è la creatura meno libera, ancora meno libera della schiava che in cuor suo aspetta la fine dell’oppressione. - Non sono gli uomini a volerla asservire, ma gli dèi. La sua sorte non dipende dall’esito della guerra: che a prevalere sia Paride o Menelao, per lei non cambierà nulla. La sua passività appare come l’altra faccia delle passioni di cui la sua bellezza l’ha resa prigioniera. La sua unica risorsa è quella di rivolgere contro di sé un’ira impotente a vendicarla contro gli dei. Bespaloff introduce un paragone Omero-Tolstoj nelle figure di Elena-Anna: 3

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Entrambe sono fuggite nella speranza di cancellare il passato per costruire un amore che fosse solo amore. Entrambe si ridestano in esilio, e provano solo una viva ripugnanza per quello che sembrava il sogno, l’estasi, il massimo raggiungimento dell’esistenza: la promessa di liberazione si è tramutata in servitù, l’amore non obbedisce più all’amore, ma a una legge più antica e più crudele. Entrambe si ritrovano di fronte al proprio sogno infranto, senz’altro di cui accusarsi se non di essersi fatte ingannare dalla dura Afrodite.

2. Innocenza e colpevolezza Qui la colpa è una trappola che il fato tende all’uomo, indistinguibile dalla sventura che provoca: la si subisce, la si paga, è senza rimedio al pari della vita. C’è una diversa concezione di responsabilità e innocenza tra Omero e la filosofia: a. Più tardi i filosofi, eredi di Ulisse, introdurranno nella cerchia della tragedia il cavallo di Troia della dialettica, restituendo così all’individuo la responsabilità della colpa. b. In Omero il castgo e l’espiazione, lungi dal sancirla, dissolvono tale responsabilità nella miseria umana e nella colpevolezza diffusa del divenire. Bespaloff introduce un parallelismo cristanesimo-grecità. In Omero e nei tragici il concetto greco di colpevolezza diffusa rappresenti l’esatto equivalente del concetto cristano di peccato originale: -

Si tratta sempre di una caduta, ma una caduta non databile, non preceduta da alcuno stato di innocenza né seguita da alcuna redenzione – la caduta eterna di un divenire creatore nella morte e nell’assurdo.

Da queste concezioni si allontana Nietzsche con la sua concezione di “innocenza del divenire”: -

Dove Nietzsche vuole giustficare, Omero contempla, lasciando risuonare solo il lamento dell’eroe. Se la responsabilità ultima della colpa spetta soltanto agli dèi malevoli, questo non significa che la colpa non esista.

Dunque innocenza e colpevolezza si confondono in Elena come nell’immenso cuore della massa guerriera sparsa nella pianura ai suoi piedi. Bespaloff accenna anche all’umiltà di Elena: Elena trascina la sua sciagura con un’umiltà sommessa che non indebolisce la sua ribellione contro gli dèi. 3. Rapporto Elena-Ettore C’è tenerezza in questo attaccamento. Ettore è l’unico a difendere la straniera dall’ostlità che suscita la sua presenza a tutti odiosa. -

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Non le si perdona di incarnare la sorte avversa che si accanisce sulla città. Innocente, Elena conosce il peso di tale biasimo e, anzi, pare addirittura esporvisi come al giusto castgo per un crimine che non ha commesso. Ettore si riferisce ad Elena con parole affettuose: queste parole stabiliscono tra Ettore e Elena una complicità fraterna, più che fraterna, in un futuro indeterminato.

Il loro rapporto giunge al culmine nel lamento di Elena alle spoglie di Ettore, facendo emergere un sentmento di compassione nell’iliade. Eppure questo sconforto di Elena non appartiene a una creatura umiliata in balia dei suoi persecutori, ma è la prostrazione di una donna mortale alla mercé degli dèi che l’hanno colmata di fulgide grazie solo per defraudarla meglio delle gioie che queste sembravano promettere. 4. Bellezza duplice 4 -

La bellezza di Elena viene descritta come duplice: vivificante e maledicente (Elena è duplice come la guerra: bella e terribile – collegamento mio) 1. Anche al culmine della sua miseria, Elena conserva la maestà che tene il mondo a distanza e allontana la vecchiaia e la morte. 2. La più bella tra le donne, lei che tutto designava, tutto conduceva a un destino radioso, è stata scelta dagli dèi solo per portare a compimento la propria sciagura e quella dei due popoli. -

Qui, lungi dall’essere una promessa di felicità, la bellezza incombe come una maledizione. Ma nel contempo isola, innalza, preserva dagli oltraggi. Da ciò deriva il suo carattere sacro, nel senso originariamente ambiguo del termine – I. insieme esaltante e vivificante, II. malefico e terribile.

Bespaloff paragona bellezza-forza: Come la forza, la bellezza soggioga e distrugge, emancipa e libera. Non è la casualità degli eventi della sua vita, ma una necessità più profonda a fare di Elena a un tempo la causa e la posta in palio della guerra, e a legare l’apparizione della bellezza allo scatenarsi dell’ira. 1. Se è vero che la forza si logora e si deteriora nella contngenza del divenire – è sufficiente la freccia di Paride per annientare in un colpo solo la potenza di Achille –, 2. soltanto la bellezza esaurisce tutte le contngenze, persino quelle che la portano a compimento. L’immortale Apparenza protegge e preserva il mondo dell’Essere. Viene approfondito il tema della bellezza come maledizione (2): Omero si guarda bene dal descrivere la bellezza, quasi fosse un atto sacrilego: un’illecita anticipazione della beatitudine. I troiani, alla vista di Elena, non possono non trovarla bella. Ma tale bellezza li spaventa, come un cattivo presagio, una minaccia di morte. 1. I veri, gli unici colpevoli sono gli dèi «immuni da pena», 2. mentre gli uomini si consumano di dolore. La maledizione che volge la bellezza in fatalità distruttiva non ha origine nel cuore umano. La colpevolezza diffusa del divenire si condensa in un solo peccato, l’unico che Omero condanni e stigmatizzi esplicitamente: la beata spensieratezza degli Immortali. L’impotente Elena contempla gli uomini che si accingono a combattere per lei. Giacché alla fine i popoli che si fanno la guerra per conquistare i mercat, le materie prime, le terre fertli e le loro risorse combattono innanzitutto e sempre per Elena. Omero non ha mentito. 4. LA COMMEDIA DEGLI DEI 1. Differenza uomo-dei Nell’Iliade non mancano la comicità o addirittura l’umorismo: sono gli dèi dell’Olimpo a fornirne la materia. -

Negli Immortali l’assoluta futlità degli esseri a cui la sorte risparmia le prove della condizione comune raggiunge una sorta di sfarzosa e decoratva dignità. È l’assenza di «serietà», non come pesantezza, che caratterizza i subumani, rende gli dèi dell’Iliade (e anche la gente del bel mondo in Guerra e pace) perfetti personaggi da commedia. I. Gli dei sono causa di tutto senza essere responsabili di nulla, in primo luogo di sé stessi; II. a differenza degli eroi dell’epopea che, pur non essendo causa di nulla, sono responsabili di tutto. 5

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Là dove l’individualità non si afferma sotto ciò che la schiaccia, la responsabilità non trova appiglio: si sfilaccia nello scoppio di risa che suggella il trionfo dell’incoerenza. In questo modo gli dèi sfuggono sia alla categoria dell’innocenza sia a quella del peccato. Agenti provocatori, scaltri propagandisti, sostenitori accaniti, questi non belligerant non disdegnano l’odore della carneficina, lo strepito delle passioni tragiche.

2. Rapporto uomo-dei Bespaloff fa notare come, anche se vi sia irriverenza agli dei, in Omero c’è sempre il rispetto della pietà: -

Non vi è nulla di sacrilego nelle invettive che gli eroi dell’Iliade rivolgono al «terribile figlio di Crono» quando ce l’hanno con lui. Se i capi della città se la prendono con gli dèi, che hanno accolto nelle loro case, nei loro consigli e nelle loro guerre, è perché gli dèi godono di ottima salute, ricevono ricche offerte e non vegetano nel gelido rispetto di un culto senza vita.

a. Il rapporto uomo non è di amore, ma al massimo di amicizia: - ciò che il greco domanda devotamente ai suoi dèi non è amore ma benevolenza. - Un esempio è l’amicizia tra Apollo e Ettore, in cui c’è rispetto, fiducia reciproca, confidenza e distanza, felicità di ammirare, felicità di insegnare, gioia di dare e di prendere (rapporto molto simile a quello che un Socrate o un Platone sapranno suscitare nei loro discepoli). b. Il rapporto è anche utlitaristco - Al di fuori di questa amicizia che esula dalla tradizionale pietà, non vediamo tra mortali e Immortali se non legami dettat dall’interesse e dalla convenienza, gli stessi che uniscono il mondo protetto della corte e dei grandi al mondo esposto dei combattenti e della guerra. Vediamo alcuni esempi degli atteggiament degli dei, simili a “scene da operetta”: 1. Hera, dai grandi occhi attoniti, con la sua ostinazione più stupida che malvagia e l’ingegnosità di cui dà prova quando si tratta di raggirare il povero Zeus infliggendogli una guerra di nervi da cui esce sempre vittoriosa; 2. Afrodite, incantevole e frivola nella sua debolezza niente affatto inerme, tutta un sorriso e un capriccio da bionda; 3. Pallade Atena, la guerriera dalla muscolatura virile, maestra di perfidia, capace di vincere Ares e di metterlo al tappeto, la fanciulla efferata in grado di trattenere a lungo l’ira, di macerarsi nel rancore e di covare vendetta Queste tre divinità svelano, ciascuna a modo suo, il rovescio dell’eterno femminino di cui Andromaca, Elena e Tet incarnano la tragica purezza L’esempio più importante è quello di Zeus, che è l’unico degli dei olimpici ad avere una vita più completa. -

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Dopo aver imposto invano agli Immortali una neutralità che essi pensavano solo a violare, Zeus consente agli dei di intervenire nel conflitto (Atena stordisce Ares, Hera riempie di botte Artemide). Il dio-contemplatore – dice «allieterò il mio cuore guardando» – non ha nulla del giustiziere. Spettatore esigente, accetta la legge della tragedia che consente di immolare il migliore, il più nobile, per affrettare, con il sacrificio, il rinnovamento delle forze feconde. Zeus sa bene che gli dèi possono morire e si inchina alla grande divinità cieca (fato) che regna sui mortali non meno che sugli Immortali.

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Imperturbabile dispensatore del bene e del male, Zeus si limita a presentare all’attore lo scenario del dramma in cui questi dovrà recitare la sua parte: «Ci sono due vasi nella sala di Zeus, e l’uno contene i mali che distribuisce agli uomini, e l’altro i beni». Sta all’uomo ricavare quel che può da questo miscuglio Bespaloff propone una differenza tra Zeus e il Dio creatore (poi si riferirà esplicitamente al Dio di Israele): 1. Il Dio creatore è una forza al di sopra della forza, una potenza di volontà al di sopra della volontà di potenza. 2. Invece Zeus contemplatore è diverso: la forza, in lui, è solo un’apparenza decoratva, il simbolo di una realtà che rappresenta ma non incarna in alcun modo. Più ancora che nella natura, Omero ha esaltato la potenza nell’uomo. Ma la celebra soltanto nel suo aspetto limitato e finito, in quanto energia peritura, culminante nel coraggio che ne dà la misura. Se Achille non è che un frammento di natura, la natura intera riflette l’esistenza scagliata nel torrente dei fenomeni. -

E la natura divinizzata, umanizzata, non è nemmen...


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