Eneide 12 e Iliade 22%3A duelli finali PDF

Title Eneide 12 e Iliade 22%3A duelli finali
Author Maria Luisa Valenti
Course Didattica del latino
Institution Università degli Studi di Palermo
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Summary

eneide...


Description

Il duello finale (I) (Eneide, XII, 676-790) I patti con i quali si è stabilito il duello tra Turno ed Enea vengono violati, a causa dell’intervento della ninfa Giuturna, sorella di Turno: ella infatti, mutatasi in Camerte, un guerriero particolarmente autorevole, insinua il dubbio nell’animo degli Italici, e poi fa comparire un segno nel cielo, che aizza gli uomini alla battaglia: l’augure Tolumnio, credendo di riconoscere un presagio favorevole, scaglia per primo l’asta contro i nemici, scatenando di nuovo la battaglia. Enea viene ferito, non si sa da chi, e poi risanato miracolosamente dall’intervento di Venere. Il Troiano torna più che mai furioso alla guerra, cercando il solo Turno. Allora Giuturna prende le sembianze dell’auriga del fratello, Metisco, e sottrae il giovane alla ricerca di Enea, portandolo sul carro lontano dall’eroe troiano. La furia di quest’ultimo raggiunge l’apice, ed egli comincia una strage senza distinzioni: la battaglia si fa terribile, perché da una parte infuria Enea, dall’altra Turno. I Troiani sono alle porte della città. Amata, la regina, credendo che Turno sia morto, si uccide. I lamenti delle donne salgono dalla città. E’ il segno di resipiscenza per Turno, il quale si rivolge alla sorella, che ha riconosciuto: è ora di smettere la fuga, è ora di affrontare il destino; Giuturna si ritiri, e lasci che il fratello compia il proprio dovere: “Il destino è più grande di noi, sorella, ormai; smetti di trattenermi. Andiamo dove chiamano il dio e la dura sorte. E’ stabilito che io affronti Enea, che patisca quanto c’è di aspro nella morte; non mi vedrai più vergognoso, sorella. Ti prego, ora lascia che io mi infurii prima di questa furia”. (Turno) disse così e saltò giù dal carro velocemente a terra e si precipita tra i nemici, tra i dardi, e abbandona la triste sorella e con una corsa rapida rompe le schiere. E come quando un sasso, staccato dal vento dalla cima di un monte, precipita rovinosamente, forse perché la torbida pioggia lo ha dilavato, o forse perché lo scorrere del tempo, negli anni, scalzandolo, lo ha sgretolato; la frana sfrenata rotola nel precipizio con grande spinta e rimbalza al suolo, trascinando con sé alberi, bestie, uomini: così Turno attraverso le schiere sconvolte si precipita alle mura della città, dove la terra ovunque trasuda di sangue versato e l’aria stride di proiettili; fa segno con la mano e insieme comincia a gran voce: “Rutuli, risparmiate i colpi, e anche voi, Latini, trattenete le frecce; qualunque sia la sorte, è la mia: è più giusto che io da solo rispetti il patto per voi e combatta con la spada”. Tutti si ritirano e quelli che erano nel mezzo creano uno spazio. Ma il padre Enea, sentito il nome di Turno, lascia le mura, lascia l’alta rocca, rompe ogni indugio, interrompe ogni impresa, esultando di gioia, e risuona orrendamente con le armi: sembra grande come il monte Athos, o l’Erice, o lo stesso padre Appennino, quando freme nelle selve, e gode della cima innevata, levandosi al cielo. E già i Rutuli a gara, e i Troiani, e tutti gli Italici volsero lì lo sguardo, e quelli che occupavano le alte mura, e quelli che dal basso colpivano i muri con l’ariete, Tutti tolsero le armi dalle spalle. Lo stesso Latino stupisce che due uomini così grandi, generati in parti diverse del mondo, si siano trovati faccia a faccia e combattano con la spada. E quelli, non appena i campi si aprirono in una vasta distesa, correndo avanti rapidamente, scagliate da lontano le lance, cominciano la battaglia con gli scudi e le armi di bronzo sonoro. La terra geme; raddoppiano i colpi fitti con le spade: virtù e destino si mescolano insieme. E come quando nella vasta Sila o sull’alto Taburno

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due tori, in scontro ostile, fronte contro fronte, si affrontano (e i pastori, impauriti, si sono allontanati, tutta la mandria è ferma e silenziosa per il terrore, e le giovenche mormorano, attendendo chi comanderà il bosco, chi sarà seguito da tutto l’armento) quelli fra loro con grande violenza mescolano le ferite, 720 facendo forza, conficcano le corna e lavano di sangue abbondante i colli e le zampe: tutto il bosco riecheggia il gemito; non diversamente il troiano Enea e l’eroe figlio di Dauno si scontrano opponendo gli scudi; l’immenso fragore riempie il cielo. Giove in persona dopo aver bilanciato i due piatti1 li tiene sospesi, e pone su ciascuno il destino dei due contendenti, quale sia condannato dalla battaglia e quale piatto la morte faccia inclinare col suo peso. Qui Turno balza, ritenendolo un gesto sicuro, e con tutto il corpo insorge sulla spada sguainata e dà un colpo: danno un grido i Troiani e i trepidanti Latini, entrambe le schiere sono irrigidite. Ma la spada infida si spezza e abbandona il giovane ardente a metà del colpo, se non subentrasse come aiuto la fuga. Fugge più veloce dell’Euro2, quando vede l’elsa sconosciuta3 e la mano priva dell’arma. Si sa infatti che Turno, correndo, quando i cavalli scendevano 735 appaiati all’inizio della battaglia, lasciata la spada del padre, preoccupato, aveva preso in fretta la spada dell’auriga Metisco. E quella a lungo, finché i Teucri fuggivano qua e là, era stata adeguata: ma dopo il contatto con le divine armi di Vulcano 4, il gladio mortale, come fragile ghiaccio, si dissolse al colpo: i frammenti luccicano nella bionda sabbia. Allora, fuori di sé, Turno fugge qua e là nella pianura e ora in un posto, ora in un altro, compie incerti giri; ovunque infatti i Teucri lo chiudono in una fitta corona, e da un lato lo frena una vasta palude, dall’alto le impervie mura. Nondimeno Enea, benché le ginocchia indebolite dalla ferita 5 talora lo impediscano e rifiutino la corsa, lo insegue e furente incalza col piede il piede di quello tremante: come quando, a volte, un cacciatore si è imbattuto in un cervo impedito da un fiume o dalle penne rossastre6, e lo incalza con la corsa e i latrati del cane; e quello, atterrito dalla trappola e dall’alta riva, fugge e rifugge per mille strade; ma il cane umbro7, pieno di vita, gli sta addosso fiatando, e ormai lo tiene e, come se già lo tenesse, schiocca le mandibole e viene deluso dal morso dato invano. 755 A questo punto si leva un clamore, le rive e il lago fanno eco all’intorno e il cielo tuona di tutto il tumulto. Turno fugge e allo stesso tempo grida a tutti i Rutuli, chiamando ciascuno per nome, e bramosamente chiede la sua spada. Enea d’altro canto minaccia morte e fine immediata A chiunque si avvicini, e terrorizza quelli già tremanti minacciando di distruggere la città, e, pur ferito, incalza. Fanno cinque giri interi, e poi di nuovo ne ripetono altri cinque qua e là: infatti non si gareggia per un premio da poco, non è un gioco: la posta è la vita e il sangue di Turno. 765 Era un tempo in quel luogo un oleastro dalle foglie amare, sacro a Fauno8, un tempo pianta venerabile per i marinai che, se si salvavano dalle onde, erano soliti là apporre doni al dio laurente e appendere le vesti che avevano dedicato. Ma i Teucri, senza prendere in considerazione la sacralità del luogo, 770 avevano tagliato il ceppo, perché i due potessero contendere in un campo mondo. Lì stava l’asta di Enea, lì l’impeto l’aveva scagliata

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e ora stava fissa, trattenuta dalla radice tenace. Enea si chinò, tentando di svellere l’asta per incalzare Turno con un’arma da lancio, visto che non riusciva a raggiungerlo correndo. Allora Turno, fuori di sé per il terrore, disse: “Fauno, ti prego, abbi pietà, e tu, ottima terra, trattieni l’arma, se è vero che vi ho sempre onorato, mentre invece gli Eneadi vi profanarono con la guerra”. Disse così, e chiese l’aiuto del dio con preghiere non vane. E infatti Enea, pur lottando a lungo, pur insistendo sulla tenace radice, pur con tutte le forze non riuscì ad allentare il morso del legno. Mentre lui si sforza con caparbietà e insiste, la dea figlia di Dauno9, assunto di nuovo l’aspetto dell’auriga Metisco10, corre in mezzo e restituisce la spada al fratello. Venere, indignata che un simile gesto fosse permesso alla coraggiosa ninfa, si avvicinò e divelse l’asta dalla profonda radice. I due, alteri, rinfrancati per avere ottenuto le armi, l’uno confidando nella spada, l’altro fremente e coraggioso con l’asta, si fermano l’uno contro l’altro, bramosi del duello di Marte.

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1. La scena della pesatura delle anime ( psychostasìa), segnala l’impotenza di Giove di fronte al destino ingovernabile, cui anche il signore degli dei deve sottostare. Il modello è costituito dall’analoga situazione dell’Iliade. La topicità della scena è però evidente: l’intero poema è costruito sulla predestinazione di Enea alla vittoria, e quindi sarebbe incongruente pensare che ora Giove non conosca la sorte del duello. Si deve dunque leggere la situazione nell’attualità degli eventi: Giove pesa le anime per stabilire che il momento della morte di Turno è giunto, non per sapere effettivamente chi dei due eroi dovrà morire. Tuttavia qui la scena aggiunge drammaticità alla situazione, ed è dopo il responso della bilancia che Giove convoca Giunone e le ingiunge di desistere dalla sua caparbia protezione nei confronti di Turno. 2. L’Euro è un vento meridionale, spesso ricordato per la sua violenza. 3. L’elsa è sconosciuta perché, come si apprenderà nei versi successivi, quella non era la spada di Turno, che aveva preso per sbaglio l’arma del proprio auriga, Metisco. 4. Le armi di Enea sono state forgiate da Vulcano, su richiesta di Venere (VIII, vv. 369-453). E’ la dea stessa a consegnarle al figlio, mentre questi sta tornando da Pallanteo. Un’ampia sezione del libro ottavo è dedicata a queste armi, giacché lo scudo porta istoriate le vicende di Roma, dalla lupa ad Augusto, e costituisce quindi uno dei segni del grande destino della città (VIII, 608-731). 5. Enea era stato ferito da una freccia volante, non si sa scagliata da chi: nessuno infatti deve potersi gloriare di avere ferito il grande eroe. Il medico Iapige si era trovato impotente di fronte al male, ma Venere, impietosita dalle sofferenze del figlio, versa dittamo nell’impacco preparato dal medico, e la ferita si rimargina miracolosamente in pochi secondi, pur lasciando indebolito Enea. 6. Si tratta di una corda, cui venivano appese penne rosse, usata dai cacciatori per intimorire il cervo e accerchiarlo. 7. I cani umbri erano particolarmente famosi. 8. Fauno è dio autoctono del Lazio arcaico: è, insieme a Pico, uno dei re-animali del popolo degli Aborigeni, i primi abitatori della regione. Legato alla natura selvaggia, è protettore delle greggi e dei pascoli. Dotato di straordinaria vigoria sessuale, è legato alla fecondità degli armenti; ha potere oracolare ed è lui a predire a Latino il destino di Lavinia. Talora raffigurato con piedi e coda di capra, fu poi assimilato al Pan greco, con cui condivide l’attributo che lo lega al mondo ferino dei lupi: è chiamato infatti anche Luperco, come a Pan è attribuito l’epiteto di Liceo (da lykos, il lupo). 9. Giuturna è figlia di Dauno e sorella di Turno. Amata da Giove, fu da lui resa immortale e le venne affidata la signoria sulle fonti e sulle acque del Lazio. 10. Giuturna aveva già assunto le sembianze di Metisco per sottrarre il fratello allo scontro con Enea. (Eneide, XII 887-952)

Il duello finale (II) (Eneide, XII, 887-952) Abbiamo lasciato gli eroi uno di fronte all’altro, nel momento di massima tensione. E’ in gioco il destino del Lazio. Lo scioglimento finale viene però rimandato da Virgilio, che inserisce a questo punto un dialogo fra Giove e Giunone: il padre degli dei intima alla sposa di desistere dai suoi tentativi di salvare Turno; che Enea sia destinato ad essere vincitore è dato non controvertibile. Giunone accetta, se pure ancora a malincuore, di non intervenire più, chiedendo però, in cambio della propria remissività, un compenso: perisca il nome dell’odiata Troia; dopo le nozze che concluderanno la pace, il popolo nuovo viva felice, ma non perda né il nome, né la lingua, né i costumi italici: siano tutti Latini. Giove acconsente, e Giunone si ritira definitivamente. A questo punto il dio invia sulla terra una delle Furie che stanno vicino al suo trono (probabilmente Alletto, già inviata da Giunone ad infiammare di furor Turno e Amata), e questa, come una freccia velenosa che porta morte, vola rapida sulla terra, si trasforma in una civetta e comincia a volare sul viso di Turno e a cozzare con le ali contro il suo scudo. Il giovane viene preso da un torpore insolito ( novus) e si sente privo di forze. Giuturna, vedendo l’animale, comprende il segno: si scioglie i capelli, si graffia il petto, maledice la propria immortalità, che non le consente la speranza di poter sfuggire al disumano dolore. La ninfa, accusando sarcasticamente Giove di averla davvero ben ricompensata in cambio del dono della propria verginità, si tuffa nel fiume per non ricomparire più (cfr. V5). Il fuoco della scena, come se non ci fosse stata sospensione dal v. 790, torna sui due eroi, uno di fronte all’altro. Enea incombe e palleggia l’asta grande, Aeneas instat contra telumque coruscat simile a un albero e parla così, con cuore ingens arboreum, et saevo sic pectore fatur: “Quae nunc deinde mora est? aut quid iam, Turne, retractas? crudele: “Che indugio, adesso? Perché, Non cursu, saevis certandum est comminus armis. 890 Turno, esiti? Non bisogna combattere correndo, ma con armi crudeli, da vicino. Verte omnis tete in facies et contrahe quidquid Trasformati pure in ogni forma, metti insieme sive animis sive arte vales; opta ardua pennis quanto sei capace di fare, vuoi con il astra sequi clausumque cava te condere terra.” coraggio, vuoi con l’inganno; prova a seguire Ille caput quassans: “Non me tua fervida terrent dicta, ferox; di me terrent et Iuppiter hostis.” 895 in volo le stelle irraggiungibili, o a nasconderti chiuso nella cava terra”. Quello, Nec plura effatus saxum circumspicit ingens, scuotendo il capo: “Non mi fanno paura le saxum antiquum ingens, campo quod forte iacebat, tue parole di fuoco, feroce: mi fanno paura limes agro positus litem ut discerneret arvis. gli dei, e Giove nemico”. Vix illum lecti bis sex cervice subirent, qualia nunc hominum producit corpora tellus; 900 Senza dire di più, dopo aver rivolto intorno lo sguardo, vede un sasso enorme, un antico ille manu raptum trepida torquebat in hostem enorme sasso, che giaceva per caso nel altior insurgens et cursu concitus heros. terreno, pietra di confine posta al campo, per Sed neque currentem se nec cognoscit euntem potere discernere le contese relative ai tollentemve manu saxumve immane moventem; genua labant, gelidus concrevit frigore sanguis. 905 terreni: a stento dodici uomini scelti l’avrebbero sollevato sul collo , corpi d’uomini come quelli che la terra genera ora. Quell’eroe, ergendosi più alto e dato impulso alla corsa, cercava di scagliarlo contro il nemico, dopo averlo sollevato con mano tremante. Ma non riconosce se stesso al correre, all'andare, né al sollevare il sasso né allo smuoverlo; le ginocchia cedono, il sangue gelido di freddo si si rapprende. Tum lapis ipse viri vacuum per inane volutus Allora la pietra gettata dall’eroe, scagliata nel nec spatium evasit totum neque pertulit ictum. vuoto, non percorse tutto lo spazio e non Ac velut in somnis, oculos ubi languida pressit colpì l’avversario. Come nei sogni, quando di nocte quies, nequiquam avidos extendere cursus velle videmur et in mediis conatibus aegri 910 notte una languida quiete preme sugli occhi, ci sembra di volere allungare una corsa succidimus; non lingua valet, non corpore notae bramosa, e, stremati, in mezzo ai tentativi sufficiunt vires nec vox aut verba sequuntur: veniamo meno: la lingua non ha vigore, non sic Turno, quacumque viam virtute petivit, ritroviamo le forze del corpo che ci sono successum dea dira negat. Tum pectore sensus vertuntur varii; Rutulos aspectat et urbem 915 solite, la voce, le parole non escono; così la dea nefasta nega a Turno il successo, per cunctaturque metu letumque instare tremescit,

nec quo se eripiat, nec qua vi tendat in hostem, nec currus usquam videt aurigamve sororem. Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat, sortitus fortunam oculis, et corpore toto eminus intorquet. Murali concita numquam tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar exitium dirum hasta ferens orasque recludit loricae et clipei extremos septemplicis orbis; per medium stridens transit femur. Incidit ictus ingens ad terram duplicato poplite Turnus. Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit mons circum et vocem late nemora alta remittunt. Ille humilis supplex oculos dextramque precantem protendens “Equidem merui nec deprecor” inquit; “utere sorte tua. miseri te si qua parentis tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis Anchises genitor) Dauni miserere senectae et me, seu corpus spoliatum lumine mavis, redde meis. Vicisti et victum tendere palmas Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx: ulterius ne tende odiis.” Stetit acer in armis Aeneas volvens oculos dextramque repressit; et iam iamque magis cunctantem flectere sermo coeperat, infelix umero cum apparuit alto balteus et notis fulserunt cingula bullis Pallantis pueri, victum quem vulnere Turnus straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.

Ille, oculis postquam saevi monimenta doloris exuviasque hausit, furiis accensus et ira terribilis: “Tune hinc spoliis indute meorum eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit.” Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit fervidus; ast illi solvuntur frigore membra vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

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qualunque strada egli tenti la via con il valore. Allora nel petto si muovono variamente le sensazioni; guarda i Rutuli, e la città, e indugia per il terrore, e trema al pensiero che la morte gli è addosso, e non vede né dove potersi sottrarre (alla morte), né con quale forza scagliarsi contro il nemico, né carri, da nessuna parte, né la sorella auriga. Enea palleggia, verso di lui che sta esitando, l’asta fatale, dopo essersi procurato la fortuna con gli occhi, e con tutto il corpo la scaglia da lontano. Pietre, scagliate da una macchina da guerra per abbattere le mura, non sibilano mai così, né così violenti balzano i tuoni dal fulmine. L’asta vola come un nero turbine, portando funesta distruzione e squarcia il bordo della corazza e dello scudo a sette strati; stridendo trapassa a mezzo la coscia. Il grande Turno, colpito, cade a terra, piegate le ginocchia. Con un grido i Rutuli si alzano tutti insieme e tutto il monte intorno muggisce e i profondi boschi fanno eco per largo tratto. Lui, a terra, supplice, levando gli occhi e la destra in preghiera, disse: “certo. L'ho meritato e non ti imploro; usa il tuo destino. Ti prego, se una qualche preoccupazione per un padre può toccarti, abbi pietà delle vecchiaia di Dauno (anche tu hai avuto un padre così, Anchise) e restituisci ai miei me o, se preferisci, il mio corpo spogliato della vita: hai vinto, e gli Ausoni mi hanno visto vinto, tendere le mani; Lavinia è tua moglie. Basta con l’odio”. Enea si fermò, infiammato in armi, girando gli occhi e trattenne la mano. E ormai, ormai le parole di Turno cominciavano a piegare lui che esitava, quand'ecco che apparve, in cima alla spalla di Turno, il triste balteo del giovane Pallante, e le cinghie risplendettero nelle borchie ben note, Pallante che Turno aveva abbattuto, vinto dalla ferita, e ora portava sulle spalle il trofeo nemico. Quello, dopo che bevve con gli occhi le spoglie, ricordo di un dolore crudele, acceso di furore e terribile d’ira, disse: tu, vestito delle spoglie dei miei, dovresti sfuggirmi ? E' Pallante a immolarti con questa ferita, Pallante a vendicare il sangue scaturito da una violenza scellerata”. Dicendo questo affonda, ribollente d’ira, la spada proprio nel petto; a quello invece è nel freddo che si sciolgono le membra, e la vita, con un gemito, fugge sdegnosa sotto le ombre.

I PROTAGONISTI Al momento ...


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