Analisi poesia “Io maggio posto in core a Dio servire” PDF

Title Analisi poesia “Io maggio posto in core a Dio servire”
Author mal pa
Course Letteratura italiana 
Institution Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Pages 2
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Analisi dettagliata poesia “Io maggio posto in core a Dio servire” Iacopo da Lentini...


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Analisi: “Io maggio posto in core a Dio servire” di Jacopo da Lentini La poesia “Io maggio posto in core a Dio servire” è stata scritta da Jacopo da Lentini, un importante “notaro” presso la corte di Federico II di Svevia. Egli non era solo un funzionario pubblico, ma era anche il maggior esponente della Scuola Siciliana, un movimento letterario che nacque e si sviluppò presso la Magna Curia federiciana nella città di Palermo. Per “scuola siciliana” si intende un gruppo di uomini acculturati del Duecento che lavoravano come burocrati, notai, giuristi per l’imperatore e che si dilettavano nella scrittura poetica, la quale pratica era vista come un passatempo elitario, e vedevano il loro “caposcuola” in Lentini. “Io maggio posto in core a Dio servire” è un sonetto, (la cui paternità del genere poetico è attribuita proprio al poeta in questione) ossia un componimento poetico che deriva dalla canzone provenzale, costituito da due quartine e due terzine di endecasillabi. Le due strofe tetrastiche sono collegate con rime alternate (ABAB), mentre le terzine rimano secondo lo schema CDC DCD (rime incatenate). L’autore del componimento scrive in prima persona singolare per indicare che egli stesso è coinvolto nel sentimento amoroso nei confronti della donna e prevale l’uso del passato prossimo del modo indicativo, con delle frasi che prevedono il condizionale e il congiuntivo. Egli inoltre predilige la struttura ipotattica della frase, con molte subordinate collegate tramite l’ausilio delle virgole. Dal punto di vista lessicale, Jacopo da Lentini, così come tutti gli altri artisti della scuola siciliana, scrive nel siciliano illustre, ovvero il siciliano depurato dai barbarismi del volgare e basato sul latino e sul provenzale. Infatti, è possibile evincere nel testo molti latinismi come “gire”, “audire”, “claro” “gaudere” ma anche meridionalismi come l’espressione “m’aggio” e soprattutto provenzalismi, con molti riferimenti alla cultura cortese, come “sollazzo” (“sollazzo, gioco e riso” valori propri della cultura provenzale), “blonda testa e claro viso” che si riferisce ai tipici canoni di bellezza della donna di corte, “intendimento”, “portamento” e “consolamento”. Nel brano sono presenti diverse figure retoriche: nel primo verso della prima strofa tetrastica c’è l’allitterazione della lettera “i” e un’anafora, che rimanda alla costruzione latina della frase; al verso 4 è presente un’apocope (o’) e un parallelismo con la cultura di corte (“sollazzo, gioco e riso”); al verso 5 si trova un’altra anafora, come nel verso 10; al verso 6 è possibile riscontrare l’assonanza della lettera “a”. Tra il verso 11 e 12 si trova un’inarcatura, un’accumulazione (“suo bel portamento/ e lo bel viso e ‘l morbido sguardare”) e un’apocope (‘l v.12). Il componimento si conclude con un iperbato nel verso 14.

In questo sonetto il poeta afferma di volersi mettere al servizio di Dio per poter andare in Paradiso, luogo di cui ha sentito parlare come un continuo delle le gioie terrene. Nella seconda strofa egli menziona la donna amata (senza mai indicarne il nome, per proteggerla dagli invidiosi), con la quale vuole recarsi in questo luogo celestiale, non per commettere un peccato contro Dio ma per stare con lei per sempre e vederla risplendere nella gloria eterna. È evidente che l’autore del componimento è diviso tra l’amore terreno per la sua donna e l’amore spirituale per Dio che, secondo la mentalità medievale, dovrebbe essere sempre al di sopra di ogni cosa....


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