Argan - Walter Gropius e la Bauhaus PDF

Title Argan - Walter Gropius e la Bauhaus
Author Camilla De Mattei
Course Storia dell'architettura contemporanea
Institution Università di Pisa
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Summary

WALTER GROPIUS E LA BAUHAUS 1951 GIULIO CARLO ARGAN INTRODUZIONE stato Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus dopo il fondatore Walter Gropius e di Hannes Meyer, a sentenziare: Bauhaus non era con un chiaro programma: era Ad essa strettamente unito questo corollario: Bauhaus un Sono ...


Description

WALTER GROPIUS E LA BAUHAUS 1951 – GIULIO CARLO ARGAN INTRODUZIONE È stato Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus dopo il fondatore Walter Gropius e l’intermezzo di Hannes Meyer, a sentenziare: «Il Bauhaus non era un’istituzione con un chiaro programma: era un’idea». Ad essa è strettamente unito questo corollario: «Il Bauhaus è un modello». Sono storicamente fondate, queste due affermazioni? Il Bauhaus, a un secolo ormai dalla sua fondazione (1919–1933), continua, in effetti, a essere considerato il più famoso esperimento nel campo della educazione artistica che si sia compiuto nell’epoca moderna. Nonostante la sua breve durata (meno di quindici anni), infatti, il Bauhaus si è caricato di un’aura mitica, creata soprattutto dal libro-capolavoro di Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus del 1951. Sul libro di Argan è decisiva l’introduzione di Marco Biraghi all’ultima edizione Einaudi (2010), dal titolo «Valore di un libro», per cui è sufficiente qui rimandare a quel testo, ricordandone alcuni passaggi decisivi. Innanzitutto, il ruolo fondamentale avuto da Anna Mazzucchelli, futura moglie di Argan, per la decisione di quest’ultimo di scrivere un libro su Gropius. Come oggi sappiamo, è più un testo filosofico che un libro di storia, che mostra un Gropius di là della sua reale figura, come ricorderà lo stesso Argan citando un’affermazione di Gropius: «Lei mi ha fatto plus grand que nature». Di aver osato una sintesi che nessun altro studioso del Bauhaus, dopo questo libro, tenterà. In questi, come nei molti altri casi di studi riguardanti il tema affrontato da Argan, si verifica un abbandono della ricerca delle grandi sintesi che per loro stessa natura lasciano spesso scoperti troppi aspetti dei problemi, a favore di studi più accurati e filologicamente più corretti, come recita la prefazione all’edizione italiana del libro di Wingler. In tal modo, Walter Gropius e il Bauhaus tornano a essere un argomento fra i tanti, che in quanto tale rientra nell’indifferente regno delle differenze e delle specificità storico-filologiche: un regno nel quale tutto ciò che è esistente può rivendicare la propria presenza, e dove, tuttavia, proprio la qualità dei fenomeni, il senso di cui dovrebbero essere portatori, finiscono per cessare di avere qualche importanza. Il libro di Argan, per Biraghi, non è una celebrazione, ma una sfida: una sfida per un’idea progressiva di società e di architettura (e, in ultima analisi, di urbanistica, in quanto strumento per la risoluzione di problemi reali); una sfida che nemmeno nel momento in cui il libro è stato concepito risultava facilmente accettabile. Oggi l’idea di un’architettura, di un’urbanistica, di una società votate al bene comune è quanto mai inattuale. Tuttavia, paradossalmente, è proprio la distanza da ogni sua attualità a rendere attraente la sfida del libro di Argan. Per questa ragione, ripubblicarlo e rileggerlo oggi significa ben più che rinverdire un classico della letteratura architettonica, ben più che rendere il doveroso omaggio in occasione di qualche anniversario: significa scommettere sulla possibilità di trovare una coincidenza tra l’epoca odierna e i primi anni Cinquanta, al di là di tutto il tempo e le differenze che li separano. E la conclusione di assume toni quasi profetici sul nostro difficile presente, celebrando il valore e la paradossale attualità del libro arganiano. Certo, oggi, per nostra fortuna, il momento è, almeno apparentemente, meno drammatico: nessuna guerra da poco conclusa che costringa a una ricostruzione materiale e morale; in compenso però nessuno sprone alla condivisione di un impegno, al raggiungimento di un obiettivo comune. Ed è forse proprio l’assenza di ogni conflitto manifesto – e conseguentemente l’assopirsi delle coscienze, il loro ergersi a paladine estreme dell’identità individuale – a costituire il problema, il dramma collettivo odierno; la condizione dalla quale alienarsi, il punto di crisi a partire dal quale cercare di ricostruire. Walter Gropius, la Bauhaus, in quanto epici pezzi di storia, appartengono inequivocabilmente al passato, ma al tempo stesso, e in modo altrettanto esemplare, costituiscono un’indimenticabile occasione per il futuro. Questo, probabilmente, è il valore più alto che il libro di Argan riesce tutt’oggi a comunicare. LIBRO Il problema principale della ricerca insita nell’opera di Gropius è quello di costruire una didattica dell’architettura che abbia come fondamento tutte le discipline in ambito artistico, avendo come scopo quello di riformare il rapporto tra arte e società. L’opera d’arte è una realtà che la società produce per corrispondere a un reale bisogno e non per soddisfare ad aspirazioni oziose. Bisogna dunque che l’arte sia

tale da poter venire completamente riassorbita nella circolazione della vita. Il miglior modo per far sì che l’arte si normalizzi nella vita delle persone è quello di utilizzare i mezzi di produzione contemporanei, per la loro capacità di raggiungere il maggior numero di persone con costi ridotti. Da un punto di vista marxista ogni processo storico, anche dell’arte, dipende dallo sviluppo dei mezzi di produzione: se l’arte si eccettuasse a questa legge e continuasse ad avvalorare, in una società industrializzata, i procedimenti tecnici dell’artigianato, essa costituirebbe una forza conservatrice e reazionaria. Dunque, l’arte dovrà servirsi dei mezzi di produzione dell’industria, i soli che possano immetterla nel circolo della vita sociale moderna. E poiché l’industria produce beni di utilità collettiva, l’opera d’arte non dovrà rivolgersi ai ceti più colti, ma essere utilizzabile dall’intera collettività. La didattica della Bauhaus si basa proprio su queste considerazioni, proponendo una formazione che prevede non solo lo studio dell’opera ma anche la realizzazione prima con i metodi dell’artigianato, poi con quelli dell’industria. Se la formazione dell’artefice consiste nel passare dalla padronanza dell’utensile a quella della macchina, il suo processo formativo riproduce il processo evolutivo dall’artigianato all’industria: la scuola artistica è dunque una società in abbozzo perché il processo didattico riproduce il processo dell’evoluzione sociale. L’altro caposaldo di questa concezione della didattica in funzione di una nuova concezione dell’arte è la razionalità come unica guida, in quanto l’arte non deve fornire visioni ispirate della realtà bensì deve contribuire a costruirla. L’energia razionale, di cui ogni opera è satura, si scarica nella vita e ne intensifica il ritmo: se l’arte non è più l’approdo sereno e liberatore al di là della contingenza, è tuttavia la forza che ci fa superare la contingenza nella contingenza stessa, obbligandoci a compiere con razionale chiarezza anche i minimi atti della vita quotidiana. La Bauhaus, con la sua rigida razionalità, vuole creare le condizioni di un’arte senza ispirazione, che non deformi poeticamente la realtà della nozione ma costruttivamente formi la nuova realtà. La Bauhaus incarnava in piccolo quello che Gropius tentava di fare in grande nella società: non c’era differenza tra didattica dell’arte e tempo libero, la produzione artistica era normalizzata all’interno della vita di ciascun docente e allievo della scuola. La Bauhaus è stata un tipico esempio di scuola democratica, fondata sul principio della collaborazione tra maestri e allievi. Concepita come un piccolo ma completo organismo sociale, mirava a realizzare una perfetta unità di metodo didattico e di sistema produttivo. Dotata di mezzi assai limitati, integrava il bilancio fornendo all’industria modelli studiati in collaborazione da docenti e allievi. Benché fosse una scuola governativa la vera fisionomia della Bauhaus era quella di una comunità artistica organizzata. Per l’intera durata dei corsi maestri e allievi vivevano nella scuola; la loro collaborazione continuava anche nelle ore di riposo, che venivano impiegate in audizioni musicali, conferenze, letture, discussioni e nell’organizzazione di rappresentazioni, mostre, gare sportive. L’attività artistica si inseriva e ambientava spontaneamente in quell’alto tenore di vita: si cercava così di togliere alla creazione artistica ogni carattere di eccezionalità e di sublime per risolverla in un ciclo normale di attività e produttività. L’arte destinata a ripercuotersi e confondersi nella vita doveva nascere come atto della vita. Avendo come obiettivo quanto finora spiegato, è chiaro come la scuola sviluppasse molteplici discipline per raggiungere quanti più ambiti della società. L’architettura cambia in quest’ottica, divenendo uno strumento al servizio dell’uomo e non più rappresentazione di un potere religioso o politico. Con la riforma della tipografia, della pubblicità, del teatro , la Bauhaus allarga illimitatamente la sua sfera d’influenza sul costume e le consuetudini sociali; non si tratta soltanto d’introdurre nella vita quotidiana, attraverso oggetti d’uso comune, un più preciso senso della forma e quindi una più lucida coscienza della realtà, ma di individuare e potenziare i centri della sensibilità dell’uomo sociale . Nella tipografia il rinnovamento si estende dalla forma dei caratteri all’architettura della pagina e del libro. Balza agli occhi l’analogia stilistica tra il disegno dei nuovi caratteri e il profilo dei nuovi mobili metallici; oserei dire che i caratteri stanno nella pagina come quei mobili nell’architettura. In sintesi: per secoli i caratteri di stampa sono stati pensati in funzione della scrittura, quasi compimento epigrafico dell’opera letteraria; ora sono pensati in funzione della lettura, come uno strumento del lettore. Lo stesso è accaduto dell’architettura: un tempo era in funzione dell’architetto creatore, come interprete delle supreme astrazioni religiose e politiche; ora è in funzione dell’uomo che vi abita, strumento della sua esistenza.

Alla fine degli anni ’20 arriva il momento in cui Gropius sente di dover espandere l’area di influenza del suo programma educativo oltre i muri della scuola. Perciò intraprende la libera professione improntando il suo lavoro sul dare risposte concrete ai problemi della società e in particolare della città, attraverso l’architettura. Nel 1928 Gropius lascia la Bauhaus e riprende a Berlino l’esercizio della libera professione. Il suo programma di azione educativa non poteva più contenersi nei limiti di una scuola. L’urbanistica è una pedagogia formale che vuole esercitarsi nella totalità della sfera sociale. Essa determina il tracciato sul quale si muovono e organizzano le forze cooperanti della società. Poiché cooperazione è anzitutto eliminazione di contraddizioni, il compito dell’urbanistica consiste essenzialmente nell’eliminare le contraddizioni. Una delle massime contraddizioni è quella che l’industria capitalistica ha aperto tra l’organizzazione del lavoro collettivo e l’autonomia dell’individuo e della famiglia. Ma le nefaste conseguenze igieniche e sociali dell’abitazione collettiva non dipendono se non dal fatto che un’insufficiente struttura politica e amministrativa abbandona i quartieri operai nelle mani della speculazione. Le case collettive possono realizzare costruttivamente condizioni di aria e di luce altrettanto buone che le case per una sola famiglia. Non sarà il compromesso della casetta col giardino a risolvere un problema nel quale si riflette l’antitesi tra un romantico sentimento della natura e la moderna esigenza di una perfetta razionalità di vita. A completare l’opera di Gropius vi sono, oltre agli studi sull’abitazione, quelli sulle due funzioni principali che la società delega alla collettività, ovvero la distribuzione del lavoro e l’educazione, nella forma di progetti di centri per l’impiego, scuole, teatri. CONSIDERAZIONI Come scrive Gabriele Perretta: lo scetticismo di Argan, che s’interroga sulle ultime scommesse dell’arte contemporanea, nasce piuttosto dal confronto severo con il design e l’arte programmata. Questa prospettiva, che Eco definirebbe apocalittica, è inscindibile dall’analisi teleologica del Bauhaus e, non tenendone conto, si rischia di non comprendere il motivo per cui Argan assegnò alla scuola fondata da Gropius un ruolo così decisivo nel processo storico. Progettare per non essere progettati non rappresenta soltanto uno slogan efficace dello storico dell’arte ma testimonia di come la deriva tecnologica e tecnocratica del mondo dei consumi non si limiti a guidare le nostre scelte e il nostro vivere quotidiano ma progetta, senza che da parte nostra ve ne sia l’evidenza, le nostre esistenze. Argan comprende con lungimiranza che il Bauhaus è l’ultimo asso che l’arte e gli artisti si giocano. Nel momento in cui l’industria e la produzione di massa sostituiscono, passo dopo passo, l’unicità dell’oggetto artistico, solo una visione più ampia del ruolo dell’artista nella società, quella appunto immaginata da Gropius, potrà salvarlo. Ma se ciò non avviene, vi sarà, per Argan, il funerale dell’arte causato dallo scollamento tra arte e mondo della produzione. Il Bauhaus è pertanto il tentativo ardito della ragione di ovviare a questa dissociazione; impossessarsi della pratica progettuale tenendo conto delle nuove modalità produttive e dei nuovi materiali, acciaio, cemento e vetro, significava infatti rilanciare non solo la creatività artistica su di un piano di modernità ma concepire l’arte con un suo fine sociale. Recuperare la portata ideologica che contraddistinse i prodotti dell’arte del passato era possibile attraverso il dominio delle nuove esigenze sociali e delle innovazioni industriali: la tecnica è l’opposto il fallimento del progetto e il disordine del destino. Giulio Carlo Argan, il Bauhaus e la crisi della ragione dell’ideologia, ma l’ideologia della tecnica ne è una specie. La nuova architettura e il Bauhaus di Gropius costituì per Argan una chiamata alle armi e il fondamento per il testo dedicato a Walter Gropius e la Bauhaus. Era la fonte che permetteva alla sua peculiare vocazione storica di realizzare un’analisi partendo da principi teorici, progetti, oggetti e edifici, intesi quali atti concreti della dinamica storica. Oggi l’Ikea realizza in maniera esemplare quanto Argan aveva compreso con largo anticipo: pur mettendo a disposizione di tutti mobili e arredamento a basso costo non rappresenta un’evoluzione della società ma soltanto un’estatica esaltazione del consumo. La morte dell’arte è sancita dalla perdita della posta in gioco più alta giocata dal Bauhaus: l’aspettativa fiduciosa che la rinnovata capacità progettuale potesse realizzare, attraverso l’estetica, un veicolo di valori etici. C’è nel progettare dell’arte un senso, un interesse, una passione della vita, che non troviamo nella logica

ineccepibile della progettazione tecnologica: questa progettazione che cresce su sé stessa per successive illazioni ignorando l’alternativa di morte che accompagna ogni azione morale, e quindi è sempre in pericolo di varcare, senza neppure rendersene conto, il limite della vita. Anche il designer non è quella figura salvifica che, secondo Gropius, avrebbe potuto recuperare l’arte all’interno della moderna produzione industriale poiché, nel tempo, è venuta sempre più ad imporsi la preminenza dell’immagine priva di quella funzione assolta nel passato: la morte dell’arte è già avvenuta e siamo usciti dalla fase storica in cui l’arte ha sempre avuto il compito di elaborare modelli di valore. Abbiamo veduto come il mondo attuale consumi quantità enormi d’immagini: è facile prevedere che la fenomenologia del mondo di domani sarà tutta fondata sull’immagine. Se non saprà valutare, il mondo non saprà più valutarsi, esisterà senza avere neppure la coscienza di esistere. La disillusione di Argan deriva dal fatto che la tecnologia e la comunicazione di massa del dopoguerra avessero reciso i nessi dell’opera d’arte con la cultura nella sua globalità e che i valori che le erano assegnati nel passato si dissolvessero: una disciplina muore quando, caduti i nessi col sistema globale della cultura, cessa la sua funzione. Così è stato dell’alchimia, dell’astrologia. L’eternità dell’arte è una frottola, il vero problema è la sopravvivenza della civiltà dopo la fine dell’arte. E questo dipenderà anche dal modo in cui l’arte avrà vissuto la propria fine, che sarà ancora un momento della storia, di tutti il più illuminante. L’ARCHITETTURA DI GROPIUS L’architettura di Walter Gropius si concretizzò in un momento della storia della costruzione in cui si andava a creare una frattura con il passato, finalmente si parlava di civiltà tecnologica. Da quel momento in poi il grande pubblico, che un tempo era completamente indifferente all’architettura, fu scosso dal suo torpore facendo nascere un profondo interesse per un argomento che sempre più riguardava la comunità e non solo il singolo abitante. Gropius definì questo processo di creazione della nuova architettura non frutto del capriccio personale di un pugno di architetti avidi di innovazione a tutti i costi, ma semplicemente il prodotto logico e ineluttabile delle condizioni intellettuali, sociali e tecniche della nostra epoca. Lo sviluppo della Nuova Architettura tuttavia incontrò molti ostacoli fin dalle prime fasi di sviluppo, dai contrasti che si venivano a formare con i manifesti personali dei singoli architetti alle difficoltà tecniche dovute al declino tecnologico-economico del dopoguerra. Gropius affermò che la razionalizzazione era il principio cardine al fine di raggiungere una purificazione di tale disciplina. Nell’architettura, l’enfatizzazione delle sue funzioni strutturali e la liberazione dall’eccesso di ornamenti e dalle regole degli ordini classici fecero sì che l’opera fosse nettamente più semplice ed economica, a favore del valore pratico. L’altro aspetto, quello dell’appagamento visivo e dell’estetica non era di minor valore di quello materiale. Le nuove scoperte della tecnica avevano ampliato la fantasia della costruzione, liberando l’architetto dal vincolo del mattone. Fu così che si perse la solida massa della muratura a favore di sottili pilastri, rendendo così possibile una notevole economizzazione in termini di ingombro, spazio, peso e trasporto. Abituati a delle strutture mastodontiche come quelle di derivazione classica, non fu difficile rendersi conto come, per l’epoca in cui si andavano ad affermare questi nuovi materiali, il calcestruzzo, la ghisa e successivamente l’acciaio, la popolazione si sentisse disorientata davanti ad una tale rivoluzione architettonica. Una delle conquiste più importanti di questa Nuova Architettura fu l’abolizione della funzione portante del muro. Quest’ultimo, invece di avere la funzione di sostegno, come nella classica casa di mattoni, acquistò la funzionalità di mero schermo teso tra i pilastri verticali. In questa nuova ottica costruttiva, in cui i vuoti sempre più dominavano sui pieni, l’importanza strutturale venne accentuata dalla trasparenza e/o riflettenza del vetro. Gropius dette una sua personale descrizione di questo materiale: la sua scintillante inconsistenza, e il modo in cui sembra fluttuare tra muro e muro con la stessa lievità dell’aria, conferiscono una nota di gaiezza alla casa moderna. La razionalizzazione dell’industria fondata su un’alleanza produttiva tra lavoro manuale e lavoro meccanico fosse non più un ostacolo allo sviluppo della civiltà, bensì una delle sue condizioni preliminare. Fu un concetto molto importante e veritiero, basti pensare come in ogni epoca storica, l’esistenza di modelli standard sia stata la regola per una società evoluta e ben organizzata. Questa

corrente di pensiero fu alla base anche dell’architettura civile moderna, dove l’uso di elementi prefabbricati, standardizzati, pre-dimensionati divenne poi norma, accrescendo la qualità costruttiva, riducendone al tempo stesso i cosi. L’omogeneizzazione delle componenti architettoniche avrebbe come salutare conseguenza il conferimento di un carattere coerente e uniforme alle nostre città, tratto distintivo delle civiltà urbane superiori. Questo periodo fu alla base della tecnica costruttiva moderna e trasformò il settore edilizio, che prima era essenzialmente artigianale, in un processo di industria organizzata. Una quantità sempre più grande di lavorazioni che prima venivano realizzate in sito, da questo periodo in poi, si iniziarono a svolgere in fabbrica e successivamente trasportate in loco. Una grande spinta ver...


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