Ariosto, Machiavelli, Tasso PDF

Title Ariosto, Machiavelli, Tasso
Author Valentina Fusaro
Course Letteratura italiana
Institution Università della Calabria
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Niccolò Machiavelli Nacque a Firenze il 3 maggio del 1469 da un’antica famiglia nobile ma economicamente decaduta. Compiuti gli studi umanistici nel 1498 ottenne l’incarico di segretario della seconda cancelleria e poi anche della magistratura dei Dieci. Come tale fu inviato presso molti corti italiane ed europee. Da quel momento, per quindici anni, si trovò presente in momenti e luoghi di grande importanza per la politica italiana ed europea, impiegato per compiti di trasmissione di ordini, corrispondenze ufficiali, raccolta di notizie e missioni diplomatiche. Potè così acquisire conoscenza diretta degli avvenimenti politici di quegli anni: il crollo dell’equilibrio e dell’indipendenza degli Stati italiani e lo scontro nella penisola delle principali potenze europee. Nel 1512, quando i Medici ritornarono a Firenze, rovesciando il governo della Repubblica, Niccolò Machiavelli dovette lasciare il suo incarico. Nel 1513 venne arrestato e torturato con l’accusa di aver partecipato a una congiura antimedicea. Fu riconosciuto innocente, ma intanto dovette vivere in esilio nei pressi di San Casciano in Val di Pesa, presso Firenze, dove rimase per il resto della vita dedicandosi allo studio e alla sua attività di scrittore. Quando, dopo il sacco di Roma (maggio 1527) Firenze caccia i Medici e ritorna al regime repubblicano (il quale si manterrà solo per tre anni: nel 1530 i Medici prenderanno di nuovo, definitivamente, il potere), Niccolò Machiavelli sperò di riavere il suo ufficio di segretario, ma se lo vide rifiutare accusato di aver collaborato con i Medici. Deluso e addolorato, si ammalò e morì in quello stesso anno, il 21 giugno 1527. Principe La fama di Niccolò Machiavelli è universalmente legata a “Il Principe”, scritto nel 1513. Il Principe di Niccolò Machiavelli è un breve trattato che l’autore indirizza a Lorenzo de’ Medici figlio di Piero II de’ Medici e nipote di Lorenzo il Magnifico, in occasione del ritorno dei Medici a Firenze, allorché era nato un vivace dibattito intorno agli ordinamenti da dare al nuovo stato. In quest’opera Machiavelli discute, come egli stesso dichiara, su «che cosa è principato, di quali spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». Ne Il Principe Machiavelli esplora le possibilità e i modi di costituire un forte stato retto da un uomo dotato di virtù, intesa come intelligenza superiore e capace di dominare gli eventi. Lo stile de Il Principe costituisce una novità nella prosa del Cinquecento, per il contenuto espresso in un linguaggio sobrio e incisivo, con osservazioni lucide e precise e talvolta ironiche. Il Principe di Niccolò Machiavelli può essere suddiviso in quattro parti: – la prima comprende i capitoli I-XI. Analizza i vari tipi di principati: ereditari, misti (cioè quelli che si aggiungono come nuova conquista a uno Stato ereditario), nuovi; – la seconda comprende i capitoli XII-XIV. Tratta della necessità di organizzare un forte esercito, preferibilmente costituito dai cittadini e non da mercenari che combattono solo per il denaro e non per amor di patria; – La terza comprende i capitoli XV-XXIII. Delinea la figura del principe ideale. Il principe secondo Niccolò Machiavelli deve possedere delle qualità (le qualità del principe): deve essere astuto per sottrarsi agli inganni; forte per sconfiggere i nemici dello Stato; sleale, perché gli uomini sono cattivi per natura e, qualora il principe fosse leale con loro, verrebbe senz’altro ricambiato con la slealtà; ipocrita (qualora fosse necessario), perché per raggiungere i suoi obiettivi il principe deve apparire una persona leale, in cui sia

possibile avere fiducia e (precisa Machiavelli) non sarà difficile ingannare gli uomini, perché essi sono stolti e miopi, capaci cioè di vedere soltanto l’interesse immediato, senza valutare le conseguenze future. Il capitolo XXVI , l’ultimo, è certamente il più famoso dell’intera opera; contiene l’esortazione finale rivolta al casato dei Medici, che, in quanto famiglia illustre, favorita da Dio e dalla Chiesa, sono gli unici a poter liberare l’Italia «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa… » ed invoca un «redentore», per concludere con i celebri versi (vv. 93-96) della canzone All’Italia di Francesco Petrarca: Virtù contro a furore prenderà l’arme; e fia el combatter corto; ché l’antico valor nell’ italici cor non è ancor morto. «La virtù [degli italiani] prenderà le armi contro il furore [degli stranieri]; e il combattimento sarà breve, perché l’antico valore nei cuori italiani non è ancora morto». Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio furono iniziati da Niccolò Machiavelli nel 1513, prima della stesura del Principe scritto di getto tra il luglio e il dicembre di quello stesso anno. I Discorsi vennero poi ripresi dall’autore, e finiti probabilmente entro il 1517, stimolato a rielaborare l’opera e a concluderla dalla frequentazione del circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai, a Firenze), composto da giovani aristocratici di tendenza repubblicana. Ordinati in tre libri, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio hanno carattere di divagazioni intorno a un testo-base: la prima Deca della Storia di Roma del grande storico latino Tito Livio, Ab urbe condita [Dalla fondazione di Roma]. Il libro I comprende 60 capitoli ed è dedicato alla politica interna dello Stato, alla sua amministrazione, alle leggi e soprattutto all’importanza della religione come vincolo unitario e strumento politico nelle mani dei governanti: anche per questa idea della religione come strumento di governo Machiavelli, in altri passi dell’opera, rimpiange la religione pagana dell’antica Roma, che induceva il cittadino a identificarsi nello Stato, e critica quella cristiana che invece lo distoglie dagli interessi civili e dall’amor patrio. Il libro II si compone di 33 capitoli ed è dedicato ai temi della politica estera, dell’organizzazione militare, della conduzione delle guerre. Il libro III è più vario: considera per 49 capitoli sia come le azioni di «uomini particolari» abbiano fatto grande Roma sia come si trasformino gli Stati, cioè nascano, si evolvano, decadano. In quest’ultimo libro più insistenti sono i riferimenti alla «corruzione» e alla crisi di Firenze, che appaiono tanto più chiari in opposizione al modello ideale della Roma antica. Si è a lungo discusso sulla relazione fra Il Principe e i Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio. Certo le basi teoriche delle due opere sono le stesse, ma la prima pone il problema di fondare uno Stato nuovo, e ciò può avvenire solo a partire dalla “virtù” di un individuo, il principe, la seconda pone il problema della durata e della continuazione di uno Stato già esistente. Quando è un unico individuo a creare uno Stato nuovo, questo può assumere solo la forma del principato; ma perché poi lo Stato possa durare gli occorre l’appoggio del “popolo” e un equilibrio fra i poteri che solo la repubblica può garantire. E va da sé che un’influenza in senso repubblicano dovettero giocarla anche il cattivo esito de Il Principe (i Medici non ne accolsero affatto i suggerimenti e continuarono a ignorarne l’autore) e la frequentazione del circolo – repubblicano appunto – degli Orti Oricellari: non sarà un caso, a tale proposito, la dedica dell’opera a due dei suoi più importanti esponenti, Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai.

Dopo i Discorsi, lo scritto politico più importante elaborato da Niccolò Machiavelli nella seconda fase della sua vita è Dell’arte della guerra, composto tra il 1519 e il 1520. L’opera contiene una serie di suggerimenti specifici e come Il Principe non è solo un trattato scientifico, vuole avere anche una funzione politica immediata. Dell’Arte della guerra Dell’Arte della guerra, composta tra il 1519 e il 1520 e pubblicata nel 1521, è l’unica delle opere maggiori di Niccolò Machiavelli che sia stata pubblicata mentre l’autore era vivo. È il primo testo teorico dell’arte militare. Dell’Arte della guerra è un trattato a forma di dialogo. È dedicata a Lorenzo di Filippo Strozzi, esponente di spicco della vita cittadina di Firenze. È suddivisa in sette libri, nei quali un famoso condottiero dell’esercito spagnolo, Fabrizio Colonna (alter ego dello stesso Machiavelli), dialoga con vari interlocutori: Zanobi Buondelmonti, Cosimo Rucellai (a entrambi erano dedicati i Discorsi), Battista della Palla e Luigi Alemanni. Come nei Discorsi, c’è il prendere a esempio la storia dell’antica Roma, il cui insegnamento va assunto a modello anche nell’arte militare. L’organizzazione e la disciplina delle legioni nascevano dalla forte identificazione dei soldati-cittadini con lo Stato. Le truppe mercenarie invece non sono capaci di altrettanta disciplina, sono insubordinate e anarchiche, perché agiscono per ragioni egoistiche, dunque non sono affidabili né militarmente né politicamente. La crisi degli Stati della penisola in piena crisi dipende appunto dal ricorso a tali milizie, che fanno della guerra un mestiere. Lo Stato può essere militarmente forte solo se è capace di coinvolgere i cittadini sul piano politico come su quello militare. Deve dunque fondarsi sull’arruolamento dei cittadini o dei sudditi. Machiavelli sottolinea inoltre l’importanza della fanteria contro l’opinione tradizionale della superiorità della cavalleria formata dalla nobiltà ormai in decadenza. Machiavelli mostra di sottovalutare ancora il ruolo delle armi da fuoco, limitandosi ad affermare la necessità dell’artiglieria negli assedi. Nella parte conclusiva, il dialogo lascia posto al monologo di Fabrizio Colonna, attraverso il quale Machiavelli quasi si confessa con amarezza e lucidità quando rimprovera alla natura di avergli dato la facoltà di avere grandi cognizioni teoriche ma non di metterle in pratica: «E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi dovea dare facultà a poterlo eseguire». Ma i suoi lettori, avverte Machiavelli, non debbono disperare perché l’Italia «pare nata per resuscitare le cose morte». Istorie fiorentine Nel 1520 Niccolò Machiavelli venne incaricato dal cardinale Giulio de’ Medici, rettore dello Studio fiorentino, di scrivere una storia di Firenze. Le Istorie fiorentine, in otto libri, furono scritte tra il 1520 e il 1525, quando furono consegnate a Giulio de’ Medici divenuto papa col nome di Clemente VII. Saranno pubblicate postume nel 1532. I fatti storici narrati si arrestano alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Le Istorie fiorentine in otto libri Il primo libro contiene un ampio excursus sulla storia d’Italia a partire dalla caduta dell’impero romano. Il secondo libro parla della fondazione di Firenze e giunge sino al 1353; poi, a partire dal terzo libro, la cronaca dei fatti diventa sempre più analitica e minuziosa. Il Proemio delle Istorie fiorentine

Nel Proemio l’autore avvisa che avrebbe voluto iniziare il racconto storico dal 1434, anno a cui si erano fermate le storie scritte nel secolo precedente da Leonardo Bruni e da Poggio Bracciolini, ma che è stato costretto a partire da più lontano, perché i due storici avevano evitato di trattare in modo diffuso le discordie civili fiorentine precedenti a questa data. Ma proprio dal resoconto delle divisioni e degli errori del passato è possibile trarre motivi di insegnamento per il presente. Le Istorie fiorentine: la storia come maestra di vita Ancor più della documentazione, a Machiavelli interessa l’interpretazione dei fatti storici, in modo da trarne insegnamento. E infatti, sotto il profilo della documentazione, le Istorie fiorentine lasciano molto a desiderare: l’autore non fa specifiche ricerche ma si limita a seguire le sue fonti (da Villani e Capponi a Bruni) senza neppure confrontarle fra loro, ma scegliendo di volta in volta la versione dei fatti che più si presta alla sua interpretazione politica. Egli vuole raccontare la storia di Firenze mostrando come lo smarrimento delle antiche virtù municipali, la lotta delle fazioni, la mancanza di gruppi dirigenti capaci, l’incapacità di assumere a modello l’antica Roma hanno prodotto la crisi politica della città e, più in generale, di tutti gli Stati italiani. I temi di fondo, dunque, sono gli stessi dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Per mantenere un’autonomia di giudizio, Machiavelli si ferma alla morte di Lorenzo il Magnifico senza raccontare fatti più attuali e quindi senza dover giudicare l’operato recente dei Medici, dai quali sperava che, dopo questo incarico, gliene affidassero altri e quindi desiderava ardentemente far cosa grata ai suoi signori. Inoltre, Machiavelli, si serve dell’artificio dei “discorsi”, messi in bocca ai protagonisti, per esporre il proprio punto di vista. In particolare, facendo parlare gli “avversari” di Firenze Machiavelli può avanzare le proprie interpretazioni senza incorrere nell’accusa di parzialità. Niccolò Machiavelli s’interessò di letteratura e di poesia per tutto l’arco della sua vita. Il suo impegno letterario è testimoniato soprattutto dalla novella Belfagor arcidiavolo e dalle commedie la Mandragola e la Clizia. La Mandragola, scritta intorno al 1518, è il capolavoro di Niccolò Machiavelli in campo teatrale. Mandragola Il giovane Callimaco è innamorato della bella Lucrezia. Cerca di conquistarla ma Lucrezia è una donna onesta ed è fedele al marito, il vecchio messer Nicia. Approfittando del fatto che Nicia non ha figli, mentre vorrebbe un erede, Callimaco ordisce un inganno con l’aiuto di fra’ Timoteo e della madre di Lucrezia. Si finge medico e fa credere al vecchio che la mandragola, un’erba medicinale, può rendere fertile una donna. C’è però pericolo di morte per l’uomo che per primo, dopo che la donna abbia bevuto la pozione, abbia rapporti con lei. Nicia la pelle non ce la vuole rimettere. Allora Callimaco propone di rapire di notte uno sconosciuto e portarlo in camera di Lucrezia; il vecchio acconsente. Difficile è invece convincere Lucrezia che cerca di resistere tenacemente, finché cade vinta dalle preghiere della madre e dalle sottili argomentazioni del frate. Così Callimaco, travestito, viene introdotto in camera della donna alla quale si rivela chiedendo perdono in nome del suo amore. E Lucrezia, che fino a quel punto ha invano tentato di serbare la sua onestà, da vittima diventa ora attrice e protagonista, donando liberamente e lietamente il suo amore al giovane.

Belfagor arcidiavolo

Belfagor è un diavolo inviato sulla terra dai demoni col compito di sperimentare la vita umana e accertare se veramente le donne sono, come mogli, così rovinose e insopportabili da spingere i mariti alla disperazione e al peccato (come dicono tutti i mariti quando scendono nell’inferno). Belfagor allora prende l’aspetto di un bel giovane, conquista una bella fanciulla e la sposa. Ben presto però viene trascinato per colpa della moglie e dei parenti di lei in una così oppressiva rete di guai, di pericoli, di fastidi, che preferisce tornarsene rapidamente all’inferno. Ludovico Ariosto Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia l’8 settembre 1474. Il padre Niccolò è al servizio degli Estensi e comanda la guarnigione cittadina; la madre è la nobildonna reggiana Daria Malaguzzi Valeri. Per volere del padre, studia per cinque anni legge, ma poi si dedica alle lettere, per le quali sente una forte inclinazione. Alla morte del padre, nel 1500, è costretto a interrompere gli studi letterari e a trovare un’occupazione presso la corte degli Estensi per provvedere al mantenimento dei suoi nove fratelli. Di questo ci parla lo stesso Ludovico Ariosto nella sua sesta Satira, indirizzata a Pietro Bembo, perché gli procuri un precettore per suo figlio Virginio. In essa dalla richiesta passa a una rievocazione della sua giovinezza e delle avversità che gli fecero troncare gli studi. Dal 1501 al 1503 è capitano della rocca di Canossa. Nel 1503, per far fronte alle esigenze familiari (dare una dote alle sorelle e una professione ai fratelli e mettere ordine al dissestato bilancio degli Ariosto) entra al servizio (e vi resta fino al 1517) del cardinale Ippolito d’Este; prende gli ordini minori per ottenere alcuni benefici ecclesiastici; nascita del primo figlio naturale, Giambattista (il secondo figlio naturale, Virginio, nascerà nel 1509). L’attività letteraria: le commedie, le Satire, l’Orlando Furioso Tra il 1508 e il 1509 vengono rappresentate le prime commedie: Cassaria (rappresentata per il Carnevale del 1508) e I Suppositi. Si tratta di due commedie in prosa. La prima rappresenta il recupero, grazie al pagamento di un riscatto da parte dei fidanzati, di due giovani rapite e tenute come schiave da un ruffiano. Già il titolo (la “cassa” alla quale si allude è quella in cui è contenuto il riscatto) mostra la fedeltà al modello latino, soprattutto plautino: vi è un continuo vorticare dei personaggi, con scambi animati di battute e rovesciamenti frequenti di situazioni e di atteggiamenti. Analoga la struttura dei Supposti, che narra una serie rocambolesca di scambi di persona, avendo come significativo sfondo proprio la città di Ferrara. Nel 1515 l’amata Alessandra Benucci, con la quale ha una relazione da circa due anni, resta vedova; i due non possono né sposarsi né convivere per non perdere i rispettivi benefici: lo faranno egualmente di nascosto intorno al 1528. Il 22 aprile 1516 esce a Ferrara la prima edizione (in quaranta canti) dell’Orlando Furioso. Nel 1517 Ludovico Ariosto essendosi rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este, nominato vescovo di Buda, rompe i rapporti con lui e ha con il suo signore uno scontro piuttosto vivace. Compone la prima delle sette Satire indirizzata al fratello Alessandro, che invece parte col cardinale, e a Ludovico di Bagno, segretario di Ippolito. In essa tende ad esporre le ragioni del suo rifiuto. Il punto chiave del discorso è costituito dall’amarezza del poeta di non vedere riconosciuta la sua arte e di vedersi apprezzato invece per le mansioni svolte in incarichi meschini (vv. 91-108). Di qui la contrapposizione irrimediabile tra lui e il cardinale, di qui la polemica contro i valori fittizi della vita di corte (cfr. vv. 160-89), di qui soprattutto la difesa della propria dignità e la scelta della libertà (cfr. vv. 239-65).

Tuttavia, liberatosi della tirannia del cardinale, Ludovico Ariosto deve, per necessità, sottoporsi a quella del duca Alfonso, fratello d’Ippolito, all’inizio meno dura perché non lo costringe a faticosi viaggi e a lunghe assenze, ma col passare degli anni peggiora perché lo obbliga a risiedere per tre anni, dal 1522 al 1525, in Garfagnana, terra inospitale e piena di briganti, in qualità di governatore. Tra il 1525 e il 1531 Ludovico Ariosto è di nuovo a Ferrara, si dedica alla revisione del poema l’Orlando Furioso e alla rappresentazione delle proprie commedie: Lena e Il Negromante. La Lena è forse la commedia più riuscita di Ariosto: sullo sfondo di Ferrara, ancora una volta al centro della scena, si muove il personaggio di Lena, una ruffiana non più giovane, animata da un cinico disprezzo per i valori positivi, e interessata solo all’aspetto crudemente materiale ed economico della vita. Attorno a lei si svolge l’azione della commedia: Lena è sposata e ha un amante, Fazio; la donna consente per denaro al giovane Flavio di vedere Lavinia, la figlia di Fazio. L’arrivo di Fazio durante l’incontro tra i due giovani fa precipitare la situazione; ma questa infine si risolve con le nozze dei due giovani. Il cinico comportamento di Lena diviene l’involontario mezzo del quale il destino si serve per realizzare il lieto fine, non senza qualche analogia con il modello del Decameron di Boccaccio. Il Negromante racconta dei faticosi tentativi compiuti da un giovane per conquistare l’amata, sullo sfondo di una complicata vicenda che coinvolge anche un’altra coppia di amanti e, soprattutto, la figura centrale di un imbroglione, il mago Iachelino, che finge di possedere arti magiche capaci di risolvere tutte le situazioni. Incompiuta è rimasta una terza commedia, I studenti. Gli ultimi anni Nel 1532 (ottobre) esce la terza edizione dell’Orlando Furioso, in quarantasei canti, destinata a divenire quella definitiva nonostante l’intenzione dell’autore di apportare ulteriori correzioni. In novembre accompagna il duca Alfonso a Mantova a incontrare l’imperatore Carlo V. Al ritorno si ammala ...


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