BONA Fides PDF

Title BONA Fides
Course Giurisprudenza
Institution Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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«BONA FIDES» TRA STORIA E SISTEMA Di Riccardo Cardilli Capitolo Primo “VIR BONUS” E “BONA FIDES” 2. Il “bonum” nel “ius” Celso definisce lo ius come ars boni et aequi (= il diritto è l’arte di ciò che è buono ed equo). L’immagine che il giurista ne dà, è frutto di una stretta compenetrazione tra diritto, società e morale, nella quale il momento del contenuto del diritto esprime idee di valore che assumono in un certo momento storico il senso condiviso (da tutta la società o da una parte elitaria di essa, ma nella quale tutti i consociati si riconoscono) di una struttura dinamica tesa al raggiungimento di uno scopo. Ulpiano, invece, recupera la definizione celsina di ius, ma ad essa vi ricollega una diversa definizione di iurisprudentia (D. 1, 1, 1, 1: siamo chiamati sacerdoti perché abbiamo la conoscenza del bene e della giustizia equa, e professiamo la nostra fede, il bene e il male, distinguendo ciò che è lecito da ciò che è illegale). 3. “Vir bonus” e “agere” in Catone il Censore La più antica attestazione del modello del vir bonus all’interno del processo civile in ambiti probatori, risale a Catone il Censore, il quale nella sua oratio pro Turio ricorda una regola insegnatagli dagli antichi giuristi: “se qualcuno agisce in giudizio contro un altro per qualcosa, ed entrambi sono pari (buoni o cattivi), avendo compiuto il negozio senza testimoni, si deve dar di preferenza credito al convenuto. Se, Gellio e Turio si fossero impegnati con promessa verbale che Gellio non è migliore di Turio, nessuno sarebbe così pazzo da giudicare (in qualità di giudice della controversia) che Gellio sia migliore di Turio: e quindi se Gellio non è migliore di Turio, deve credersi di più al convenuto”. Questa antica regola presuppone un accertamento primario della fondatezza del petere (= richiesta) esclusivamente attraverso testes (= testimoni), il che è un indizio del radicamento della regola stessa nel lege agere, senza che ciò impedisca una sua conservazione nell’agere per concepta verba. D’altronde Catone dimostra come il valore sussidiario della probità dell’attore avesse assunto una sua specifica tecnicità nell’agere per sponsionem, dove la sponsio ‘ni vir melior esset’ (= scommessa ‘non c’è un uomo migliore’) poteva condizionare, in mancanza di testimoni, la vittoria della pretesa. La regola ricordata da Catone, infatti, rendeva opportuno per l’attore un agere per sponsionem di tale contenuto ogniqualvolta egli non potesse dimostrare con testimoni il dare oportere. Ciò induce a credere che il problema si ponesse maggiormente nei casi in cui il dare oportere non fosse nato da formale sponsio (con conseguente iudicis postulatio), ma fosse fondato su 1

una datio deformalizzata (con conseguente condictio). L’oratio di Catone sente come radicato l’uso della particolare sponsio processuale nei mores maiorum,tanto da utilizzarne le conseguenze per il momento decisionale nella causa da lui perorata a favore di tale Turio, causa ove in realtà non era stata conclusa la sponsio ‘ni vir melior esset’. Qualora non fosse possibile produrre testes a fondamento della pretesa, l’accertamento del vir melior (= uomo migliore) assumeva carattere fondativo del giudizio a favore dell’attore, determinandosi, al contrario, nell’ipotesi in cui ambo pares essent (= entrambi sono uguali), l’assoluzione del convenuto. Vi è quindi, soltanto in via sussidiaria, un’idea di favor rei. Porsi in una prospettiva dogmatica di probationes – e di accertamento probatorio di una verità processuale – può alterare il significato profondo della regola. Essa, infatti, sembra maturata nel lege agere, dove, a differenza del più recente agere per sponsionem, essa più che essere espressione di certa verba pronunciati dall’attore della condictio doveva essere maturata nella interpretatio pontificale quale idoneo fondamento della dichiarazione assertiva dell’attore che non potesse portare testes a sostegno della sua intimazione aio te mihi X milia dare oportere: id postulo aies aut neges. Un tale riscontro presuppone appunto l’opportunità di una sua utilizzazione specifica nell’agere per sponsionem ogniqualvolta l’attore non potesse fare affidamento su altro che sulla sua parola di aver consegnato la somma di denaro al de-bitore. L’accertamento pregiudiziale indotto dalla sponsio processuale sulla maggiore credibilità dell’attore avrebbe eliminato ogni questione sull’esistenza del dare oportere affermato. È, quindi, difficile stabilire in un contesto di tal genere una netta demarcazione tra prova di diritto e prova di fatto. Se si presta attenzione alla conceptio verborum della sponsio ‘processuale’ non si avrà difficoltà a rendersi conto che essa condiziona in negativo la pretesa, si ambo pares essent, qualora cioè nessuna della parti risultasse vir melior (= uomo migliore) dell’altra e quindi all’aio del primo equivaleva il nego dell’altro. Se però, l’attore risultasse ‘migliore’ del convenuto in base al modello del vir bonus, avrebbe prevalso la sua parola contro quella del convenuto, tanto da giustificare una decisione a suo favore. Nei mores prevale colui la cui parola induce maggiore affidamento in conseguenza della sua maggiore credibilità etico-sociale. I modelli di valore (vir bonus – vir malus) evocati nella valutazione giudiziale sono strettamente connessi alla struttura della società fondata su una visione eticogerarchica. Nel recente dibattito sul punto tra Giuseppe Falcone,che propone una lettura etico-individuale del modello, e Roberto Fiori, che lo intende, invece, come modello gerarchico etico-sociale, è utile sottolineare come sia difficile pensare nella Roma dei maiores (rispetto allo stesso Catone il Censore) ad una etica individuale slegata dalla posizione sociale del cittadino. Questo non vuol dire che, ad es., un vir malus appartenente alla nobilitas venisse per ciò solo preferito ad un vir bonus del ceto degli equites, ma che il modello di comparazione per decidere se l’attore (nobile o cavaliere o proletario) fosse vir melior del convenuto era quello del vir bonus quale espressione di valori della nobilitas. 2

Nella causa ove Aulo Gellio stesso è iudex – probabilmente una condictio formulare per un mutuo di denaro, i multi patroni (= molti avventori) del convenuto non contestano il contenuto del modello di valore evocato, ma contestano la sua rilevanza nel processo in corso, in quanto si trattava di un de petenda pecunia apud iudicem privatum agi, non apud censores de moribus (= denaro per il giudice, su richiesta di un privato cittadino..). E d’altronde lo stesso Gellio, non risolvendosi nell’applicare la regola dei maiores che avrebbe comportato una condemnatio de moribus, non de probationibus rei gestae, decide di giurare il non liquet (= non è chiaro). Vi è, quindi, all’epoca di Aulo Gellio l’indebolimento della condivisione di una regola fondata su modelli etico-sociali, salda ancora nei mores dei maiores, e condivisa ancora pienamente all’epoca di Catone il Censore, a favore di una valutazione centrata esclusivamente sulla probatio rei gestae (= la prova del suo successo). D’altronde, la scelta analoga di Flavio Fimbria (console nel 104 a.C.), che in qualità di iudex, probabilmente in un agere per sponsionem ‘ni vir bonus esset’, si era rifiutato di giudicare il cavaliere Lutazio Pinzia per non intaccare la sua fama di uomo probo, né riconoscergli però una qualifica che imponesse innumerabilia officiaet laudes (= innumerevoli uffici e lodi), evidenzia la monoliticità del modello etico-sociale aristocratico del vir bonus che non viene per così dire relativizzato in peius (= in peggio) pur a fronte di una persona in concreto per bene. Il caso emblematico di Fimbria, è ritenuto sintomo della difficoltà di concretizzare il criterio del vir bonus quando esso si trovi slegato da una funzione negoziale tipica. La prospettiva delle ragioni indicate da Cicerone in base alle quali Fimbria avrebbe rifiutato di giudicare Pinzia evidenziano, però, soprattutto uno scollamento tra modello etico-sociale di vir bonus quale sentito dalla nobilitas e modello etico-individuale che Pinzia soddisfaceva. Per G. FALCONE, al contrario, la testimonianza confermerebbe la “connotazione etica-comportamentale della nozione di vir bonus (a meno che non si voglia immaginare un intervenuto mutamento, prima degli anni di Fimbria, rispetto ad una più antica, diversa prospettiva sociale della qualifica: il che, però, costituirebbe una lettura aprioristica, non giustificata da riscontri testuali e, anzi, in contrasto con tutti i riscontri testuali di cui disponiamo e che si sono fin qui raccolti)”. R. FIORI, evidenzia, esattamente, che la decisione di Fimbria di non giudicare fosse stata sentita quale espressione di prudentia. Quest’ultimo studioso ha poi approfondito esaustivamente “i riscontri testuali” in materia, in un successivo contributo, contrapponendo alla costruzione di Giuseppe Falcone la presenza di una forte concezione etico-gerarchica in materia; La gerarchia come criterio di verità: ‘boni’ e ‘mali’. Ciò è tanto vero che Flavio Fimbria decide di sottrarsi al munus iudicandi, a causa della difficoltà di riconoscere quale vir bonus anche chi, pur essendo una persona per bene, non soddisfa l’eccezionale carica etico-sociale riconosciutagli dalla nobilitas. Due considerazioni risultano importanti: 3

1. Il vir bonus, che avrà una diversa carica etico-filosofica nella riflessione stoica penetrata a Roma con l’ellenismo, ha un profondo radicamento nella società romana pre-ellenistica, secondo un’area di significati giuridici ancorata ai mores maiorum, ed una specifica considerazione in ambito processuale, come residuale criterio di giudizio dell’affidabilità dell’agere. Si potrebbe dire che alla valutazione pontificale, secondo rituali giuridico-sacrali ove testes sono gli dei, di quale sacramentum sia iustum, matura nell’agere post-decemvirale desacramentalizzato una importanza sussidiaria (in assenza di testes umani) del vir bonus quale modello aristocratico di ‘affidabilità’ col quale ponderare le contrapposte affermazioni(aio - nego) delle parti nell’agere in personam; 2. La seconda considerazione è quella relativa al ruolo di tale ponderazione sul piano del giudizio, nel quale essa non deve essere ridotta ad una valutazione meramente probatoria, ma al contrario riconoscere in essa la consustanzialità dell’affermato oportere fondativo della condanna del convenuto, non meno di quanto nell’agere sacramento la dicotomia iustum-iniustum risolveva definitivamente la contesa. In sostanza, il giudice confermava il centum dari oportere aio dell’attore della legis actio qualora, in assenza di testes, l’attore risultasse vir melior del convenuto e quindi dovesse prevalere l’affidabilità della sua affermazione rispetto alla negazione del convenuto. Quando, al contrario attore e convenuto fossero entrambi viri boni (ambo pares essent), il convenuto non sarebbe stato condannato. In buona sostanza, l’oportere esiste perché affermato dal vir bonus (il quale mai avrebbe affermato il falso) co-determinandone con la datio la ragione fondante. Si crea, cioè, un meccanismo di compenetrazione tra esistenza dell’oportere e verba affermati nell’agere dal vir bonus che trova una spiegazione adatta più nell’oportere sganciato dalla sponsio e tutelato dalla condictio che nell’oportere ex sponsione della iudicis postulatio. In sostanza, la fides alla quale la sponsio dà forma giuridico-sacrale producendo l’oportere, espande la sua forza cogente nel rapporto tra ‘creditore’ e ‘debitore’ anche in assenza di una formalizzazione nella sponsio attraverso l’affidabilità delle parti in caso di datio. Ed è chiaro che tale affidabilità è inserita nel contesto di valori etico-sociali di cui la fides è rappresentazione, così da determinare una eccezionale rilevanza del modello eticogiuridico del vir bonus per decidere se nella contesa in corso via sia effettivamente tra le parti oportere. La sponsio processuale (‘ni vir melior esset’) segna, probabilmente, un modello di formulazione intermedio, in quanto inserisce un meccanismo pregiudiziale sul riconoscimento dell’oportere in base alla affidabilità dell’affermazione processuale dell’attore. La valutazione ‘principiale’ indotta dal modello del vir bonus non penetra nella struttura dell’oportere (come nell’ oportere ex fide bona), né definisce in modo più preciso l’area relazionale così regolata, come nell’ut inter bonos bene agier oportet della formula dell’actio fiduciae, ma ne condiziona la tutelabilità, qualcosa in sostanza analogo alla exceptio extra quam si dell’editto asiatico di Quinto Mucio Scevola con la quale l’azionabilità concessa in iure, 4

veniva condizionata in negativo apud iudicem all’accertamento pregiudiziale della correttezza. 4.’Vir bonus’, ‘ bene agier’ e ‘bona fides’ in Quinto Mucio Scevola Vir bonus, bene agier e bona fides, pur avendo nelle fonti letterarie, in particolare filosofiche, ambiti di significato autonomi, vengono collegati in due testi famosi di Cicerone in stretto collegamento col diritto. Infatti quanta importanza in quelle parole “CHE A CAUSA TUA O DELLA FIDUCIA IN TE RIPOSTA IO SIA STATO TRATTO IN INGANNO O DEFRAUDATO ”, quanta in quelle parole d’oro “COSÌ COME È OPPORTUNO CHE SI AGISCA PER BENE TRA UOMINI ONESTI E SENZA FRODE”. Ma chi siano uomini onesti e cosa sia agire per bene è una grande questione. Quinto Mucio Scevola, il pontefice massimo, diceva che vi era una enorme forza nei giudizi nei quali si aggiunge “SECONDO BUONA FEDE”. Egli stimava che il concetto di buona fede si manifesta assai ampiamente e esso si riversa nelle tutele, nelle società, negli atti fiduciari, nei mandati, nelle compravendite, nelle locazioni, nelle quali è contenuta la comunione di vita : in questi giudizi è del grande giudice statuire quanto ciascuna parte deve prestare all’altra. Cicerone, nel terzo libro del De officiis, contrappone alla discussione filosofica di Diogene di Babilonia e di Antipatro di Tarso, l’emersione di una regola giuridica nell’esperienza giudiziaria romana in base alla quale tollendum est igitur ex rebus contrahendis omne mendacium (= i contratti dovrebbero essere del tutto eliminati dalle cose). In questo contesto gli esempi del raggiro di Pythius banchiere siculo ai danni di Canio dell’ordo equester, o dello scaltro Claudio Centomalo ai danni di Calpurnio Lanario, o la causa tra Gratidiano ed Orata, evidenziano una coerente rappresentazione del ‘modello’ etico-giuridico, che Cicerone contrappone a quello strettamente connesso alla discussione filosofica, ma da quest’ultima sostanzialmente ricondotto entro l’ambito del dolo. Si ha quindi un’esaltazione di un ‘modello’ romano, nel quale si consustanziano diritto, etica e società, che dando vita ad un dovere giuridicamente sanzionato, veniva ad arricchire le prospettive filosofiche greche. E probabilmente il quid novi (= cosa c’è di nuovo) del discorso ‘officiale’ di Cicerone è proprio quello di metabolizzare nell’impianto filosofico di origine ellenistica concezioni romane tradizionali. Rispetto a questo contesto, Cicerone ricorda l’importanza di verba di formulae processuali, attraverso i quali avrebbe trovato espressione e assurto a criterio-modello la figura del vir bonus: come la clausola UTI NE PROPTER TE FIDEMVE TUAM CAPTUS FRAUDATUSVE SIM (= che a causa tua o della fiducia in te riposta io sia stato tratto in inganno o defraudato) o i concepta verba dell’actio fiduciae UT INTER BONOS BENE AGIER OPORTET ET SINE FRAUDATIONE (= così come è opportuno che si agisca per bene tra uomini onesti e senza frode).

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La costruzione in prima persona della prima ‘formulazione’ la rende inidonea a rappresentare concepta verba di una formula. Da qui il dibattito sulla sua interpretazione. Otto Lenel li ritiene verba solemnia relativi ad una antica legis actio fiduciae. - Una parte della dottrina ha ritenuto, che la prima formulazione menzionata da Cicerone sia una particolare «Spruchformel», che rappresenterebbe un precursore dei iudicia bonae fidei, in termini di actio non fondata su una legge ( sine lege) ma esclusivamente sull’imperium magistratuale, che non troverebbe una sua modulazione come le formulae scritte recenziori, ma si tipizzerebbe ancora in certa verba da pronunciarsi. - Altri autori la intendono come formulario non attinente al processo, ma ad una nuncupatio (= annuncio) inclusa nel gestum per aes et libram fiduciae causa e successivamente integrata in una legis actio. - Per altri, infine, sarebbe impossibile contestualizzare convincentemente la provenienza. La costruzione sintattica in negativo potrebbe far pensare ad una condizione pregiudiziale della azione. In realtà, però, il suo significato dimostra come la finalità non sia quella di condizionare l’agere, quanto quella di condizionare la condanna. In sostanza,il mancipio dans, non avendo riottenuto la restituzione della Res mancipi secondo quanto stabilito nella nuncupatio fiduciae causa avrebbe agito contro il mancipio accipiens non soltanto sul presupposto che Tu non aveva restituito la res secondo quanto stabilito nel gestum per aes et libram, ma altresì al fine di evitare: UTI NE PROPTER TE FIDEMVE TUAM CAPTUS FRAUDATUSVE SIM. Con tale clausola, quindi, non si determinava una valutazione pregiudiziale per l’azionabilità, ma un ampliamento della valutazione delle condizioni della condanna. Essa sarebbe stata possibile non soltanto quando il mancipio accipiens, ricevuta indietro la somma che aveva prestato al mancipio dans, non restituisse volontariamente il bene mancipato fiduciae causa, ma anche quando tale esito fosse divenuto impossibile per una causa imputabile a condotte dello stesso ( propter te) e all’affidamento in lui riposto ( propter… fidem tuam), risultando così il mancipio dans, captus fraudatusve. Si tratta di un ambito di rilevanza specifica del ‘dolo’ più circoscritta di quella che poi verrà presa in considerazione nei iudicia bonae fidei o emergerà nelle recenziori formulae de dolo,in quanto diretta a creare una situazione rilevante del soggetto leso qualificabile come captus fraudatusve. Va evidenziato come la formulazione arcaica (agier) in prima persona sembra sforzarsi di collocare la rilevanza del momento principiale del rispetto della fides non su un piano pregiudiziale del vincolo, ma affiancando l’ipotesi al contenuto tipico dei comportamenti oggetto dell’obbligazione fiduciaria, quindi su un piano per così dire più sensibile ad un ampliamento dei contenuti dell’obbligazione fiduciaria che ad evidenziare un fondamento diverso della stessa. Tale arricchimento del contenuto dell’obbligazione fiduciaria, però, non assume la veste tipica che poi assumerà nell’intentio dei bonae fidei iudicia (quidquid dare 6

facere oportet ex fide bona), ma sembra appunto costruita come ampliamento della valutazione delle condizioni della condanna, evidenziando condotte del mancipio accipiens che possano essere ricondotte nell’alveo di significati che in età successiva verrà occupato dal ‘dolo’. Non è casuale, a mio avviso, che tale clausola si ritrova in alcuni testi del Digesto per indicare un dolo ‘specifico’ anche nell’ambito della più matura formula dell’actio fiduciae de peculio, dove in realtà il contenuto del rapporto tra le parti (ut interbonos bene agier oportet et sine fraudatione) era in astratto idoneo ad includere condotte scorrette. Il suo necessario inserimento in questo ambito, nella condemnatio, ha una ragione specifica e significativa ai fini del discorso qui fatto. Al riguardo sono fondamentali due testi di Ulpiano tramandati nel Digesto giustinianeo: Nei contratti di buona fede si pone la questione, se il padre o il padrone sia tenuto nei limiti del peculio o per l’intero, come si è vivacemente disputato riguardo all’azione dotale se, qualora la dote sia stata data al figlio, il padre debba essere convenuto solo nei limiti del peculio. Io, invero, ritengo che l’azione spetti non solo nei limiti del peculio, ma anche se, in qualcos’altro, la moglie sia stata ingannata e defraudata per dolo del padre: infatti, se questi abbia i beni e non sia pronto per restituirli, è equo che sia condannato della cosa . Infatti, Pomponio scrisse che quello che è necessario rendere esplicito riguardo al servo, al quale fu data una cosa [in pegno], si deve estendere anche alla disciplina degli altri giudizi di buona fede. Ed invero, se la cosa fu data al servo [...


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