Capitolo 1. La barba di San Francesco PDF

Title Capitolo 1. La barba di San Francesco
Author Daniele DB
Course Storia Dell'Arte Medievale
Institution Università telematica e-Campus
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La pecora di Giotto

a mia nipote, Simona

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

La barba di san Francesco

Come è noto, san Francesco aveva la barba. Ce lo assicura Tommaso da Celano che lo aveva conosciuto di persona1, come ce lo assicura l’iconografìa duecentesca del santo, dall’immagine di Subiaco (fig. 1) a quelle di Margarito d’Arezzo, di Bonaventura Berlinghieri, del Maestro del san Francesco, di Cimabue, ecc. Anche nelle Storie della Basilica Superiore di Assisi il santo porta la barba; ma, scendendo nella Basilica Inferiore, ci imbattiamo in numerose immagini che lo mostrano ben rasato: nel finto trittico della cappella di San Nicola, negli affreschi giotteschi del transetto destro, nelle figurazioni di Pietro Lorenzetti, nell’affresco del Maestro di Figline in sagrestia e addirittura nelle Allegorie delle Vele, proprio sopra l’altare, nel punto più in vista dell’intera chiesa. E subito viene in mente la cappella Bardi in Santa Croce a Firenze (fig. 2), dove perfino sul letto di morte il santo è bellamente sbarbato, come in altre figurazioni giottesche, quali il polittico della cappella Baroncelli nella stessa chiesa, o il Giudizio Finale nella parete di fondo della cappella Scrovegni. Senza la barba è anche il san Francesco affrescato dal Cavallini in Santa Maria in Aracoeli a Roma, o quello del mosaico del Torriti in Santa Maria Maggiore (fig. 4). Più tardi, da Taddeo Gaddi in poi, il santo torna ad assumere la sua legittima barba, che, pur con numerose eccezioni soprattutto quattrocentesche, mantiene fino alle immagini dei nostri giorni. Che significato riveste, nella storia dell’iconografia di san Francesco, questa innovazione che interessa i primi decenni del Trecento? Chi ha pratica di iconografia sa quanto sia tenace la tradizione figurativa di un santo. San Pietro deve essere vecchio

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e canuto, ma con la barba corta; san Paolo, invece, deve essere più giovane, calvo e con la barba nera, ma lunga e appuntita. San Giacomo minore deve avere le fattezze simili a quelle di Gesù Cristo. Le numerose figurazioni quattro-cinquecentesche di san Sebastiano lo volevano giovane e imberbe e nemmeno il peso della Controriforma riuscirà ad imporre un’iconografia più rispondente alle immagini antiche del maturo e barbuto soldato romano, martirizzato sotto Diocleziano2. L’improvvisa innovazione iconografica del san Francesco senza barba appare, allora, come un’alterazione dell’immagine del santo, che ha tutta l’aria di essere intenzionale; tanto più che si trattava di un santo recente, che qualche vecchio poteva perfino ricordare di aver visto di persona. Ma quale intenzione si poteva nascondere dietro questa singolare novità? La moda del tempo esigeva che l’uomo fosse ben rasato e si potrebbe pensare semplicemente che si fosse voluto raffigurare san Francesco secondo la moda corrente. Ma perché, allora, non radere la barba anche ad altri santi? Perché, ad esempio, il Torriti raffigura senza barba proprio san Francesco, mentre la lascia a sant’Antonio da Padova nel mosaico di Santa Maria Maggiore? In realtà, portare la barba in quest’epoca in cui non si usava aveva un suo significato. Quando agli inizi degli anni quaranta del Trecento la barba ritorna di moda fra i giovani, non manca di suscitare il biasimo di burberi censori. Come per dare l’idea di cosa significasse la barba per una generazione di uomini che era vissuta radendosela accuratamente, l’anonimo autore della Vita di Cola di Rienzo si diffonde sul racconto straordinario di un uomo saggio che poteva permettersi di sputare impunemente nella barba di un re. Il cronista romano ci informa che i giovani di allora (cioè del 1340 circa), oltre a vestire in modo del tutto nuovo e inusitato, «portavano varve granne e foite; como bene iannetti e Spagnoli voco seguitare. Donanti a questo tiempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva, e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portato varva, fuora stato auto in sospietto da essere omo de pessima rascione»3. Dunque, chi voleva san Fran-

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cesco senza barba, cioè aggiornato alla moda corrente, voleva anche dargli un significato contrario a quello di «omo de pessima rascione», darne un’immagine più coltivata e dignitosa, meno selvaggia e meccanica, meno da povero Cristo - o da povero diavolo, se si preferisce4. Questa immagine di un san Francesco senza barba è diffusa, come abbiamo visto, tra la Roma papale, la Firenze di Giotto e Assisi: la Roma della curia pontificia, potenza temporale ed economica - oltre che spirituale - minacciata nella sua credibilità dalla diffusione delle idee pauperistiche francescane; la Firenze dei ricchi borghesi razionalisti e spregiudicati, che fondavano sul danaro e sull’iniziativa privata una loro forma di protocapitalismo all’avanguardia in Europa; Assisi, ormai dominata dalla corrente dei conventuali alleati alla curia pontificia dal tempo del generalato di Giovanni da Murro (1296-1304) in poi. È risaputo che il movimento francescano stava allora assumendo proporzioni inusitate, soprattutto per il favore che esso godeva presso le classi meno abbienti; al punto che per la stessa Chiesa rischiava di diventare una minaccia. Infatti, la sua rivalutazione della povertà era in netto contrasto con la realtà della curia papale, centro di affluenza di grandi capitali. L’amministrazione di questi capitali era in mano ai potenti banchieri fiorentini, che avevano abilmente soppiantato i loro rivali senesi5. Le preoccupazioni romane erano anche le loro. Gli interessi economici comuni li univano in questa diffidenza soprattutto verso le frange estremiste dei francescani, gli spirituali, che interpretavano in senso radicale l’aspirazione alla povertà e erano infatti fortemente avversi alla Chiesa di Roma. Sia la curia romana che la ricca borghesia fiorentina avevano interesse ad addomesticare il movimento francescano, ad integrarlo entro le strutture di potere vigenti, a sostenerlo per guidarlo. In questo si appoggiavano alla corrente più moderata dei francescani, i conventuali, che davano della aspirazione francescana alla povertà un’interpretazione assai possibilistica. È in questi ambienti, evidentemente, che si aveva interesse a fornire di san Francesco un’immagine addomesticata, più civile e accettabile, ricondotta all’ordine, integrata entro le strutture

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della società ufficiale; un san Francesco gradito all’establishment, ripulito delle scorie pauperistiche; un san Francesco «perbene», che non assomigliasse ad uomini «de pessima rascione»; insomma, un san Francesco senza barba6. Esso compare infatti per la prima volta nel mosaico di Santa Maria Maggiore (fig. 4), commissionato da Niccolò IV, il primo papa francescano, esponente di primo piano della corrente dei conventuali. Compare nell’affresco del Cavallini sulla tomba del cardinale Matteo d’Acquasparta, il grande sostenitore dei conventuali, citato proprio per questo da Dante7 come contraltare di Ubertino da Casale, capo riconosciuto degli spirituali italiani. All’immagine del san Francesco senza barba fa poi propaganda soprattutto Giotto, i cui legami con l’alta borghesia fiorentina sono stati ripetutamente rilevati. Ad Assisi, il san Francesco senza barba compare più volte nella Basilica Inferiore, in affreschi la cui esecuzione cade certamente dopo il sopravvento dei conventuali, dal tempo di Giovanni da Murro in poi, in coincidenza con l’aprirsi delle ostilità contro gli spirituali, iniziate con la forza da Bonifacio VIII e concluse d’autorità da Giovanni XXII con la bolla del 1323. Il san Francesco senza la barba si pone, perciò, come un’immagine intenzionale, pregna di una forte carica ideologica, in polemica con gli spirituali e simbolo del francescanesimo moderato dei conventuali, gradito alla Chiesa e alla ricca borghesia fiorentina. Questa conclusione potrà anche sembrare capziosa; ma, a riprova di quanto si afferma, si cerchi di immaginare come poteva essere accolta dagli spirituali un’immagine del loro fondatore cui, in omaggio alla moda vigente, si radeva la barba perché non assomigliasse ad «omo de pessima rascione». Niente di più contrario, evidentemente, alla loro concezione radicale, misticheggiante e neomedievale del francescanesimo. E del resto si consideri ciò che accade nella Napoli angioina. Gli Angiò avevano sempre simpatizzato per gli spirituali. Dalla prigionia, i figli di Carlo II avevano scritto a Pietro Olivi, in quel momento il più importante esponente del movimento estremista francescano, le cui opere erano già state condannate. Il primogenito, Ludovico, si fece

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frate francescano, fu in rapporto con personaggi dell’ordine chiaramente spirituali, e la sua vita fu improntata a un ideale di povertà addirittura autolesionistico. Celestino V, salutato con grande giubilo da tutti gli spirituali italiani, fu eletto papa per volontà degli Angiò. Roberto, pur essendo in ottimi rapporti col papa Giovanni XXII, scrisse un trattatello intorno alla povertà di Cristo e degli Apostoli in cui appoggiava le tesi pauperistiche degli spirituali e si rifiutava di pubblicare nel suo regno la bolla papale promulgata nel 1323, circostanza per la quale Giovanni XXII lo rimproverava ancora nel 1331 e nel 13328. Ebbene, a Napoli le immagini di san Francesco, anche quelle di più diretta ispirazione giottesca (come nell’affresco con l’Allegoria della moltiplicazione dei pani in Santa Chiara), sono tutte con la barba. Si pensi che il Cavallini, dopo aver dipinto un san Francesco ben rasato nell’Aracoeli a Roma, una volta arrivato a Napoli lo dipinge con la barba, come nel Giudizio Finale in Santa Maria Donnaregina, dovuto almeno alla sua bottega. E con la barba lo dipinge un suo allievo (forse Lello da Orvieto, come vuole il Bologna)9 nell’affresco in Santa Chiara col Redentore in trono fra sei santi e quattro personaggi angioini. Non meraviglierà, allora, che le uniche immagini di san Francesco con la barba dei primi decenni del Trecento che si vedono nella Basilica Inferiore di Assisi siano quelle dipinte da Simone Martini (fig. 5). Non vi è dubbio infatti che gli Angiò ebbero a che fare con la commissione degli affreschi assisiati al pittore senese10, cui era stato affidato l’incarico di dipingere la grande tavola di san Ludovico di Tolosa in occasione della sua canonizzazione avvenuta nel 1317. I santi che, oltre a san Francesco, santa Chiara e sant’Antonio da Padova, compaiono nel sottarco della cappella di San Martino e che si rivedono in una fascia in basso nel transetto destro della Basilica Inferiore hanno quasi tutti a che fare con Roberto d’Angiò. Ludovico di Tolosa era suo fratello, Luigi IX di Francia era suo bisnonno, Elisabetta d’Ungheria era la zia di sua madre, la Maddalena era particolarmente venerata da suo padre e così doveva essere di santa Caterina, perché in Santa Ma-

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ria Donnaregina a Napoli sono dipinte molte storie della sua vita, insieme a quelle delle altre sante che si sono nominate sopra. Ed è proprio partendo da un’ipotesi di committenza angioina e da un confronto con gli affreschi di Santa Maria Donnaregina che si potranno identificare alcuni dei misteriosi santi dipinti da Simone Martini nel transetto destro. A parte la cosiddetta santa Chiara, che non fu mai tale perché non vestita in abiti monacali e che si dovrebbe identificare semmai con santa Margherita (fig. 6), dato che il recente restauro ne ha rimesso in luce la crocellina tenuta nella mano destra11, si considerino i due misteriosi santi coronati con scettro e globo in mano che compaiono ai lati della Madonna (fig. 7); sarà facile identificarli con santo Stefano d’Ungheria e san Ladislao d’Ungheria, se li confrontiamo con la raffigurazione di questi due santi in Santa Maria Donnaregina12, che recano gli stessi segni iconografici. Si ricorderanno i legami politici degli Angiò con l’Ungheria e i loro interessi sul trono di quel paese, in favore dei quali si era adoperato proprio Gentile Partino da Montefìore, il cardinale francescano amico degli Angiò che aveva voluto dedicare a san Martino la cappella di Assisi dipinta poi da Simone Martini13. L’ingerenza angioina nella commissione assisiate al pittore senese e i rapporti tra gli Angiò e l’Ungheria spiegano anche la presenza del giovane santo con il giglio in mano (fig. 8), che non può essere Luigi di Francia perché non porta la corona in testa, ma che è invece il figlio di santo Stefano d’Ungheria, il principe sant’Enrico, raffigurato raramente, ma perfettamente corrispondente negli attributi iconografici a quello dipinto da Francesco di Michele nel polittico di San Martino a Mensola, datato 139114 (fig. 9). Il san Francesco con barba raffigurato per due volte da Simone Martini nella Basilica Inferiore di Assisi è dunque quello degli Angiò, favorevoli agli spirituali. Una volta appurato il significato che si nasconde dietro l’innovazione iconografica del san Francesco senza barba, rimane da chiedersi quali conclusioni se ne possono trarre in relazione al ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi, in cui il santo compare dotato di una corta ma folta barba. L’immagine più an-

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tica che ci sia rimasta di un san Francesco senza barba è quella del Torriti nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore a Roma (fig. 4), che è del 129615. Nel 1290 lo stesso artista, nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano, eseguito per lo stesso committente, il papa Niccolò IV, aveva posto in opera un san Francesco con la barba16 (fig. 3). Se ne deve dedurre che l’idea di un’immagine di san Francesco senza barba è nata tra il 1290 e il 1296. Ora, se la Basilica di Assisi fu uno dei luoghi più ospitali per l’immagine di san Francesco senza barba e se in ambito giottesco essa trova la sua più larga accoglienza, bisognerà prendere in considerazione la possibilità che le Storie francescane di Assisi siano state dipinte prima del 1296. Lo stesso vale anche per chi considera questi affreschi - come li considerava l’Offner - opera di scuola romana, se è proprio a Roma che troviamo la prima immagine di san Francesco senza barba, nel 1296 appunto. Mi rendo conto che un argomento simile sembrerà labilissimo a chi ha presente il peso della tradizione critica formatasi intorno a questo problema: sarà difficile pensare seriamente che su una base simile si possa proporre una datazione diversa, soprattutto una datazione anticipata rispetto a quelle proposte generalmente. Dovremo, per ora, limitarci a considerare le osservazioni fatte sopra per quello che valgono: non più che una pulce nell’orecchio. Ma se, con questa pulce nell’orecchio, ci mettiamo a riconsiderare senza pregiudizi proprio il problema della datazione e a meditare su alcuni fatti che non erano stati presi in considerazione, allora dovremo riconoscere che questo argomento non era poi così futile e peregrino17.

Moda e cronologia nelle «Storie dì san Francesco» ad Assisi. Guardiamo, ad esempio, le Storie di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi con gli occhi attenti ad un altro aspetto; quello della moda e del costume. Esso ci fornirà dei dati sorprendenti. La storia di san Francesco era una storia moderna e vi comparivano personaggi che non potevano indossare i generici e

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classici abiti delle storie testamentarie. La sua narrazione in figura è stata certamente uno degli stimoli principali in direzione di quel singolare fenomeno che caratterizza l’arte del Tre e Quattrocento, per cui si vestono disinvoltamente i santi in abiti contemporanei e si fanno partecipare a scene sacre, anche le più remote nel tempo, dei personaggi in abiti contemporanei. Mi si permetta di iniziare l’esame degli affreschi di Assisi sotto l’aspetto della moda e del costume con una citazione da una lettera del Petrarca al fratello Gerardo, in cui, con una punta di nostalgia per la gioventù passata, lamenta gli eccessi nell’adeguarsi ai dettami della moda, anche i più scomodi. Ti sovviene egli, o fratello, quanto si fosse la pazza nostra ansietà per la smodata eleganza nel vestire, la quale pur tuttavia, sebbene venuta di giorno in giorno scemando, al tutto non m’abbandona? quali il nostro affaccendarsi in mutar vesti mattina e sera, quali i timori che ci si avesse a scomporre sulla testa un capello, o lieve soffio di vento le chiome laboriosamente acconciate scompigliare? quanta la nostra attenzione a stare in guardia da ogni bestia che per le strade ci venisse di fronte o alle spalle, perché schizzo di fango non lordasse la nitidezza, od urto della persona non alterasse le pieghe delle profumate nostre guarnacche?... E che dirò dei nostri calzari che fatti a difendere i piedi, ad altro non servivano che a dar loro tormento e martorio?... E i ferri da increspare i capelli, e i tormenti delle nostre pettinature?18.

I «ferri da increspare i capelli», o meglio - per rifarsi alla terminologia del Petrarca - i calamistri, sono certamente quelli usati dagli uomini dei primi decenni del Trecento per acconciare i capelli a rullo. Di questa elaborata acconciatura si trovano continue testimonianze figurative: dagli affreschi di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti ad Assisi, a numerose tavole di Bernardo Daddi, agli affreschi del Camposanto di Pisa e della sala della Pace nel Palazzo Pubblico di Siena. I capelli, tenuti assai lunghi, uscivano sulla nuca da sotto la cuffia bianca, e qui venivano rivoltati in su, avvolgendoli intorno ad un ferro (o forse venivano «messi in piega» con un ferro caldo), come dice il Petrarca. Questa acconciatura era già di moda al tempo in cui Giotto dipingeva la cappella dell’Arena a Padova, tra il 1303 e il 130519. Tra i beati del Giudizio Finale (fig. 10), tra i dannati che recano ancora qualche

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traccia di come andavano vestiti in vita, tra gli inservienti delle Nozze di Cana, tra i pretendenti alla mano della Madonna, tra i Magi, tra i servi di Caifa e di Erode, tra i soldati che assistono alla Crocifissione, nelle piccole scene sotto alcune figure allegoriche non mancano casi di acconciature dei capelli come quelle descritte. Anche il donatore, Enrico Scrovegni, al centro del Giudìzio Finale, ne è un esempio; infatti, i suoi capelli non potrebbero terminare con quella piega verso l’alto se non fossero stati trattati almeno con una messa in piega. È evidente che l’uomo coltivato degli inizi del Trecento non voleva in nessun caso lasciarsi cadere i capelli sul collo o sulle spalle e in questo si differenziava assai dagli uomini della seconda metà del Duecento, che lasciavano ricadere sul collo una massa di capelli assai fluente, come si vede poniamo - nelle miniature del Maestro del De Arte venandi cum avibus o nei rilievi dell’arca di San Domenico a Bologna della bottega di Nicola Pisano (fig. 11) o in quelli dello stesso Nicola e del figlio Giovanni nella Fonte Maggiore di Perugia. Tra gli esempi di questa acconciatura più arcaica si può citare anche la tavola della Santa Chiara di Assisi (fig. 13), datata 128320, e - quel che a noi più interessa - proprio gli affreschi con la Le...


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