CAPITOLO 10: IL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO PDF

Title CAPITOLO 10: IL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
Author Sofia Rametta
Course Psicologia sociale
Institution Università degli Studi di Palermo
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RIASSUNTO COMPLETO DEL DECIMO CAPITOLO DEL LIBRO...


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IL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO DEFINIRE IL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO Con il termine aggressività si intende il comportamento di un individuo diretto a provocare un danno, fisico o psicologico, ad altri individui, questa definizione si stringe intorno alla nozione di danno. Infatti se generalmente l’idea di comportamento aggressivo riporta alla mente un ampio ventaglio di comportamenti o stati emotivi, in ambito psicosociale questa definizione implica la presenza della componente di intenzionalità del danno arrecato ad altri. Nella teorizzazione psicologica le accezioni in cui viene intesa l’aggressività sono state molteplici e a volte controverse. 1. Nella prima accezione l’aggressività si configura come parte integrante del nostro bagaglio istintuale e come un comportamento innato dal valore adattivo. 2. Quando l’aggressività viene intesa come un comportamento appreso invece il focus dell’elaborazione teorica si sposta sul ruolo delle istituzioni e dei mezzi di comunicazione di massa capaci di diffondere modelli di comportamento antisociale che possono essere imitati da adulti e bambini. 3. Nell’accezione di aggressività come reazione emotiva invece i fattori interni che mediano non l’aggressività diventano l’oggetto di elaborazione teorica e di indagine empirica, l’accento viene posto sulle situazioni frustranti e sui vissuti emotivi negativi di disagio che scatenano le condotte violente. LE BASI BIOLOGICHE DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO 1. La ricerca generica. In ambito biologico esiste tra gli studiosi un generale accordo nell’affermare che per le diverse specie animali il comportamento aggressivo presenta le caratteristiche di una preprogrammazione genetica, è possibile quindi che i geni predispongano una persona a commettere crimini secondo alcune evidenze di ricerca, anche se gli studi che chiamano in causa i fattori genetici sono tuttora frammentari e i risultati non sempre univoci. Lombroso si sforzò di evidenziare nei criminali particolari anomalie di formazione e un arresto dello sviluppo a stadi meno progrediti; egli distinse due tipi di delinquenti: il delinquente nato per il quale la criminalità è insita nella propria natura, viene considerato un soggetto non recuperabile da sopprimere o rinchiudere, e il delinquente occasionale portato al delitto da fattori causali diversi, è solo su di lui che deve essere svolta l’opera di rieducazione degli istituti carcerari. Lombroso sostiene che i criminali non compiano azioni aggressive per un atto di volontà libero e cosciente ma perché hanno tendenze malvagie originate da un’organizzazione fisica e psichica diversa da quella dell’uomo normale. Egli cercò le prove di questa teoria attraverso un esame dettagliato di criminali famosi di cui rilevò sia la struttura fisica attraverso la misurazione dei crani sia le caratteristiche psicologiche: l’idea era quella di dimostrare scientificamente che l’uomo delinquente possedeva tratti subumani che lo differenziavano dal resto della popolazione. Negli anni ‘60 il rapido sviluppo delle conoscenze sul codice genetico diede un nuovo impulso ai modelli biologici dell’aggressività, alcuni studi si concentrarono sull’anomalia dei cromosomi sessuali che sono il risultato di un imperfetto sdoppiamento del corredo cromosomico durante la meiosi delle cellule sessuali e portano a una trisomia che può assumere varie forme. A differenza della trisomia 21 le anomalie dei cromosomi sessuali non danno luogo a manifestazioni fisiche eclatanti: i maschi che ricevono un cromosoma X dalla madre e due cromosomi Y dal padre presentano caratteri sessuali secondari marcati e problemi di tipo cognitivo. Quando Jacobs per prima descrisse questa sindrome ipotizzò che gli individui affetti da anomalia cromosomica 47 XYY potessero avere maggiori tendenze aggressive e avessero quindi nell’età adulta maggiori probabilità di avere problemi con la legge. A partire dagli anni ‘70 alcune ricerche più accurate mostrarono che di fatto il 96% degli individui affetti dalla Sindrome di Jacobson non aveva alcun problema con la legge, inoltre distinguendo all’interno della popolazione carceraria due sottopopolazioni in base al tipo di condanna ricevuta - crimini violenti e crimini non violenti - si notò che la proporzione di individui affetti dalla Sindrome di Jacobson era diversa nelle due sottopopolazioni. In sostanza la maggiore incidenza della trisomia 47 XYY nella popolazione carceraria può essere spiegata dalle difficoltà di apprendimento di questi individui che costituisce uno dei fattori di rischio psicosociale per la manifestazione di comportamenti devianti. Le ricerche condotte su gemelli e su bambini adottati hanno ulteriormente chiarito il peso delle componenti genetiche nella determinazione di condotte aggressive dal momento che con queste tipologie di soggetti è più facile distinguere tra l’influenza esercitata dei geni e quella esercitata dall’ambiente. I risultati tuttavia non sono sempre stati chiari e coerenti dal momento che ricercatori spesso hanno trattato insieme reati violenti e non violenti. Mednick, Brennan e Kandel hanno messo a confronto l’aggressività dei genitori naturali con quella dei loro figli naturali che erano stati adottati da altre famiglie. Gli autori studiarono numerose adozione in Danimarca e trovarono una forte relazione tra reati per crimini contro la proprietà compiuti da genitori biologici e reati con le stesse caratteristiche compiuti da loro figli cresciuti in una famiglia diversa, ma non trovarono alcuna relazione tra reati con caratteristiche violente di genitori biologici e reati con le stesse caratteristiche nei loro figli. Cloninger e Gottesman hanno analizzato violazioni della legge compiute da coppie di gemelli differenziando reati contro la proprietà e reati contro la persona. L’ereditarietà per i due tipi di reati era differente ma consistente in

entrambi i casi, l’influenza dell’ambiente era chiaramente più alta per i reati violenti ma sia l’ereditarietà che l’ambiente erano fondamentali per entrambi. Loehlin, Willerman e Horn suggeriscono che il grosso della delinquenza giovanile derivi da fattori ambientali, ma un substrato di delinquenza giovanile che si sviluppa fino a diventare criminalità adulta può avere a che fare una qualche forma di responsabilità genetica. È possibile per esempio che deficit cognitivi ereditari si configurino come un fattore di rischio specifico per i problemi di aggressività. Gli autori hanno infatti riscontrato che i bambini della scuola primaria con diagnosi di disturbo da deficit dell’attenzione sono ad alto rischio di delinquenza giovanile, abuso di droga e disordini della condotta. Allo stesso modo Huesmann, Eron e Yarmel riferiscono che in un ampio campione di bambini i bassi punteggi di QI erano in relazione ai comportamenti aggressivi messi in seguito nel corso della vita. 2. Le strutture anatomiche. Alcuni studi hanno permesso di acquisire nuove cognizioni sulle relazioni tra il comportamento aggressivo e le strutture neuroanatomiche, i sistemi neuronali coinvolti sono localizzati soprattutto nel sistema limbico e nel tronco dell’encefalo. In altri studi l’amigdalectomia effettuata sulle scimmie ha portato a un calo della risposta a stimoli ostili e diverse ricerche hanno messo in evidenza una riduzione di risposte di ansia e di paura. In altri casi la presenza di lesioni nei nuclei amigdaloidei era associata a comportamenti violenti negli uomini. In altri studi ancora è stato rilevato che nei confronti delle scimmie sottoposte ad amigdalectomia i conspecifici mostravano una diminuzione dell’interazione sociale e un amento dell’aggressività. Vi è tuttavia un problema di interpretazione di questi dati dal momento che i primi studi sull’argomento hanno sempre analizzato separatamente il comportamento gli animali operati nei confronti di quelli sani o quello di animali sani nei confronti di quelli operati. Un chiarimento a questo proposito ci viene dato da una ricerca che analizza del comportamento delle scimmie Rhesus sottoposte ad amigdalectomia e allo stesso tempo la reazione comportamentale che i conspecifici mostravano nei confronti delle scimmie sperimentali. Le scimmie sottoposte alle lesioni dell’amigdala mostravano rispetto a quelle di controllo un aumento di comportamenti sociali positivi, una diminuzione di ansia e un aumento di sicurezza durante l’incontro con altre scimmie. I conspecifici mostravano a loro volta un aumento di comportamenti positivi e una diminuzione di comportamenti di evitamento nei confronti delle scimmie sperimentali. Nathan e colleghi interpretano questi risultati ritenendo che il comportamento più mite e disponibile da parte delle scimmie sperimentali possa aver indotto un aumento dell’interazione sociale da parte degli animali non operati della stessa specie. 3. Gli studi sugli ormoni e sui neurotrasmettitori. Ricerche sull’influenza del sistema neuroendocrino hanno individuato nel testosterone un importante modulatore dei comportamenti aggressivi che spiegherebbe anche la maggiore aggressività dell’uomo rispetto alla donna. Diversi studi hanno mostrato che alti livelli di testosterone sono in relazione con una maggiore aggressività e tendenze antisociali in entrambi i sessi. Olweus ha misurato il livello di testosterone in un gruppo di ragazzi di età compresa tra i 15 e i 17 anni, i risultati ha messo in evidenza che alti livelli di testosterone sono collegati direttamente a comportamenti aggressivi causati da una provocazione e indirettamente a comportamenti aggressivi non causati da una provocazione. Altre ricerche hanno rilevato la quantità di testosterone presente nel plasma in gruppi di prigionieri ritenuti aggressivi e prigionieri non aggressivi, i risultati dimostrano che nei prigionieri violenti sono presenti tassi di testosterone più elevati di quelli riscontrati in prigionieri non violenti.

. Quindi sembra accertata l’esistenza di una relazione positiva tra qualità di testosterone e comportamento aggressivo, anche se non si ha ben chiara la direzione di questa relazione: ovvero se è l’anormale quantità di testosterone che porta a condotte aggressive o se è l’aggressività che dà luogo a un aumento del tasso di testosterone nel sangue come risposta all’eventuale comportamento di attacco. Invece l’estradiolo è stato ritenuto responsabile della maggiore mitezza del sesso femminile. Infine ricerche condotte sugli animali hanno messo in evidenza come l’aggressività venga favorita da alcuni neurotrasmettitori quali l’acetilcolina, la dopamina e la noradrenalina. Tra i neurotrasmettitori la serotonina svolge invece un’azione inibente sul comportamento aggressivo, è stato infatti riscontrato che la presenza di una ipofunzionalità della serotonina è alla base delle alterazioni del tono dell’umore e del controllo degli impulsi e dell’aggressività sia in direzione autolesiva sia eterolesiva. MODELLI INTERPRETARIVI DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO: L’AGGRESSIVITÀ COME ISTINTO Sia la prospettiva psicoanalitica che quella etologica attribuiscono all’uomo un istinto di aggressività innato che lo induce ad assalire a distruggere altri esseri umani. Nella psicanalisi freudiana vi sono due accezioni diverse di aggressività. In un primo momento Freud individua nell’aggressività una reazione alla frustrazione sperimentata da una persona durante la ricerca del piacere, il controllo dell’impulso alla soddisfazione immediata del piacere genera uno stato di frustrazione. L’aggressività in quest’ottica rappresenta una strategia comportamentale per allentare lo stato di tensione generato dal mancato soddisfacimento immediato di un bisogno. In una fase successiva l’aggressività viene definita come una pulsione di morte, Thanatos, antagonista dell’istinto di vita, Eros, presente in ogni organismo e il cui obiettivo innato è quello di tornare allo stato inorganico. Secondo Freud il comportamento

aggressivo allora ha la funzione di portare all’esterno l’energia distruttiva e di ridurre lo stato di tensione pulsionale, quindi l’aggressività è una caratteristica connaturata dell’esistenza umana. Anche gli etologi fanno ricorso al concetto di istinto per spiegare l’aggressività ma in quest’ottica il comportamento aggressivo ha una funzione adattiva al servizio della specie, questa prospettiva è stata delineata inizialmente da Lorenz la cui analisi rimanda l’idea di Rousseau della bestia dentro di noi. La tesi di Lorenz è che l’aggressività osservabile nella condotta degli animali è un istinto primario ereditariamente trasmissibile il cui compito è quello di far progredire l’evoluzione della specie e deve pertanto essere considerata nella sua funzione adattiva. Gli esemplari più aggressivi di una specie in questo modello hanno una maggiore probabilità di affrontare con successo la sfida della sopravvivenza riuscendo a riprodursi e a trasmettere le proprie caratteristiche alla generazione successiva. L’aggressività inoltre ha la funzione di difesa del territorio evitando lo sfruttamento eccessivo dello spazio vitale. Infine negli animali che vivono in branco il comportamento aggressivo assicura il mantenimento di una struttura gerarchica che è fondamentale per l’adattamento della specie al proprio ambiente di vita. Sebbene Lorenz rivolga le sue osservazioni esclusivamente al mondo animale l’interpretazione del comportamento aggressivo dell’uomo ha alla base la stessa nozione di istinto primario, con la differenza che gli negli animali il conflitto all’interno della specie è raramente letale poiché i predatori della specie animale hanno imparato a servirsi delle loro potenti armi naturali contro i membri della stessa specie, proprio per evitare una possibile estinzione. A volte infatti un animale riceve da un altro animale con cui è in combattimento un segnale che basta ad arrestare la sua ferocia combattiva; sfortunatamente secondo Lorenz nessuna pressione selettiva si è formata nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici, fin quando non me ne inventate le armi artificiali. A questo proposito Eibl-Eibesfeldt propone una differenziazione tra aggressività in generale, che è una manifestazione biologica, e la guerra che invece rappresenta un fenomeno dell’evoluzione culturale. L’aggressività è quindi innata ed essenziale per la sopravvivenza e per l’adattamento delle specie in un ambiente in continua modificazione. La guerra trae alimento dalla protezione del territorio e dalla conquista dei beni necessari per la sopravvivenza. In questi modelli l’uomo appare vittima di istinti aggressivi che non possono essere controllati o che sono difficili controllare e capace di sfruttare la tecnologia per produrre armi di distruzione di massa. La posizione attuale degli etologi però è molto più critica rispetto a quella finora descritta, Lore e Schulz propongono oggi un’interpretazione secondo cui tutti gli organismi hanno sviluppato forti meccanismi inibitori che permettono loro di sopprimere l’aggressività nel momento in cui esiste un vantaggio nel farlo. Ne consegue che l’aggressività viene considerata una delle strategie opzionali che un organismo ha disposizione, se questa opzione viene percorsa o meno dipende soprattutto dalle precedenti esperienze sociali dell’individuo e dalle norme che regolano il contesto sociale in cui vive. MODELLI INTERPRETARIVI DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO: L’AGGRESSIVITÀ MEDIATA DA FATTORI INTERNI Alcune ipotesi teoriche non ritengono che i comportamenti violenti dell’uomo siano connaturati al suo organismo ma che costituiscano una risposta strategica dell’individuo alle condizioni stimolo in cui si trova ad operare, in questo modo ci si concentra sulle variabili che controllano l’innesco, il mantenimento e il rafforzamento delle condotte aggressive. Alcuni autori hanno sottolineato l’importanza degli antecedenti della risposta aggressiva individuandoli in fattori interni all’individuo quali la frustrazione, l’eccitazione o i vissuti connotati negativamente; altri invece hanno posto l’accento sull’importanza dei modelli sociali nei processi di acquisizione del comportamento aggressivo. 1. La teoria della frustrazione-aggressività. Secondo questa teoria la frustrazione, ovvero la condizione psicologica di chi ha riscontrato l’impossibilità di conseguire un obiettivo, genera sempre un’istigazione ad aggredire, l’aggressività deriva solo dalla frustrazione. Questa teoria risente dell’ipotesi iniziale di Freud che riteneva l’aggressività come l’espressione di una reazione alla frustrazione sperimentata durante la ricerca dell’appagamento della libido, per questo motivo questo modello è anche conosciuto come Ipotesi Freud-Yale. A differenza delle formulazioni freudiane però in questa proposta teorica la pulsione indotta dalla frustrazione non è un istinto innato. Il peso di questo modello esplicativo si è andato ridimensionando nel corso degli anni ma mano che si accumulavano dati che dimostravano come la frustrazione possa produrre risultati diversi dalla condotta aggressiva. Ad esempio Seligman ha descritto la sindrome da impotenza appresa secondo cui un individuo che sperimenta ripetute esperienze di frustrazione reagisce perdendo qualsiasi volontà di opporsi e cadendo in uno stato letargico. Quando l’individuo sperimenta una frustrazione attribuisce un significato al mancato raggiungimento di quello che era l’obiettivo prefissato, alla rinuncia a perseguire il proprio scopo o all’origine del proprio stato di frustrazione, è logico quindi aspettarsi che le ripercussioni emotive possono essere diverse a seconda del significato che il soggetto attribuito all’evento frustrante,: se la frustrazione è considerata non arbitraria o non intenzionale e dunque comprensibile non scatteranno reazioni aggressive. È stato verificato inoltre quanto sia importante che i soggetti frustrati abbiano avuto precedentemente un’aspettativa elevata di poter raggiungere l’obiettivo. A questo proposito Dengerink e Myers riscontrarono che un campione di studenti che aveva precedentemente fallito in un compito reagiva con meno l’aggressività dopo un ulteriore fallimento in un compito simile rispetto ad altri studenti che alla prima prova avevano ottenuto un successo: il secondo gruppo sulla base dell’esperienza pregressa si aspettava di riuscire a superare nuovamente la prova mentre il primo gruppo dopo il primo fallimento nutriva una minor fiducia di affrontare con successo il secondo compito. Differenze nell’aspettativa quindi sono in grado di modulare l’entità della frustrazione il livello di aggressività. In un

2.

esperimento di Kulik e Brown il compito dei partecipanti era quello di domandare telefonicamente a degli sconosciuti offerte in denaro, i soggetti erano informati che sarebbero stati gratificati da una percentuale della somma raccolta. A metà di loro venne detto di attendersi una media di offerta elevata mentre all’altra metà venne detto che in media contributi a questo genere di iniziative erano piuttosto bassi. L’esperimento era costruito in modo che ai numeri telefonici chiamati rispondessero i collaboratori dello sperimentatore che rifiutavano sempre la donazione. Successivamente veniva rilevata l’aggressività verbale dei soggetti nei confronti delle persone chiamate e i risultati mostrarono chiaramente come coloro che avevano aspettative alte indirizzassero maggiore aggressività verbale a chi non faceva offerte rispetto a coloro che avevano sviluppato attese minori. Non sempre comunque l’aggressività viene indirizzata verso il responsabile della frustrazione, se la fonte di frustrazione è in qualche modo minacciosa l’aggressività verrà frenata oppure si assisterà ad un orientamento delle condotte aggressive verso soggetti più deboli. I risultati di queste ricerche hanno quindi messo in luce la capacità della frustrazione di innescare manifestazioni di violenza ma allo stesso tempo hanno permesso di rilevare che i nessi tra frustrazione e aggressione variano a seconda della legittimità della frustrazione, della presenza di target appropriati, della possibilità di ricorrere ad altre reazioni e dal significato attribuito all’evento frustrante. Il modello cognitivo-neoassociazionista. La teoria della frustrazione-aggressività ha messo in evidenza che la frustrazione non costituisce l’unica possibile causa di aggressività e che anche in presenza di frustrazione lo scatenarsi di comportamenti aggressivi non ...


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