CASO MORO - Riassunti caso Aldo moro - La ricerca del pensiero PDF

Title CASO MORO - Riassunti caso Aldo moro - La ricerca del pensiero
Course Filosofia 5 anno
Institution Liceo (Italia)
Pages 17
File Size 514.5 KB
File Type PDF
Total Downloads 8
Total Views 157

Summary

Riassunti caso Aldo moro...


Description

IL CASO “MORO”

PREMESSE STORICHE (in breve) GUERRA FREDDA : Al termine della Seconda guerra mondiale l ‘Europa, e più in generale l’intero pianeta, furono divisi in due sfere d’influenza che avevano come punto di riferimento gli USA da un lato e l’URSS dall’altro. Questi due stati rappresentavano due modelli ideologici, politici economicosociali totalmente opposti e contrapposti: gli Usa rappresentavano il modello liberal-capitalistico (libertà individuale, democrazia, pluripartitismo, economia di mercato), l’URSS rappresentava il modello comunista (primato dello stato sull’individuo e assenza di libertà individuale, monopartitismo, stato unico proprietario dei mezzi di produzione ed economia pianificata). Questi due blocchi si contrapponevano attraverso una conflittualità latente e talvolta esplicita combattendosi in ogni modo (azioni diplomatiche, propaganda ideologica, servizi segreti, corsa agli armamenti,guerre locali, ecc.)

L’ITALIA NEL DOPOGUERRA : venne inserita nella sfera d’influenza degli USA e quindi adottò un modello liberal-capitalistico . Tuttavia al suo interno, a livello politico, era presente una netta contrapposizione tra i partiti nati dopo la fine del fascismo e con la nascita della Repubblica Italiana, contrapposizione che in qualche modo ricalcava gli schieramenti ideologici presenti a livello mondiale: da un lato la Democrazia cristiana (partito di maggioranza relativa) o DC, il partito repubblicano o PRI, il partito socialdemocratico o PSDI, il partito liberale o PLI [area liberal-capitalistica – area politica di “centro]”; dall’altro il Partito comunista o PCI e il Partito socialista o PSI [area social comunista - area politica di “sinistra”]; più altri partiti minori a sinistra (Democrazia proletaria e Partito radicale) o a destra (Movimento Sociale Italiano, erede della tradizione fascista) di tali schieramenti.

La DC fu, dal 1948 fino all’inizio degli anni ’90, il partito di maggioranza relativa nel paese e nel Parlamento e quindi il centro di ogni coalizione politica che governasse il paese. Tra i maggiori leader della DC, dopo la morte di A. De Gasperi , troviamo Giulio Andreotti, Aldo Moro, Francesco Cossiga, Arnoldo Forlani, Amintore Fanfani, Benigno Zaccagnini, ecc. Tra i maggiori leader del PSDI troviamo Giuseppe Saragat Tra i maggiori leader del PRI Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini Tra i maggiori leader del PLI Giovanni Malagodi Tra i maggiori leader del PCI, dopo la morte di Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer , Luigi Longo, Giancarlo Pajetta Tra i maggiori leader del PSI troviamo Pietro Nenni, Sandro Pertini e (da ultimo) Bettino Craxi. La DC non costituiva un blocco unitario, ma era divisa al suo interno in diversi correnti, alcune più vicini all’area liberale e conservatrice (talvolta anche alla Destra di ispirazione neofascista), altre più vicine all’area progressista e favorevole ad accordi con i partiti di sinistra (PSI e PCI). Dal 1948 al 1962 la DC ha governato alleandosi con i partiti moderati (PRI, PSDI, PLI) in coalizioni di “centro”. IL CENTRO SINISTRA: a partire dal 1962, per effetto dei cambiamenti economico-sociali (boom economico in Italia) e politici (invasione russa dell’Ungheria) si verificò un parziale mutamento nelle alleanze politico-partitiche, cioè il PSI si avvicino e quindi alleò con la DC dando vita ai cosiddetti governi di centro-sinistra

IL MOVIMENTO DEL 1968 : il 1968 fu in diversi paesi europei, negli USA e anche in Italia,l’anno della contestazione giovanile, delle proteste studentesche e operaie, proteste caratterizzate dal rifiuto del modello di società occidentale, cioè capitalistica e consumistica e da un ideale di vita e di società alternativo. In questo contesto nacquero molti gruppi politici extraparlamentari ideologicamente vicini al pensiero marxista più radicale (rivoluzione sociale).

GLI ANNI DEL TERRORISMO: Negli anni successivi a fianco di questi gruppi, e in parte come loro evoluzione, si fecero strada altre organizzazioni che vedevano nella lotta armata allo Stato il primo passo di uno scontro più generalizzato contro un sistema dominato dalle multinazionali e dall’imperialismo degli USA. Fra questi gruppi quello più importante fu quello delle “BRIGATE ROSSE”. Negli anni ’70 essi si resero protagonisti di una serie ininterrotta di attentati che avevano come obiettivo quello di colpire rappresentanti dello stato e del “sistema” politico-economico capitalistico italiano. Fu il cosiddetto “terrorismo rosso” ( che andava ad affiancarsi al “terrorismo nero”, di matrice fascista, il quale si manifestava invece attraverso atti stragisti posti in atto in maniere indiscriminata) avente come obiettivo quello di innescare una rivoluzione sociale cercando di sfruttare il malcontento della popolazione italiana nei confronti della classe politica tradizionale. Il culmine di questi atti terroristici fu il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro, uno dei leader più importanti della DC e favorevole ad un accordo (che superasse almeno in parte la quarantennale contrapposizione presente nel sistema politico italiano) tra la stessa DC e il PCI nell’ottica di un governo di “unità nazionale”. In effetti proprio nel 1978 DC e PCI avevano trovato un intesa per dar vita ad un nuovo governo guidato dalla DC , ma (per la prima volta nella storia) con l’appoggio esterno del PCI.

IL CASO “MORO” DEFINIZIONE Per caso Moro si intende l'insieme delle vicende relative all'agguato, al sequestro, alla prigionia e all'uccisione di Aldo Moro, nonché alle ipotesi sull'intera vicenda e alle ricostruzioni degli eventi, spesso discordanti fra loro. La mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo Governo guidato da Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia, l'auto che trasportava Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati, fu intercettata e bloccata in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate Rosse. In pochi secondi, sparando con armi automatiche, i brigatisti rossi uccisero i due carabinieri a bordo dell'auto di Moro ( Oreste Leonardi e Domenico Ricci), i tre poliziotti che viaggiavano sull'auto di scorta (Raffaele Iozzino, Giulio

Rivera e Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana. Dopo una prigionia di 55 giorni, durante la quale Moro fu sottoposto a un processo politico da parte del cosiddetto «tribunale del popolo» istituito dalle stesse Brigate Rosse e dopo che queste ultime avevano chiesto invano uno scambio di prigionieri con lo Stato italiano, Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu ritrovato a Roma il 9 maggio, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, distante circa 150 metri sia dalla sede nazionale del Partito Comunista Italiano che da Piazza del Gesù, sede nazionale della Democrazia Cristiana

IL SEQUESTRO E L’UCCISIONE DELLA SCORTA Secondo quanto emerso dalle indagini giudiziarie, alla messa in atto del piano parteciparono 11 persone, ma il numero e l'identità dei reali partecipanti è stato messo più volte in dubbio e anche le confessioni dei brigatisti sono state contraddittorie su alcuni punti. [3] Alle 8:45 i quattro componenti del nucleo armato brigatista incaricati di sparare, con indosso false uniformi del personale Alitalia[4] si disposero all'incrocio tra via Mario Fani e via Stresa, nascosti dietro le siepi del bar Olivetti, chiuso per lavori e situato dal lato opposto rispetto allo stop dell'incrocio stesso. Mario Moretti, componente del comitato esecutivo delle Brigate Rosse e principale dirigente della colonna romana, al volante di una Fiat 128 con targa falsa del Corpo diplomatico si appostò nella parte alta della strada, sul lato destro, all'altezza di via Sangemini. Davanti a Moretti si posizionò un'altra Fiat 128 con a bordo Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Entrambe le auto erano rivolte in direzione dell'incrocio con via Stresa. A questo punto entrò in azione il gruppo di fuoco: i quattro uomini vestiti da avieri civili ed armati di pistole mitragliatrici sbucarono da dietro le siepi del bar Olivetti. Dalle indagini giudiziarie i quattro vennero identificati in: Valerio Morucci, esponente molto noto dell'estremismo romano ritenuto un esperto di armi, Raffaele Fiore, proveniente dalla colonna brigatista di Torino, Prospero Gallinari, clandestino e ricercato dopo essere evaso nel 1977 dal carcere di Treviso, e Franco Bonisoli, proveniente dalla colonna di Milano. Tutti e quattro erano militanti fortemente determinati e già provati in precedenti azioni di fuoco.[5]

I quattro brigatisti che, travestiti da assistenti di volo, spararono sulla scorta: Valerio Morucci «Matteo», Raffaele Fiore «Marcello», Prospero Gallinari «Giuseppe» e Franco Bonisoli «Luigi». I quattro si portarono molto vicini alle due auto bloccate allo stop; Morucci e Fiore aprirono il fuoco contro la Fiat 130 con Moro a bordo, Gallinari e Bonisoli contro l'Alfetta di scorta. Secondo le ricostruzioni dei brigatisti, tutti e quattro i mitra si sarebbero in seguito inceppati: Morucci riuscì a eliminare subito il maresciallo Leonardi ma poi si trovò in difficoltà con il suo mitra, l'arma di Fiore invece si sarebbe inceppata subito, il che lasciò il tempo all'appuntato Ricci di tentare varie disperate manovre per svincolare l'auto dalla trappola; una Mini Minor parcheggiata sul lato destro intralciò ulteriormente ogni movimento. In pochi secondi Morucci risolse la situazione tornando vicino alla Fiat 130 e uccidendo con una raffica anche l'autista. [6] Contemporaneamente Gallinari e Bonisoli sparavano contro gli uomini della scorta sull'Alfetta: Rivera e Zizzi furono subito colpiti mentre Iozzino, relativamente riparato sul sedile posteriore destro e favorito dall'inceppamento dei mitra dei brigatisti, poté uscire dall'auto e rispondere al fuoco con la sua pistola Beretta 92, ma subito dopo Gallinari e Bonisoli estrassero entrambi le loro pistole e uccisero anche lui. [7] Dei cinque uomini della scorta, Francesco Zizzi fu l'unico a non morire sul colpo: estratto vivo dall'Alfetta ai primi soccorsi, si spegnerà poche ore dopo al Policlinico Gemelli. Secondo la prima perizia del 1978 sarebbero stati sparati in tutto 91 colpi, 45 dei quali avrebbero colpito gli uomini della scorta. Subito dopo lo scontro a fuoco, Raffaele Fiore estrasse Aldo Moro dalla Fiat 130 e con l'aiuto di Mario Moretti lo fece entrare nella Fiat 132 blu che Bruno Seghetti nel frattempo aveva avvicinato in retromarcia all'incrocio; quindi l'auto con a bordo i tre brigatisti e Moro presero la via della fuga.

GLI OBIETTIVI DELLE BR Due giorni dopo, mentre in San Lorenzo al Verano si celebravano i funerali degli uomini della scorta, venne fatto ritrovare il primo dei nove comunicati che le BR inviarono durante i 55 giorni del sequestro[2]:

«Giovedì 16 marzo, un nucleo armato delle Brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati corpi speciali, è stata completamente annientata. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese – dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta alla svolta del centrosinistra fino ai giorni nostri con l'accordo a sei – ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste.» (Brigate Rosse, primo comunicato.)

Mario Moretti, componente del Comitato Esecutivo delle Brigate Rosse e principale dirigente della colonna romana durante il sequestro. Lo scopo dichiarato delle BR era generale e rientrava nella loro analisi di quella fase storica: colpire la DC («regime democristiano»), cardine in Italia dello Stato imperialista delle multinazionali. Quanto al PCI, esso rappresentava non tanto il nemico da attaccare quanto un concorrente da battere[17]. Nell'ottica brigatista, infatti, il successo della loro azione avrebbe interrotto «la lunga marcia comunista verso le istituzioni», per affermare la prospettiva dello scontro rivoluzionario e porre le basi del controllo BR della sinistra italiana per una lotta contro il capitalismo Stando a una dichiarazione di Mario Moretti rilasciata nel 1990[2], sembra che le Brigate Rosse volessero invece colpire l'artefice principale della solidarietà nazionale e dell'avvicinamento tra DC e PCI, la cui espressione sarebbe stata il governo Andreotti IV. Stando sempre a quanto dichiarato da Mario Moretti, per le BR era rilevante sia il fatto che Moro fosse presidente della DC e che fosse da trent'anni al governo[19], sia l'urgenza di una alternativa al governo della solidarietà nazionale

LA PRIGIONIA Durante i processi che seguirono la cattura dei brigatisti, risultò dalle loro testimonianze che la «prigione del popolo» in cui si trovava Aldo Moro fosse situata in un appartamento di via Camillo Montalcini 8, sempre a Roma, acquistata nel 1977 con i soldi provenienti dal sequestro di Pietro Costa, dalla brigatista Anna Laura Braghetti. Durante il sequestro, nell'appartamento vissero con l'ostaggio la Braghetti, l'insospettabile proprietaria, il suo apparente fidanzato, l'«ingegnere Luigi Altobelli» che era in realtà il brigatista Germano Maccari, esperto militante romano amico di Morucci, e Prospero Gallinari, brigatista clandestino che, essendo già ricercato, rimase per tutti i giorni del rapimento chiuso dentro l'appartamento e funse da carceriere di Moro. Mario Moretti, che viveva in prevalenza in via Gradoli insieme a Barbara Balzerani, si recava quasi tutti i giorni in via Montalcini per interrogare l'ostaggio ed elaborare, in collegamento con gli altri membri del comitato esecutivo, la gestione politica del sequestro. Lo stesso covo pochi mesi dopo venne scoperto e tenuto sotto controllo dall'UCIGOS, cosa che costrinse i brigatisti, che si erano resi conto di essere pedinati, a vendere e smantellare l'appartamento entro i primi di ottobre [20][

LETTERE DALLA PRIGIONIA «Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costituire.» (Lettera a Benigno Zaccagnini recapitata il 4 aprile.) «Il papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo.» Durante il periodo della sua detenzione, Moro scrisse 86 lettere ai principali esponenti della Democrazia Cristiana, alla famiglia, ai principali quotidiani e all'allora Papa Paolo VI (che avrebbe poi presenziato alla solenne messa

funebre di Stato nella basilica di San Giovanni in Laterano, peraltro celebrata senza il feretro del cadavere, negato dalla famiglia in polemica con la conduzione della vicenda). Alcune arrivarono a destinazione, altre non furono mai recapitate e vennero ritrovate in seguito nel covo di via Monte Nevoso. Attraverso le lettere Moro cerca di aprire una trattativa con i colleghi di partito e con le massime cariche dello Stato.

È stato ipotizzato che in queste lettere Moro abbia inviato messaggi criptici alla sua famiglia e ai suoi colleghi di partito. Secondo lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, nelle lettere medesime Moro aveva l'intenzione di inviare agli investigatori messaggi sulla localizzazione del covo, per segnalare che esso (almeno nei primi giorni del sequestro) si trovasse nella città di Roma: «Io sono qui in discreta salute» (lettera di Aldo Moro del 27 marzo 1978, non recapitata a sua moglie Eleonora Moro). La stessa moglie, sentita come testimone durante il processo, disse che in alcuni passaggi Moro faceva capire di trovarsi nella capitale[2].

Nella lettera recapitata l'8 aprile scaglia un vero e proprio anatema: «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro». La lettera scritta a Zaccagnini era indirettamente rivolta al PCI, in quanto c'era anche scritto: «I comunisti non dovevano dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che mi ero tanto adoperato a costruire» [16]. Nella lettera senza destinatario recapitata tra il 9 e il 10 aprile, domanda: «Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca?» (lettera di Aldo Moro su Paolo Emilio Taviani allegata al comunicato delle Brigate Rosse n. 5);

Pochi mesi dopo l'uccisione dell'ostaggio copie di alcune lettere non ancora note furono trovate dagli uomini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (ucciso dalla mafia nel 1982) in una casa che i terroristi utilizzavano a Milano (nota come «covo di via Monte Nevoso») mentre altre furono trovate nello stesso appartamento nel 1990, durante i lavori di ristrutturazione dell'abitazione. Buona parte del mondo politico di allora riteneva, tuttavia, che Moro non avesse piena libertà di scrittura: le lettere sarebbero state da considerarsi, se non dettate, quantomeno controllate o ispirate dai brigatisti. Anche alcuni appartenenti al «comitato degli esperti» voluto da Cossiga, tra cui il criminologo Franco Ferracuti, in un primo tempo affermarono che Moro era stato sottoposto a tecniche di lavaggio del cervello da parte delle BR[25][26]. Certe affermazioni di Moro, per esempio i passaggi in cui parla di scambi di «prigionieri», al plurale, fanno supporre che le Brigate Rosse gli avessero lasciato intendere di non essere l'unica persona sequestrata. È possibile che l'ostaggio ritenesse che anche alcuni uomini della sua scorta o forse altre personalità rapite altrove, fossero nelle sue medesime condizioni e che quindi gli eventuali tentativi di accordo per la liberazione che cercava di portare avanti dovessero riguardare tutti gli ipotetici sequestrati[27]. Cossiga ammetterà tuttavia, anni dopo, di essere stato lui a scrivere parte del discorso tenuto da Giulio Andreotti in cui si affermava che le lettere di Moro erano da considerarsi «non moralmente autentiche»[28]. Giovanni Spadolini cercò di giustificare il tono e il contenuto delle lettere, sostenendo che erano state scritte sotto imposizione[29], ma dalle inchieste e dalle testimonianze è emerso che Moro non fu mai torturato o minacciato durante il sequestro[29], e a tal proposito Indro Montanelli criticò severamente gli scritti del presidente democristiano durante la prigionia, affermando che «tutti a questo mondo hanno diritto alla paura. Ma un uomo di Stato (e lo Stato italiano era Moro) non può cercare d'indurre lo Stato ad una trattativa con dei terroristi che, oltre tutto, nel colpo di via Fani avevano lasciato sul selciato cinque cadaveri fra carabinieri e poliziotti»[30]

.

I comunicati e la trattativa Le Brigate Rosse proposero, attr...


Similar Free PDFs