Agostino Giovagnoli-il caso Moro-una tragedia repubblicana (riassunto) PDF

Title Agostino Giovagnoli-il caso Moro-una tragedia repubblicana (riassunto)
Author Elena Garavello
Course Storia contemporanea
Institution Università di Bologna
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Summary

Riassunto del libro Il caso Moro - una tragedia repubblicana di Agostino Giovagnoli, fatto per l'esame di Storia contemporanea del corso SID di Unibo....


Description

IL CASO MORO – UNA TRAGEDIA REPUBBLICANA “In questo libro il caso Moro, uno degli eventi più traumatici nella storia dell'Italia repubblicana, è ricostruito secondo una prospettiva nuova che lo considera non tanto un fatto criminale da indagare in maniera poliziesca, ma una "tragedia" morale e politica. Fondandosi su un'ampia messe di testimonianze e materiali inediti, Giovagnoli racconta come governo e partiti, stampa e opinione pubblica affrontarono i dilemmi non solo politici del caso: le alternative della trattativa e della fermezza, l'atteggiamento verso le Brigate rosse, la ricerca di possibili mediazioni, il ruolo della Chiesa. In questa luce, il caso Moro è ricollocato nel più largo quadro dell'evoluzione politica italiana, dove segna il punto di massimo avvicinamento del Pci alla Dc e alle istituzioni, oltreché il principio della fine per la stagione del terrorismo.”

I.

LA NOTTE DELLA REPUBBLICA

1. Via Fani, 16 marzo 1978, ore 9 Roma, via Fani, 16 marzo 1978, pochi minuti dopo le 9: una macchina blocca la vettura di Aldo Moro, almeno 10 terroristi uccidono 4 uomini della scorta (il 5° morirà poco dopo in ospedale) e rapiscono il presidente della Democrazia cristiana. Non era il primo atto terroristico che avveniva in Italia: tra il ’75 e il ‘77 se ne erano verificati 4028b, molti dei quali attribuibili a gruppi “di sinistra”. Fino a quel momento il fenomeno era stato sottovalutato (inadeguatezza della scorta di Moro), ma già dagli anni precedenti si erano moltiplicate le azioni terroristiche contro esponenti politici o sedi di partito, in particolare della DC. Uno dei primi interrogativi suscitati da quell’azione terroristica riguarda il motivo per cui le Brigate rosse scelsero proprio Aldo Moro, allora al culmine della sua parabola politica. Si è detto che Moro fu rapito perché in lui le Brigate rosse vedevano il principale artefice della politica di solidarietà nazionale e dell’avvicinamento fra DC e PCI; in realtà, Moro non costituiva l’obiettivo specifico della loro campagna, il loro scopo era più generale: colpire la DC, cardine in Italia dello Stato imperialista della multinazionali (SIM), mentre il PCI rappresentava non tanto un nemico da attaccare quanto un avversario da battere (colui che secondo loro aveva affossato ogni speranza rivoluzionaria nel nostro paese). Nella loro ottica, il sequestro Moro avrebbe interrotto la lunga marcia comunista verso le istituzioni, e acceso la scintilla della rivoluzione in Italia che sarebbe spettato loro guidare. Alle BR interessava Moro in quanto figura emblematica di 30 anni di “regime democristiano”. Naturalmente i brigatisti erano contrari alla politica di solidarietà nazionale, ciò però non significa che essi abbiano sequestrato Moro per colpire il nuovo governo Andreotti, il primo che dal 1947 includeva anche i comunisti nella maggioranza, e che si doveva presentare alla Camere proprio quel giorno. Tuttavia, il bersaglio da centrare era il “regime democristiano”, così avvolgente e pericoloso da inglobare anche il PCI e annullare ogni opposizione.

2. “Attaccare, colpire, liquidare la Democrazia Cristiana” Fin dal 1973 il principale bersaglio politico delle Brigate Rosse era la DC, considerato il “nemico più feroce del proletariato”, e indicavano come loro obiettivo prioritario “attaccare, colpire liquidare la Democrazia cristiana”. L’operazione brigatista mirava:  da una parte a suscitare un crescendo di guerriglia anche nelle altre città  dall’altra ad aprire contraddizioni tra le forze politiche. La durata del sequestro sarebbe dipesa dall’esito di questo duplice disegno. Ma scartata l’ipotesi di una guerriglia diffusa nelle città, le BR affermarono che l’esecuzione del prigioniero non poteva essere scartata a priori, se tali contraddizioni non si fossero aperte.

Il risultato fu però diverso: i brigatisti favorirono una maggiore unità dei loro avversari e affrettarono l’ingresso dei comunisti nella maggioranza di governo. 3. Un accordo difficile Alla vigilia del 16 marzo il nuovo governo Andreot poteva contare con certezza solo sulla DC, il cui consenso era stato faticosamente conquistato da Moro grazie a un noto discorso tenuto ai gruppi parlamentare democristiani il 28 febbraio. All’inizio del 1978, ricordò Moro, il governo della “non fiducia” era entrato in crisi e da parte del PCI era venuta la richiesta di una “coalizione politica generale” che includesse anche i comunisti nel governo. Tuttavia Moro considerava tale richiesta inaccettabile: ammettere i comunisti nel governo avrebbe significato accettare che esponenti di un partito ancora legato all’Unione Sovietica potessero accedere a informazioni e decisioni riguardanti la NATO, egli riteneva però necessario l’ingresso del PCI in una maggioranza parlamentare che non sarebbe stato una maggioranza politica. Ma più in là non si poteva andare. Davanti ai parlamentari democristiani Moro chiarì che con l’ingresso comunista nella maggioranza non sarebbe cambiata la linea del partito e che non sarebbe stata menomata “l’identità della DC”. In questo modo egli portava a compimento una lunga riflessione, basata sulla convinzione che uno stretto rapporto dovesse sempre collegare Stato e società: il PCI avrebbe potuto svolgere una funzione di raccordo tra fenomeni sociali e dialettica politica, recuperando frange tentate dall’estremismo o dalla violenza; mentre la DC avrebbe continuato a svolgere una funzione di “garanzia democratica”. Berlinguer riconosceva che vi era “un passo avanti politico, ma mancava dello slancio, del respiro, del senso di fiducia e di novità da dare al paese”, tuttavia si doveva comunque continuare le trattative con la DC. Comunque, già a partire dal 1975-76 si era creata una distanza difficilmente colmabile dall’Unione Sovietica, e nel 1978 i comunisti italiani incontrarono una carenza di collegamenti con il quadro internazionale, per cui l’ingresso del PCI nella maggioranza di governo non si legava ad alcuna prospettiva internazionale. 4. Fiducia immediata al nuovo governo Gli sviluppi delle prime settimane di marzo accrebbero nei comunisti un senso di fiducia. L’atteggiamento democristiano colpì positivamente i comunisti, sorpresi da una volontà di collaborazione che sembrava accorciare all’improvviso l’enorme distanza di tanti anni. Negli ultimi giorni prima del 16 marzo, però, le speranze comuniste di mutare struttura e composizione del governo vennero deluse: si chiarì che nel nuovo esecutivo non sarebbero stati inseriti esponenti di altri partiti, cioè che anche questa volta sarebbe stato monocolore. I comunisti protestarono e si diffusero al loro interno forti incertezze, sino a sfiorare l’ipotesi di non votare la fiducia. Ma il rapimento Moro cambiò radicalmente la situazione, provocando la decisione di votare immediatamente la fiducia al nuovo governo con una larghissima maggioranza che includeva anche il PCI. La mattina del 16 marzo la notizia della strage e del rapimento di Moro si diffuse in pochi minuti. Zaccagnini (segretario della DC), oltre a manifestare dolore per gli agenti caduti, sottolineò subito che l’importanza del leader sequestrato non era limitata al suo ruolo e che, colpendolo, i terroristi avevano voluto colpire le istituzioni democratiche dell’Italia repubblicana. In questo modo anticipò possibili tentativi di isolare Moro e la DC, contrastando più di ogni altro quanti sostenevano che la salvezza di Moro costituisse un “affare privato” del suo partito. Il ministro dell’Interno Cossiga si rivolse a tutti i cittadini italiani perché si stringessero attorno alle istituzioni e chiese alla stampa un’informazione dettagliata ed equilibrata, per dargli la possibilità di gestire nell’interesse dello Stato e della tutela delle vite umane, la grave crisi che il paese stava attraversando. Andreotti fu informato mentre terminava la cerimonia del giuramento dei sottosegretari del nuovo governo da lui presieduto: i giornali lo descrissero “incredulo” e “sconvolto”.

I leader dei partiti di maggioranza, i segretari dei sindacati, CGL, CISL e UIL, e molti uomini politici si recarono a palazzo Chigi, dove in poco tempo si posero le basi dell’atteggiamento da assumere per rispondere alla sfida terroristica. L’emergenza terroristica impose a tutti di non irrigidire le proprie posizioni, si decise quindi di rinunciare a qualunque modifica al governo (in particolare i PCI) e di ridurre drasticamente i tempi della fiducia. L’emergenza attirò un consenso larghissimo verso il quarto governo Andreotti, che fu però segnato da una duplice debolezza:  da una parte la vastissima ed eterogenea maggioranza parlamentare non costituiva una maggioranza politica dall’altra si trattava di un monocolore democristiano che non godeva della libertà concessa ad altri governi simili Andreotti si trovò subito sotto stretta sorveglianza delle forze di maggioranza, in particolare PCI e PSI, e le scelte del suo governo si dovettero basare sull’approvazione anche formale di tali forze. Il controllo degli altri partiti riguardò la linea politica del governo ma non investì la sua operatività: agli uomini dell’esecutivo venne lasciata gran parte della gestione concreta del caso Moro.



II.

UN GIORNO DIVERSO

1. Bandiere bianche e bandiere rosse Le reazioni alla strage di via Fani e al rapimento di Moro furono molto varie.  ci fu chi vide nei brigatisti qualcuno che “finalmente” colpiva i responsabili di tanti errori e di tante colpe, da 30 anni al potere e apparentemente inamovibili; davanti alla opinione pubblica infatti era in corso una sorta di “processo” alla DC ed era diffusa la convinzione che prima o poi avrebbe dovuto “pagare” per il suo malgoverno.  una reazione opposta invece si espresse due giorni dopo ai funerali dei 5 agenti della scorta. Una folla enorme riempì il grande piazzale di San Lorenzo, applaudendo al passaggio delle salme dei caduti.1 Una delle radici della linea della fermezza che si sviluppò nei giorni successivi affonda proprio nei sentimenti diffusi tra la folla presente quel giorno: il rispetto per quei 5 morti fu spesso invocato come motivo per non aprire alcuna trattativa. Ma i sentimenti di dolore, solidarietà e condanna non erano condivisi da tutta la società italiana, che in molti settori doveva ancora essere conquistata alla condanna del terrorismo. Un appoggio decisivo alla fermezza contro il terrorismo venne da altre reazioni, forse minoritarie ma significative per il loro carattere spontaneo: il 16 marzo si assistette a interruzioni del lavoro e manifestazioni improvvisate, prima della convocazione ufficiale dei lavoratori da parte di sindacati. L’assassinio degli agenti e il rapimento di Moro avevano prodotto una miscela di paura e di dolore che le BR non avevano previsto. I sindacati poi indissero uno sciopero generale e invitarono i lavoratori a mobilitarsi pubblicamente contro il terrorismo: 15 milioni di persone risposero all’appello. Il 16 marzo costituì per PCI una sorta di prova del fuoco: le BR speravano infatti in una rivolta alla base comunista, “costretta” dai propri dirigenti a un’alleanza con il nemico. Avvenne invece il contrario, il PCI era infatti ormai coinvolto da tempo nella vita delle istituzioni repubblicane e nella prassi democratica, inoltre la politica berlingueriana era profondamente innovativa rispetto alla storia precedente del PCI, spingendo il partito vero un’intesa con la DC. Il giorno della strage, nella Direzione del PCI non ci furono incertezze nella condanna all’atto terroristico. I dirigenti comunisti si sentirono investiti di una grande responsabilità nazionale, giudicando inadeguati sia il governo sia i dirigenti democristiani. Alla fine prevalse la linea, indicata da Giorgio Napolitano, di piena collaborazione politica con le forze della maggioranza e in particolare con la DC.

La strage di via Fani e il rapimento di Moro suscitarono una vivace reazione anche alla base democristiana. Il partito soffriva da tempo di un isolamento culturale e morale che non gli impediva di continuare a raccogliere voti, ma determinò una forte avanzata delle sinistre e in particolare del PCI: la DC appariva sempre più incompatibile con il progresso e la modernizzazione. Il 16 marzo rappresentò invece il giorno dell’orgoglio democristiano: quel giorno, e in quelli successivi, “i giovani democristiani forse per la prima volta scesero in massa nelle piazze”. Le manifestazioni offrirono immagini inconsuete: la presenza fianco a fianco di tanti simboli democristiani e comunisti colpì l’opinione pubblica. Il 16 marzo provocò una novità: pur restando molto distanti gli una dagli altri, militanti democristiani e comunisti si ritrovarono uniti nella condanna della strage. L’immagine delle bandiere bianche intrecciate con quelle rosse rappresentò anche un messaggio politico: era un invito a trasformare un’intesa fondata sullo stato di necessità in una collaborazione più convinta. Sconcertante fu per i brigatisti fu la presenza di tanti lavoratori nelle manifestazioni di piazza, ovvero che proprio i destinatari naturali della proposta rivoluzionaria della BR, si mobilitassero contro di loro. 2. Evitare la guerra civile La mattina del 16 marzo non si erano aperte contraddizioni tra le forze politiche come speravano i brigatisti, ma si cominciò fin da subito a discutere su come fronteggiare la sfida terroristica. Nei primi mesi del 1978 i terroristi cercarono di provocare gli ambienti neofascisti, con l’omicidio di due missini. La violenta reazione che ne scaturì sembrò configurare una sorta di “guerriglia civile”. Essi volevano diffondere la sensazione che l’Italia fosse un paese in presa al disordine e privo di una guida sicura. Anche la strage di via Fani venne percepita da molti come una dichiarazione di guerra. Se prese alla lettera, tale constatazione implicava che lo Stato adottasse provvedimenti eccezionali e una vera e propria strategia militare. Vennero avanzate proposte che evocavano uno stato di guerra vero e proprio; il governo però, malgrado l’evidente gravità del momento, respinse quella valutazione della situazione e le scelte che ne derivavano. In direzione opposta andarono invece quanti attribuivano l’azione di via Fani a un’ingerenza straniera: in quelle ore convulse si parlò infatti di legami internazionali, del ruolo di altre potenze e del coinvolgimento dei servizi segreti stranieri (i sovietici diffusero la voce che dietro le BR ci fosse le Cina). Se accolta, l’ipotesi di un’ingerenza straniera avrebbe suggerito di non concentrare la risposta dello Stato verso l’interno. Ma il governo non credette che le BR costituissero un fenomeno del tutto estraneo alla società italiana: infatti, anche ammessa l’influenza di una potenza straniera o dei servizi segreti, l’ampiezza dell’area dei simpatizzanti era comunque evidente. La DC confermò quindi la scelta di resistere a ricatti e pressioni per “garantire al paese il rispetto del metodo democratico”. Tale linea fu sostenuta anche da comunisti, preoccupati di ricevere critiche da sinistra nel caso di una gestione severa dell’ordine pubblico da parte del governo. Per questi motivi, però, l’esecutivo non poté unire a una gestione pienamente democratica dell’emergenza terroristica un’adeguata efficacia operativa. Vennero respinte la proclamazione dello stato di emergenza e della pena di morte perché si intendeva privilegiare un’altra strada. Dopo via Fani nessuno sapeva di preciso cosa potesse accadere, poteva svilupparsi un vasto consenso verso le BR, prodursi una moltiplicazione di atti di terrorismo, emergere una sempre maggiore contrapposizione alle istituzioni: la guerra civile avrebbe potuto essere innestata dal rapimento Moro e i terroristi puntavano proprio a questo obiettivo. Un’azione repressiva generalizzata avrebbe allargato le simpatie nei confronti delle BR e facilitato quella guerriglia civile che si voleva assolutamente evitare. Secondo il governo occorreva muoversi con grande prudenza al fine di accrescere i consensi verso le istituzioni democratiche e isolare le BR dai loro sostenitori. Alla fine di quel lungo giorno Zaccagnini sollecitò Andreot a rivolgere un messaggio agli italiani: egli sottolineò la “necessità di isolare i germi” di violenza in modo tale da evitare una situazione di guerriglia diffusa e incontrollabile, difese la “fermezza dello Stato, la quale non aveva niente di reazionario e di repressivo” e concluse l’appello evocando la non violenza.

3. I giornali e le città Tra i protagonisti del dibattito pubblico che si sviluppò durante i 54 giorni del sequestro Moro, ci furono indubbiamente i giornali, e un ruolo importante fu svolto anche dalla televisione. Ai giornali spettò il compito di mantenere un dialogo costante tra classe politica e opinione pubblica sulle scelte che si imposero giorno per giorno. Il “blocco della stampa”, secondo la definizione delle BR, si attestò prevalentemente sulla linea della fermezza, contribuendo a definirla e sostenerla, anche se non lo fece in modo totalmente uniforme. “Il Corriere della Sera”, “la Repubblica” e “La Stampa”, per citarne alcuni, interpretarono quella posizione secondo chiavi sensibilmente differenti. A queste differenze concorsero anche i legami tra i quotidiani italiani e le rispettive città di riferimento. E’ emblematico in questo senso il caso della “Gazzetta del Mezzogiorno”, interprete dell’intensa partecipazione di Bari e di tutta la Puglia alle sorti di Moro. La mattina del 17 marzo i principali quotidiani italiani si aprirono con un editoriale non firmato. Uno dei più severi fu “Il Corriere della Sera”, il quale  escluse la possibilità di cedere al ricatto liberando qualche brigatista per salvare Moro  enfatizzò l’inefficienza dello Stato  svalutò l’importanza delle manifestazioni del giorno prima Il “Corriere” rifletteva gli orientamenti della società milanese, tradizionalmente fredda verso la politica romana, attraversata da una forte contrarietà alla collaborazione con i comunisti e segnata da una grande stanchezza per le manifestazioni di protesta e le forme di illegalità in quegli anni. L’editoriale di “Repubblica”  aprì sulla figura politica di Moro, un uomo meritevole del più alto rispetto civile;  analizzava il senso politico dell’azione brigatista; si concludeva con l’auspicio che la classe dirigente ritrovasse il senso dello Stato necessario per saldare il popolo e le istituzioni. Nei giorni seguenti, “La Repubblica” sarebbe stato in prima linea nel sostenere la fermezza e respingere la possibilità di trattative, ma in questo editoriale l’argomento non venne affrontato.



Più simpatizzante nei riguardi della DC e del governo si mostrò “La Stampa”, il cui editoriale espresse una sincera ammirazione per Moro. Come “La Repubblica”, anche il quotidiano torinese mostrò di condividere la scelta del governo Andreotti, che aveva rifiutato l’applicazione di misure eccezionali, ma vi si differenziò per una valutazione più positiva della DC e una maggior fiducia nelle istituzioni. 4. Paolo VI “Defensor civitatis” Un ruolo importante a sostegno delle istituzioni e in aiuto della società italiana in quel difficile momento di crisi fu svolto dalla Chiesa. Paolo VI reagì immediatamente alla strage di via Fani e al rapimento di Moro, esprimendo il suo sdegno per la viltà dell’atto terroristico e un giudizio severo sulla situazione italiana. Il severo giudizio morale espresso da Paolo VI sulla gravità della situazione italiana avrebbe forse potuto indebolire la forza delle istituzioni e l’efficacia dell’azione di governo, ma il papa rimosse eventuali ombre manifestando la certezza che la comune solidarietà e l’impegno costante per il rispetto della cosa pubblica avrebbero fatto superare al popolo italiano le difficoltà del presente. Il papa avvertì l’urgenza di farsi carico di quanto stava accadendo; Giovanni Battisti Montini aveva però il senso della laicità dello Stato, ci fu sicuramente un rapporto di collaborazione ma nella distinzione delle competenze e, talvolta, in un rispetto reciproco che non escludeva diversità di opinioni. Paolo VI fece inviare un messaggio a Giulio Andreot per dimostrare la sua fiducia alla DC e al governo italiano. Il pensiero del papa si rivolse immediatamente anche al rapito, cui Paolo VI era legato personalmente e decise di inviare un messaggio a Eleonora Moro, invi...


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