Crisi del 600 - appunti e riassunti PDF

Title Crisi del 600 - appunti e riassunti
Author gc96 Cmn
Course Storia dello stato moderno
Institution Università degli Studi di Torino
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appunti e riassunti...


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La crisi del Seicento

1. Arresto e instabilità Nei primi anni del XVII secolo una crisi senza precedenti, almeno dai tempi della Peste Nera, sta preparandosi ad abbattersi sul continente. Sarà una crisi segnata da guerre, rivolte e pestilenze, ma nessuno di questi elementi ne è veramente la causa principale, mentre tutti loro concorronoo in egual misura a determinarla. La crisi sfugge alle possibilità d’intervento dei gruppi dominanti: i monarchi e i ceti di governo hanno la consapevolezza delle difficoltà che si accavallano, ma non la capacità di porvi rimedio. In parte, infatti, si tratta della fine di un grande ciclo economico espansivo di cui è impossibile cogliere con precisione le ragioni, i tempi e gli esiti; in parte dell’esplodere di una diffusa inquietudine sociale provocata dallo sviluppo delle amministrazioni statali, il cui peso sulle popolazioni e sui tradizionali equilibri politici si è fatto ormai insopportabile. Gli Stati europei hanno raggiunto il limite delle possibilità di estendere pacificamente i propri poteri sulle società che governano; di lì in poi sarà loro necessario consolidarli attraverso la violenza. Quella della prima metà del XVII secolo è insomma una crisi di crescita delle strutture politiche ed economiche dell’Antico regime, ed essa si conclude soltanto dopo una prolungata fase di conflitti che coinvolgono tutte le forze in campo – sovrani, aristocrazie, Chiese, ceti mercantili e imprenditoriali e, naturalmente, contadini e lavoratori salariati, che pagano le spese più gravose del nuovo equilibrio raggiunto. All’inizio del Seicento arriva a esaurirsi l’ondata di inflazione che ha dominato il secolo precedente. È il primo sintomo di quella che gli storici chiamano ‘crisi del Seicento’, una fase di stagnazione e, successivamente, di arretramento della dinamica espansiva che ha favorito l’economia europea fino ad allora. I prezzi del grano cominciano a stabilizzarsi, e poi a decrescere: dapprima nelle regioni mediterranee, quindi nell’Europa centrale e occidentale. Le uniche occasioni di rialzo sono di ordine patologico, corrispondenti alle congiunture di carestia. Non è una crisi improvvisa, come non è rapida né omogeneamente distribuita in tutte le aree del continente; si manifesta a partire dal 1590 circa, con l’arresto della crescita della produzione e del commercio che proprio allora ha toccato il picco, e prosegue fino almeno alla metà del secolo. Colpisce soprattutto i paesi che fino ad allora sono stati all’avanguardia dello sviluppo, e cioè la Spagna, l’Italia e il Midi francese, mentre i paesi atlantici come l’Olanda e l’Inghilterra si vedono proiettati verso un forte ciclo di crescita basato sull’economia coloniale.

Una ragione dell’arresto dello sviluppo economico risiede nella flessione della curva demografica, a sua volta probabilmente causata dalla recrudescenza delle grandi epidemie. Nella prima metà del XVII secolo, dal 1596 al 1656, pestilenze devastanti flagellano l’Europa, dall’Atlantico al Mediterraneo. La penisola iberica e quella italiana ne fanno le spese maggiori: la Spagna perde un milione e mezzo di abitanti sugli otto milioni del 1590, l’Italia impiega un secolo e mezzo per riguadagnare il livello di popolazione che aveva attorno al 1600. Altre cause non meno importanti si sono però sviluppate durante i decenni del secondo Cinquecento, contribuendo a indebolire il tessuto dell’economia europea e a renderlo inadeguato a sostenere l’incremento demografico di quel secolo: in particolare le guerre, praticamente ininterrotte, con il loro seguito di città saccheggiate, raccolti distrutti, bestiame confiscato ai contadini, e il crescente fiscalismo statale, ossia il continuo aumento delle imposte che grava soprattutto sulle campagne. A queste premesse fanno seguito, manifestandosi con particolare virulenza negli anni Trenta e Quaranta del XVII secolo, grandi rivolte contadine e rivolgimenti politici che mettono a rischio la tenuta delle maggiori monarchie europee, Spagna, Francia e Inghilterra. 2. Una nuova età di rivolte Nella prima metà del XVII secolo diverse regioni europee conoscono un’ondata di rivolte popolari senza precedenti dai tempi delle insurrezioni trecentesche. Le fasi culminanti si registrano in Russia nel 1648-49, in Germania e Svizzera a più riprese dal 1626 al ’50, in Inghilterra negli anni Venti, nella penisola iberica negli anni Quaranta e in Francia tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. Occorre proseguire fino alla fine del Settecento, all’età della Rivoluzione francese, per trovare una fase di disordine paragonabile a questa. Nelle rivolte popolari si saldano di frequente la protesta dei ceti inferiori contro il fiscalismo statale e il malcontento aristocratico verso quelle che sono considerate indebite ingerenze delle corone nelle antiche prerogative signorili. Molto spesso i nobili sobillano i loro contadini alla sollevazione, li armano, e più o meno direttamente possono arrivare a capeggiarli. Le condizioni economiche delle campagne sono tali da fare della classe contadina una polveriera potenzialmente sempre a rischio di esplosione. Dove prevale la piccola proprietà rurale, sufficiente a garantire poco più della sussistenza, come nella Francia dell’Ovest e del Sudovest, bastano due anni consecutivi di cattivo raccolto per mettere alla fame i contadini; se a questo si aggiungono i prelievi fiscali indiscriminati e quella vera maledizione che sono gli eserciti stanziali, il cui sostentamento ricade in genere sulla popolazione, si capisce come essi vivano costantemente sul filo della rivolta.

In Francia un caso tra i più celebri è quello dei Nu-Pieds della Normandia, i ‘piedi nudi’, i braccianti delle saline così chiamati per l’abitudine a lavorare scalzi. Le imposte straordinarie del 1637 e del 1639 cadono sulle campagne e le città mentre la regione è già provata dal peso degli acquartieramenti militari, regolarmente accompagnati da rapine e violenze ai danni della popolazione. Nell’estate del ’39 i contadini si uniscono in un’armata di 4mila uomini guidata da parroci e gentiluomini impoveriti, reclamando il rispetto della vecchia carta dei diritti del 1315 che stabiliva che nessuna contribuzione potesse essere chiesta dal re in Normandia senza il previo consenso degli Stati provinciali. I funzionari del fisco inviati da Parigi sono assaliti come fossero ufficiali di un sovrano straniero: e in effetti per schiacciare la rivolta nel sangue è necessario inviare un corpo di spedizione dell’esercito, come si tratti di occupare una provincia nemica. Allo stesso modo, due anni prima, i Croquants (gli ‘zotici’) del Périgord, nella Francia sudoccidentale, si sono riuniti in armi per dare la caccia ai riscossori delle imposte. Hanno stilato una «Richiesta al re» in cui protestano contro le tasse insostenibili e gli alloggiamenti delle truppe, invocando l’intervento del sovrano che si pensa non sappia nulla della situazione perché tenuto all’oscuro dai suoi consiglieri. Più di tremila uomini devono essere richiamati dal fronte spagnolo per risolvere la situazione, e comunque, dopo alcune condanne esemplari, Luigi XIII è costretto a concedere l’amnistia al grosso dei ribelli. In Spagna, in Francia e in Inghilterra il debito della corona si allarga a ritmi sostenuti, a causa delle spese di guerra, del pagamento degli interessi ai creditori e del fasto della vita di corte, una voce di bilancio ormai irrinunciabile per le esigenze di una politica che vede nel re la manifestazione di un potere di origine divina. La questione delle finanze diviene il problema chiave per queste monarchie che sono diventate, di fatto, macchine divoratrici di smisurate risorse economiche. Al centro della scena sta senza dubbio la guerra, che dirige non soltanto gli equilibri internazionali, ma le stesse dinamiche interne degli Stati. Per un sovrano, entrare in guerra significa poter rimediare con la forza ai propri ammanchi di cassa, assumendo poteri straordinari e imponendo contribuzioni militari che scavalcano i tradizionali sistemi di prelievo. Ma l’esercito, una volta mobilitato e spedito al fronte, va mantenuto, e a seconda della durata del conflitto il suo costo si moltiplica: da cui il rafforzamento di meccanismi intesi a procurare un flusso costante di denaro liquido alle corone, come l’acquisizione di smisurati debiti finanziari, le alterazioni monetarie, la vendita di uffici, terre, titoli, privilegi, meccanismi che alterano in profondità il volto della società facendo emergere categorie quali finanzieri, appaltatori e imprenditori militari che costruiscono le proprie fortune sull’alleanza con i sovrani e lo sfruttamento dei bacini fiscali di interi paesi. Oltre ai conflitti internazionali, la prima metà del XVII secolo vede perciò la presenza di persistenti guerre interne ai singoli paesi, poiché le rivolte dell’epoca

sono sostanzialmente guerre contro le monarchie da parte dei corpi intermedi e delle masse contadine che reclamano il rispetto degli antichi patti, e guerre di repressione delle monarchie contro di loro: e sono tali guerre interne, più che quelle di conquista, a modificare a fondo la fisionomia degli Stati europei. Una lettura in controluce delle rivolte del Seicento mostra in esse un doppio carattere, al tempo stesso conservatore e moderno. Di certo esse non hanno il potenziale rivoluzionario di quelle della fine del XVIII secolo, né possono averlo dal momento che non possiedono la concettualizzazione elaborata dall’Illuminismo, con la sua idea progressiva della storia e la nozione dei diritti fondamentali dell’uomo. Da un lato, per questo, esse vivono di programmi regressivi, in quanto sono dirette contro le innovazioni politiche e fiscali introdotte dagli apparati del governo centrale. I rivoltosi, nelle loro rivendicazioni, si richiamano al passato, alle consuetudini medioevali dei ‘patti’ per le quali il controllo del territorio era spartito tra gli ufficiali del re e i signori locali, dove questi ultimi svolgevano la funzione paternalistica di “protettori” della povera gente. Dall’altro lato, le jacqueries seicentesche rivelano come i ceti subalterni possiedano una visione lucida dello stato delle forze in gioco: gli antagonisti sono individuati prima di tutto nei nuovi soggetti del potere, cioè il sovrano, la corte, l’apparato amministrativo periferico dello Stato, anziché negli antichi signori feudali, che, per quanto élite privilegiata, subiscono pur essi l’erosione delle proprie prerogative; e la soluzione invocata dai rivoltosi è quella di una condivisione delle responsabilità di governo tra la monarchia e la rappresentanze assembleari delle province, tale da fare in modo che, per il sovrano, il paese non sia un semplice bacino di risorse da depredare. 3. La Spagna di Filippo IV Alla morte di Filippo III, nel 1621, la Spagna versa in una crisi allarmante. È prima di tutto una crisi demografica, e di essa sono perfettamente consapevoli gli arbitristas, gli esperti di politica ed economia che stilano puntuali resoconti per la corona. Le ragioni sono molteplici: la continua emorragia di uomini verso le colonie americane e l’esercito, che è di gran lunga la più colossale struttura organizzata dello Stato; poi il calo dell’immigrazione dalla Francia, l’espulsione dei moriscos – fino a 300mila persone, il 4% circa della popolazione del paese – e infine le gravi epidemie del 1596-1602. L’economia è in ginocchio. Nell’agricoltura la scarsità di manodopera lascia all’incolto aree sempre più estese della Castiglia e dell’Aragona, come indica il netto calo della produzione di grano segnalato nei registri delle decime: per una quota ingente dei propri consumi la Spagna dipendeva ora dalle importazioni di cereali dall’Europa orientale. Inoltre la piccola e media proprietà terriera è stata largamente assorbita dalla grande proprietà delle famiglie aristocratiche, che

anziché investire nel miglioramento dei fondi cercano la pura rendita data dagli affitti riscossi dai contadini, con un effetto depressivo sulla produttività agricola nel suo complesso. Quanto alla produzione artigianale, dominata dalle corporazioni, essa è così rigida che per gli stessi commercianti di lana e seta risulta più vantaggioso vendere all’estero la materia prima anziché affidarla alle botteghe di Segovia e Valencia per la lavorazione. Il risultato è che dal 1620 circa, a giudicare dai registri del Consulado, l’associazione sivigliana dei mercanti, nessuna delle merci esportate in America è più prodotta nella madrepatria, con l’esito paradossale che la più grande potenza coloniale del mondo ha fatto la fortuna delle manifatture inglesi, francesi e fiamminghe e la rovina delle proprie. Sul fronte fiscale come su quello monetario, la corona sembra fare di tutto per peggiorare la situazione. Il grosso delle imposte (circa il 90 per cento) ricade sulla tassazione indiretta, formata in buona parte dalla vecchia alcabala, il dazio sulle transazioni commerciali, e da imposte sui generi alimentari come la gravosa tassa sul sale introdotta nel 1631 e di lì a poco ritirata per i disordini che aveva provocato. Poi vengono i ricavi delle quote sui diritti ecclesiastici, come la cruzada (in origine riscossa per sovvenzionare la conquista dell’emirato di Granada, nel XV secolo, poi trasformata in entrata ordinaria), e quelli della vendita degli juros, i titoli di Stato a lungo termine. Nel complesso, però, il sistema di riscossione è tutt’altro che efficiente. Il primo ministro Olivares calcola all’epoca che sette milioni di ducati sui dieci complessivi di gettito annuo della corona siano trattenuti, legalmente o illegalmente, dagli stessi ufficiali addetti al prelievo delle imposte e alla vendita dei buoni. La crisi finanziaria di Madrid è tale che, dalla metà degli anni Trenta, il pagamento degli interessi ai creditori è sospeso più volte, con una notevole perdita di credibilità sul mercato e il conseguente deprezzamento dei titoli. Filippo IV (1621-65) condivide con i predecessori lo spirito religioso e militarista che è il marchio distintivo degli Asburgo spagnoli. Come, e più del padre affida interamente le decisioni di governo a un valído, un favorito dotato delle funzioni di primo ministro. La scelta cade su Gaspar de Guzmán, conte-duca di Olivares (1587-1645), uomo di inesauribile energia al cui nome è legato l’ultimo tentativo storico di raddrizzare la situazione della Spagna asburgica. Nello stesso 1621 arriva a scadenza la Tregua dei dodici anni con le Province Unite. Olivares decide per la ripresa delle ostilità. L’armata messa in campo è la più numerosa di sempre, circa 300mila uomini, in massima parte mercenari fiamminghi, tedeschi e italiani. Le spese belliche, che già all’avvio delle ostilità conoscono un’impennata da un milione a tre milioni e mezzo di ducati, entrano in una spirale di crescita tale che da allora, e per i trent’anni successivi, le vicende politiche

spagnole sono dominate dal contrasto fra l’impellenza di riformare lo Stato, rendendone più razionale il bilancio, e i costi insostenibili della stabilità imperiale. In materia fiscale Olivares concepisce un piano di riforma di tale ambizione da tradursi in una vera rifondazione della monarchia, la cui chiave di volta sta nell’equilibrio fra le sue diverse regioni. È nel fallimento di questo piano che la Spagna asburgica si mostra incapace di ogni autentica innovazione. Il sistema fiscale spagnolo è clamorosamente squilibrato a sfavore della Castiglia, che da sola sopporta quasi per intero il carico delle entrate destinate al governo dell’impero (esercito, flotta, corte, burocrazia), mentre il regno di Aragona, quello di Valencia e il principato di Catalogna si limitano a sostenere le spese della propria amministrazione interna. Lo stesso vale per il Portogallo e per i territori italiani, nei quali il prelievo, altissimo soprattutto nel regno di Napoli, va a profitto delle nobiltà locali. Il progetto di Olivares prevede la creazione di un’effettiva parità tra i regni, sul piano fiscale come su quello dell’omogeneità politica e legislativa: cariche e onori debbono essere ripartiti fra le aristocrazie di ciascuno di essi, le barriere doganali abolite, i matrimoni misti incoraggiati, e lo stesso re deve risiedere a turno in tutti i suoi domini. Un secondo progetto, rimasto famoso come Unione delle armi (Unión de armas), mira alla leva di un esercito da reclutare nei diversi territori della penisola, pronto a intervenire dove le necessità lo richiedano. I piani sono presentati alle Cortes di Aragona, Catalogna e Valencia nel 1626, e la freddezza con cui sono accolti rivela subito come i gruppi di potere locali abbiano ben poca intenzione di partecipare agli onori, e in special modo agli oneri del governo imperiale. Con le casse allo stremo, e nell’impossibilità di istituire imposte dirette, a Olivares non resta che ricorrere a misure straordinarie come la confisca del gettito degli juros nel 1635 e quella dell’argento americano posseduto da privati nel ’37 e nel ’39. Gli effetti sono devastanti: molti piccoli nobili, gli hidalgos, sono ridotti nella più completa povertà; l’alta aristocrazia vede intaccata la propria ricchezza e, in odio al primo ministro, torna nei propri feudi abbandonando la corte. Soprattutto, arriva a precipitare l’ostilità reciproca fra Catalogna e Portogallo da una parte e Castiglia dall’altra. Quest’ultima vede nei due Stati confinanti paesi ricchi e irresponsabili che si rifiutano di contribuire al bene della monarchia e alla loro stessa difesa. Del resto, il Portogallo è effettivamente una nazione con una propria storia e proprie tradizioni che solo per evenienze dinastiche (l’estinzione degli Aviz) è governato da un sessantennio dagli Asburgo di Spagna, mentre la Catalogna ha una consuetudine amministrativa tutta sua, fondata sulla divisione dei poteri tra patrizi cittadini, mercanti e rappresentanti delle arti, ben diversa da quella castigliana, dominata dalle clientele informali delle grandi famiglie nobili.

La Francia dichiara guerra a Madrid nel 1635. Nella primavera del 1640 la popolazione catalana, su cui grava il mantenimento delle truppe, si solleva in una ribellione che diviene subito guerra civile allorché la corona invia un corpo di spedizione per pacificare il territorio. L’inaudita debolezza interna di quella che era fino ad allora la maggiore potenza dell’Occidente era già suonata come l’opportunità tanto attesa dagli indipendentisti portoghesi. Il duca Giovanni di Bragança (Braganza), legittimo pretendente al trono, è incoronato con il nome di Giovanni IV nel 1640, in continuità con la dinastia degli Aviz. Si apre allora una lunga guerra di posizione finché l’esercito spagnolo è definitivamente sconfitto a Villaviciosa nel 1665 da un esercito portoghese che può contare sull’aiuto finanziario e militare inglese e francese. Nel 1641 la monarchia ispanica è sull’orlo dello sfacelo politico ed economico. Nel gennaio del 1643 il nuovo re Filippo IV destituisce Olivares; in maggio i tercios subiscono dai francesi una sanguinosa disfatta a Rocroi, nella Francia settentrionale, che chiude l’epoca dell’egemonia militare spagnola che durava dai tempi delle Guerre d’Italia del primo Cinquecento. La pace conclusa con gli olandesi nel 1648 sigilla il riconoscimento formale dell’indipendenza delle Province Unite dopo un conflitto che, con la sola interruzione della Tregua dei dodici anni, è durato per un ottantennio, prosciugando la Spagna delle sue risorse finanziarie. Solo nel 1652 i rivoltosi catalani si sottomettono, in cambio del riconoscimento dell’inviolabilità delle leggi e delle antiche libertà del principato: è il passo che evita la totale disgregazione della monarchia e il ritorno alla divisione delle corone che aveva caratterizzato il medioevo. La pace con la Francia, detta ‘Pace dei Pirenei’, è firmata nel 1659. 4. La Francia tra il disordine e la ripresa Al momento dell’assassinio di Enrico IV, nel 1610, la Francia si trova già proiettata in una fase di crescita politica ed economica, con le casse dello Stato in buone condizioni e la pace religiosa interna garantita dall’Editto di Nantes. Fattori di debolezza, però, erano tutt’altro che assenti: «I periodi di reggenza – ha scritto Roland Mousnier – erano sempre momenti difficili, in cui il regno pareva sull’orlo della dissoluzione. […] Morto il re e occupato il trono da un fanciullo, era come se ci...


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