Docsity-diritto-industriale-manuale-vanzetti-di-cataldo (2019 12 15 16 34 36 UTC) PDF

Title Docsity-diritto-industriale-manuale-vanzetti-di-cataldo (2019 12 15 16 34 36 UTC)
Author Francesco Rangoni
Course Diritto industriale e della concorrenza
Institution Università degli Studi di Verona
Pages 149
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Summary

MANUALE DI DIRITTO INDUSTRIALEVanzetti – Di CataldoPARTE PRIMA - LA CONCORRENZA SLEALECapitolo 1 – DISCIPLINAPer la disciplina, ci si rifà alla Convenzione d’Unione per la tutela della proprietà industriale, stipulata a Parigi nel 1883 e modificata ed integrata successivamente nel 1925(di particolar...


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MANUALE DI DIRITTO INDUSTRIALE Vanzetti – Di Cataldo PARTE PRIMA - LA CONCORRENZA SLEALE Capitolo 1 – DISCIPLINA Per la disciplina, ci si rifà alla Convenzione d’Unione per la tutela della proprietà industriale, stipulata a Parigi nel 1883 e modificata ed integrata successivamente nel 1925(di particolare rilievo l’inserimento della norma 10 bis, che costituì la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino all’entrata in vigore del Codice Civile del 1942). L’art. 10bis prevede: 1. I Paesi dell'Unione sono tenuti ad assicurare ai cittadini dei Paesi dell'Unione una protezione effettiva contro la concorrenza sleale. 2. Costituisce un atto di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale. 3. Dovranno particolarmente essere vietati: 1) tutti i fatti di natura tale da ingenerare confusione, qualunque ne sia il mezzo, con lo stabilimento, i prodotti o l'attività industriale o commerciale di un concorrente; 2) le asserzioni false, nell'esercizio del commercio, tali da discreditare lo stabilimento, i prodotti o l'attività industriale o commerciale di un concorrente; 3) le indicazioni o asserzioni il cui uso, nell'esercizio del commercio, possa trarre in errore il pubblico sulla natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, l'attitudine all'uso o la quantità delle merci. " Il nuovo Codice Civile disciplina la materia all'art che recita quanto segue: “ . Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale :

1) usa

nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2) diffonde

notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.” A partire dagli anni ’80 del secolo scorso si è avuta una vasta produzione legislativa, che ha portato all’unificazione di molti istituti in un Codice della proprietà industriale(Codice p.i. o c.p.i.). Il c.p.i. ha inciso sul tradizionale assetto della disciplina della concorrenza sleale, soprattutto con riferimento a determinati temi: concorrenza confusoria (art. 2598 n. 1 c.c., sottrazione di segreti(art. 2958 n. 3 c.c., indicazione geografica e denominazione d’origine(art. 2958 n. 2 o 3). Precedentemente all’emanazione di una disciplina specifica, la repressione della sleale concorrenza si riconduceva all’illecito aquiliano, ovvero all'art. 2043 c.c. (“Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), ma si trattava di una forzatura: la concorrenza sleale è soltanto una species del genus dell'illecito civile, e di conseguenze l’idea principale era sicuramente la natura inibitoria, mentre la natura dell’art. 2043 è sicuramente sanzionatoria.

Capitolo 2 - I SOGGETTI La disciplina della concorrenza sleale si applica solo quando ricorrano taluni presupposti soggettivi tra soggetto attivo e passivo e quando questi presentino determinate qualità professionali. Tra i due deve intercorrere un rapporto di concorrenza, cioè i due soggetti devono offrire sul mercato beni/servizi idonei a soddisfare, anche in via succedanea, gli stessi bisogni o bisogni simili. Se manca un'identità vera e propria tra prodotti o servizi, occorre stabilire cosa significhi il termine "simili" sotto due profili:  Profilo merceologico: se uno produce abiti confezionati e l’altro maglieria intima, l’individuazione fra i due di un rapporto di concorrenza diventa più problematico, perché anche se si tratta di prodotti dello stesso genere merceologico, e idonei a soddisfare lo stesso bisogno in senso lato. Tuttavia vi è la tendenza ad applicare anche in questi casi la disciplina della concorrenza sleale e perciò ad ammettere la sussistenza del rapporto. Infatti basta che il rapporto di concorrenza non sia attuale, ma meramente potenziale, che vi sia una probabilità concreta in un non lontano futuro, desumibile da circostanze del caso o da regole di esperienza. talora si ammette che sussista rapporto di concorrenza anche sulla base della mera appartenenza alla medesima categoria merceologica ed in mancanza di ogni attuale o potenziale rischio di storno della clientela.  Profilo territoriale: solitamente assume rilievo per le imprese di piccole dimensioni; il mercato di incidenza di un'impresa deve ritenersi coincidente con la sua sfera di notorietà. È ovvio che una panetteria di Enna non possa ritenersi in concorrenza con una panetteria di Bergamo. Ma se una o entrambe le imprese considerate ha grande dimensione non si potrà dire altrettanto. Inoltre il mercato di un’impresa dovrà dal punto di vista territoriale, ritenersi coincidente con la sua sfera di notorietà. Per le imprese il cui problema sotto il profilo territoriale si pone, occorre valutare non solo l'estensione attuale, ma anche un dato di estensione potenziale (ad esempio la Barilla dovrà ritenersi in concorrenza con qualsiasi pastifico, anche piccolissimo, in quanto nazionalmente nota).

9. Concorrenza fra imprese operanti a livelli diversi Un ulteriore problema si ha quando due imprenditori trattìno prodotti uguali o analoghi nella stessa zona, ma a livelli economici diversi; l’esempio tipico è quello del rapporto che intercorre tra produttore di un bene e commerciante (distributore). Si potrebbe dubitare dell’esistenza di un rapporto di concorrenza in questo maso; ma la giurisprudenza ha affermato che l’esistenza di un rapporto di concorrenza è data dal fatto che il risultato ultimo dell’attività di entrambi incide sulla medesima categoria di consumatori. Vedi situazione in cui il commerciante favorisce un altro produttore, in diretta concorrenza con quello colpito da atto sleale.

10. Concorrenza sleale e storno di clientela Un’altra ricorrente figura di atto di concorrenza sleale atipico è lo storno di dipendenti. Posto infatti il principio di libertà di concorrenza operante anche sul mercato del lavoro, che comporta la mobilità del lavoratore e la libertà, per l’imprenditore, di operare per sottrarre ai concorrenti la manodopera migliore, offrendo migliori retribuzioni o condizioni di lavoro, questa posizione di principio viene temperata, nella prassi giurisprudenziale, dall’affermazione secondo cui lo storno può colorarsi di modalità oggettivamente illecite o essere caratterizzato da animus nocendi divenendo concorrenza sleale (Cass., 23.5.2008 n. 13424).

11. Qualifica di imprenditore Per l'applicazione della disciplina in esame, occorre che i soggetti siano imprenditori(art. 2082 c.c.), ma in senso ampio, ovvero soggetti che esercitino sul mercato una attività

economica organizzata al fine della produzione/scambio di beni/servizi. Quindi non si pretende che siano presenti tutti i requisiti di cui all’art. 2082. Ciò consente di comprendere nella disciplina anche: 

la P.A. quando eserciti attività d'impresa;



associazioni ed enti senza scopo di lucro;



attività professionali ma occasionali;



esercizi di impresa soggetti a licenze amministrative che si svolgono in maniera irregolare;



controverso è il caso dei liberi professionisti. La giurisprudenza tende ad includerla solo se l’attività è di dimensioni così ampie da superare gli aspetti personali dell'attività (anche se la Suprema Corte ha negato questa possibilità).



Si ritiene possa assumere veste di soggetto attivo o passivo dell’atto di concorrenza sleale anche un’impresa in fase di organizzazione, di liquidazione o fallita (se si può ipotizzare una ripresa dell'attività,).

12. Atti di terzi imputabili al concorrente Vi è concorrenza anche quando gli atti sono posti in essere non solo dall’imprenditore, ma anche dai dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, o da persone che fungono da organi dell'ente quando si tratti di impresa societaria. Infatti nell’art. 2598 c.c. si trova la nozione di concorrenza sleale indiretta. È necessario, però, che l'atto sia posto in essere, se non per specifico incarico dell’imprenditore, nell'interesse dello stesso e ciò consapevolmente. Inoltre è affermato in giurisprudenza il principio per il quale non è necessario che l’atto provenga direttamente dall’impresa concorrente, ma è sufficiente che esso sia volto a procurare vantaggio a quell'impresa per opera di terzo.

13. Responsabilità del terzo Ci si chiede se negli atti di concorrenza sleale (posti in essere da terzi e dei quali risponde l’imprenditore), sia responsabile anche il terzo ed a che titolo. Si ritiene che quando si tratti di dipendente dell’imprenditore, la responsabilità sia solo di quest’ultimo, a meno che il dipendente non fosse investito di mansioni che gli consentivano decisioni discrezionali. In questo caso, egli sarà responsabile in solido con l'imprenditore.

14. Legittimazione delle associazioni professionali L’art. 2601 del c.c. accorda la possibilità di agire per la repressione della concorrenza sleale anche ad associazioni professionali ed enti, che rappresentano una categoria imprenditoriale quando si abbia a che fare con atti che pregiudicano gli interessi di tale categoria (es. denigrazione del vino da parte di un produttore di bevande analcoliche). Esse possono agire in nome proprio quando si tratti di un atto di concorrenza sleale che abbia leso gli interessi di uno o più dei loro associati o aderenti (quindi come mera sostituzione processuale), in modo da escludere la necessità di presentare una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni. Altrimenti, queste associazioni possono agire in iure proprio come associazioni di categoria: possono chiedere solo il ristoro per il danno che l'ente abbia risentito in proprio, non anche per quello risentito dagli associati (es. costi di una campagna stampa volta a neutralizzare il discredito causato dal terzo). Se la legge attribuisce una specie di legittimazione attiva all’azione di concorrenza sleale, quanto all’eventuale legittimazione passiva essi si pongono sullo stesso piano di qualsiasi altro soggetto non imprenditore.

Capitolo 3 – CORRETTEZZA PROFESSIONALE E DANNO CONCORRENZIALE 15. Fattispecie nominate e clausola generale nell’art. 2598 c.c. L’art. 2598 c.c. presenta due parti:  la prima costituita dall’indicazione di ipotesi specifiche di concorrenza sleale (le c.d. “ipotesi nominate”) e precisamente due fattispecie: o

appropriazione di pregi

o

denigrazione

 la seconda parte è costituita da una clausola generale che qualifica come concorrenza sleale una pluralità di comportamenti innominati, caratterizzati dall’essere non conformi ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’altrui azienda. Risulta impossibile enumerare tutti i comportamenti.

16. I principi della correttezza professionale Generalmente, l’individuazione dei principi della correttezza professionale spetta all’interprete, in quanto non esiste un sistema di regole codificato in merito. a) Una prima posizione li indentificava negli usi in senso tecnico, cioè in comportamenti abitualmente praticati negli ambienti interessati; ma questo tipo di interpretazione è stato abbandonato in quanto in realtà queste consuetudini non esistono, e se esistessero sarebbe comunque difficile individuarle. b) Una seconda posizione è quella che fa riferimento ad un “principio etico” universalmente seguito dalla categoria così da diventare costume, quindi da un principio etico che unisca uso e morale; anche questa posizione è stata lentamente abbandonata. L’abbandono di queste tesi è data soprattutto dal bisogno di sottrarre il più possibile le decisioni all’arbitrio del giudice, per avere punti di riferimento il più possibile “oggettivi”, basandosi su regole di natura essenzialmente economica. Ciò, però, comporta un divario tra la morale imprenditoriale e la morale pubblica corrente: sembra perciò corretto ritenere che il giudizio di conformità ai “principi di correttezza professionali” debba avvenire secondo la morale pubblica corrente, e non quella professionale (dell’imprenditore).

17. La oggettivazione dei principi di correttezza La dottrina ha identificato i principi della correttezza professionale in punti oggettivi, basati sullo spirito del tempo, cioè coerenti ed opportuni rispetto alla struttura economica esistente, facendo molta attenzione all’interesse dei consumatori. Il giudizio di correttezza deve essere dato facendo riferimento all’art. 41 Cost.(“L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) e agli interessi in gioco della controversia(in particolare, l’interesse dei consumatori che si identifica con l’utilità sociale dettata dalla norma costituzionale.

18. Il riferimento alla morale corrente

Il giudizio di conformità o difformità rispetto ai principi della correttezza professionale deve essere un giudizio anzitutto di natura morale: ma non di morale professionale, bensì di morale pubblica corrente, quale è espressa dalla collettività dei consociati, di cui il giudice è interprete.

19. Giudizio di correttezza Pare opportuno che il giudice per decidere interpreti la morale corrente, posta in relazione con la tutela del consumatore e della libera concorrenza. Il giudice, dunque, dovrà riferirsi alla morale corrente, temperandola con le scelte legislative, e potrà altresì utilizzare il criterio della maggiore o minore idoneità del comportamento denunciato ai fini della libera concorrenza: in questa prospettiva assume rilievo l’interesse del consumatore. Va, infine, detto che lo strumento valutativo sopra descritto, volto a verificare la conformità o meno dei comportamenti ai principi di correttezza professionale, ha scarso utilizzo, in quanto le fattispecie atipiche di cui all’art. 2598 c.c. sono ormai state tipizzate.

20. L’idoneità a danneggiare l’altrui azienda Il secondo requisito di cui l’art. 2598 n. 3 c.c. subordina la slealtà è l’idoneità di esso per danneggiare l’altrui azienda. L’idoneità dannosa deve essere qualificata, nel senso che deve essere maggiore rispetto alla normale dannosità di un atto dello stesso tipo non scorretto (es.: lo storno di dipendenti potrà qualificarsi illecito solo in quanto capace di arrecare un danno superiore a quello di una corretta assunzione di ex dipendenti del concorrente). Deve anche concernere l'altrui azienda, ovvero qualsiasi danno economico che colpisca l'impresa del concorrente, vale a dire l’imprenditore in ogni aspetto della sua specifica attività. La dannosità può essere sia interna che esterna (clientela): un danno, dunque, che possa riguardare sia gli elementi organizzativi interni dell’impresa, il suo patrimonio tecnologico e più in generale la sua sfera di segretezza, sia la sua immagine esterna, la sua proiezione sul mercato, sia la sua clientela. 21. Danno concorrenziale e potenzialità Il danno fin qui visto si definisce danno concorrenziale: solo le fattispecie idonee a produrre un danno concorrenziale potranno essere qualificate come concorrenza sleale, mentre non potranno esserlo quelle che pure provochino un danno all’imprenditore, ma di tipo diverso, per esempio personale. Si ritiene sufficiente in giurisprudenza la mera idoneità dell’atto a produrre effetti dannosi per il concorrente, indipendentemente dal fatto che il danno si sia verificato o meno: si effettua una valutazione ex ante, cioè prescindendo dalla mancata riuscita di esso. Capitolo 4 - LA CONCORRENZA PER CONFONDIBILITÀ 22. Concorrenza sleale confusoria e Codice della proprietà industriale Il Codice di proprietà industriale si sovrappone, almeno quanto ai diritti protetti, al divieto della concorrenza sleale confusoria di cui all’art. 2958 n. 1 c.c.: infatti, anche la tutela concorrenziale contro la confondibilità presuppone l’esistenza di segni distintivi e di diritti sui medesimi; tuttavia, la disciplina dettata dal c.p.i. è incompleta, e necessita di essere integrata dalla disciplina concorrenziale. 23. Le fattispecie confusorie dell’art. 2958 n. 1 c.c. Secondo l’art. 2598 c.c., compie concorrenza sleale chi "usa nomi o segni distintivi idonei a produrre

confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente"; per questo, si parla abitualmente di “concorrenza sleale confusoria”. Produrre confusione significa creare un falso convincimento nel destinatario che i prodotti o l’attività con cui è venuto in contatto siano di un imprenditore, mentre in realtà devono ricondursi ad un altro. Occorre che vi sia confusione, cioè un falso convincimento nei destinatari circa i prodotti o l'attività, una confusione sull’origine, quindi riguardante la figura dell'imprenditore cui essi vanno ricondotti.

24. Fattispecie confusorie e segni distintivi L’art. 2958 n. 1 c.c. menziona tre specie di atti confusori: 1. l’adozione di nomi o segni distintivi confondibili con quelli di altri; 2. l’imitazione servile di prodotti altrui; 3. è in sostanza una clausola generale, perché si riferisce a qualsiasi altro atto idoneo a creare confusione. Presupposto comune è la riproduzione più o meno puntuale di uno o più segni distintivi. Senza la presenza dei segni distintivi imitati, la possibilità stessa che si dia luogo a confondibilità viene meno. L'imprenditore ha un diritto assoluto sui propri segni distintivi: questi sono tutelati contro l’imitazione confusoria. Si badi che per i segni distintivi diversi dal marchio registrato il codice detta una disciplina parzialmente diversa, specie sul piano sanzionatorio da quella dettata dagli artt. 2598 ss.

25. L'oggetto dei diritti Quali sono le entità capaci di costituire segni distintivi? Essi consistono in qualsiasi entità idonea a caratterizzare un prodotto e distinguerlo dagli altri analoghi di diversa provenienza presenti sul mercato. Dunque questi segni possono consistere in parole, figure, numeri, lettere, suoni, forma di prodotti o della confezione, colori, ecc.. Si fa riferimento a tutti i segni distintivi che possono essere usati nell’attività imprenditoriale, con la sola eccezione dei segni consistenti nella forma tridimensionale del prodotto o della confezione di esso, che vengono in considerazione quando di tratta dell’imitazione servile.

26. La capacità distintiva Perché si determini una possibilità di confusione è anzitutto necessario che il segno imitato sia dotato di capacitò distintiva. La capacità distintiva è l’idoneità a distinguere i prodotti/attività di un imprenditore da quelli analoghi di un altro. La capacità distintiva può mancare in due ipotesi: 

quando il segno è considerato dal pubblico come strutturale del prodotto, il che si verificherà soprattutto quando si tratti di segni costituiti dalla forma del prodotto stesso, ovvero dal suo colore;

quando il segno consiste in denominazione generica o indicazione descrittiva del prodotto contrassegnato (ad esempio la parola “guanti” adottata per contraddistinguere appunto dei guanti). Essendo corrispondente alla percezione che il pubblico ha del segno, il presupposto della capacità distintiva è suscettibile di variazione nel tempo in corrispondenza con la variazione di questa percezione. Ovvero il pubblico ad un certo momento riconosce in esso un segno d...


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