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Title elementi di antropologia critica pompeo 2018
Course Antropologia culturale
Institution Università degli Studi Roma Tre
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Elementi di antropologia critica, Pompeo, 2018. Antropologia Culturale Universita degli Studi Roma Tre 10 pag.

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Elementi di antropologia critica Capitolo1 1,1 L’Antropologia e le sue identità: un lessico iniziale L’antropologia vede la sua istituzionalizzazione alla fine del XIX secolo, come quella disciplina che concorre alla conoscenza scientifica dell’esperienza umana a partire dalla sua diversità. Nel secolo successivo assume la valutazione di tutto ciò che va oltre l’aspetto biologico, come tratto caratterizzante l’umano e suo specifico oggetto di studio. È iniziato con la così detta Età delle scoperte. Il termine “antropologia” segue l’etimologia greca di “discorso sull’umano”. Da una parte ci si è concentrati nella ricerca di leggi universali (approccio nomotetico), mentre dall’altra ci si è dedicati all’analisi delle singole diversità (approccio ideografico). Con Demologia s’intende lo studio delle culture popolari all’interno delle singole realtà nazionali, quella che Cirese definì come analisi dei “dislivelli interni di cultura” ossia quel vasto campo che va dagli studi di Folklore alla Storia delle tradizioni popolari che voleva restituire dignità culturale a quel mondo definito con Gramsci subalterno ed “altro” rispetto alla cultura dominante sul piano nazionale. L’Etnologia rappresenta quegli indirizzi analitici e comparativi dedicati alle differenti realtà etniche studiate decrittivamente, mentre il riferimento all’Antropologia ricomprende gli indirizzi teorici e le principali scuole nazionali. Nel caso dell’Antropologia culturale, di provenienza statunitense, l’attenzione va a linguaggi, valori e rappresentazioni, interessi questi diversamente approfonditi anche dall’Antropologia strutturale francese. Con il termine Etnografia si definisce tanto un insieme di pratiche, ovvero il modo concreto di fare la ricerca sul campo, quanto il loro risultato, ossia la descrizione o meglio la rappresentazione, di recente anche in forma narrativa, della ricerca stessa. L’etnografia come aspetto metodologico dell’antropologia ha trovato storicamente precisazione in quella che Bronislaw Malinowski nel 1922 delimitò come l’osservazione partecipante, il “piantare la tenda al centro del villaggio”: strategia in cui la produzione del dato deriva da una combinazione di prossimità, fino al coinvolgimento emotivo, e da quel distacco che è indispensabile per razionalizzare; tutte condizioni per cogliere dall’interno e nel quotidiano le dinamiche socioculturali. L’osservazione partecipante è stata riletta come quella “magia dell’etnografo” in cui con presunto sguardo incontaminato l’antropologo di inizio secolo si avventurava nella ri-scoperta delle “isole vergini”, cancellando premesse e trascorsi coloniali, per sperimentarsi nei panni degli altri, come neo-nativo. Oggi all’etnografia è attribuito un significato più ampio, come strategia che supera il riferimento esclusivo all’osservazione partecipante per confrontarsi con una molteplicità di fonti.

1,2 Il problema dell’alterità: ripartiamo dalle “Scoperte” Le domande si fondo del percorso antropologico precedono l’istituzionalizzazione della disciplina e vanno ricercate nella così detta Età delle Scoperte. Fino al XVI secolo la terra è stata popolata in maniera discontinua: l’occupazione umana era concentrata solamente in alcune aree caratterizzate da una forte densità. Con il 1492, anno della “scoperta” del continente americano, si inaugura un processo d’integrazione delle diversità in un orizzonte conoscitivo unitario e in una rete di scambi, un primo “sistema-mondo”, fondato su precisi rapporti di dominazione, ovvero sulla supremazia europea e la “planetarizzazione” progressiva della sua cultura rappresentata come l’unica civiltà. Con la scoperta dell’America si è passati da un mondo in cui il pensiero si muoveva “nell’elemento della somiglianza” a un mondo in cui “gli osservatori cominciano a descrivere e, laddove è possibile, a classificare la Differenza”. Lo stupore della diversità: con questa espressione s’intende rappresentare un aspetto dinamico della relazione e dell’incontro con l’assolutamente nuovo.

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L’incontro con lo sconosciuto implica un rischio e determina lo “stupore” come stato di sospensione del giudizio, superamento dei confini della propria identità e confronto con l’altro. Secondo lo storico inglese Michael Camille, l’estetico anestetizza e premette di ricodificare la differenza ponendola fuori dal suo conteso naturale, come segno che romanda ad un’immagine, ad un’altra o a qualcosa d’altro. La meraviglia è una dinamica di assimilazione, incameramento ed inclusione dell’alterità nella nostra visione del mondo. La meraviglia strumentale colombiana è la prima manifestazione della mistificazione dell’esotismo, che è quella visione positiva dell’altro e del diverso, illusoria e dannosa perché ancora una volta proietta una nostra immagine, quello che noi vogliamo vedere, su un’alterità ridotta a schermo del nostro immaginario.

Capitolo 2 2,1 Universalità e relatività degli etnocentrismi Il primo e maggior interprete del travaglio della cultura europea in quel passaggio fu senza dubbio Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) che così ne sintetizza le domande: “Io trovo… che non ci sia nulla di barbaro e di selvaggio in questi popoli, stando a quanto mi hanno raccontato, se non che ciascuno chiama barbarie ciò che non rientra nelle sue abitudini”. Queste considerazioni evidenziano una configurazione ideologica specifica che presupponeva come indiscutibile l’unicità e la superiorità della civilizzazione europea impegnata in un vasto compito di “riscatto e redenzione” delle umanità altre. L’etnocentrismo è definibile come quella visione del pondo per cui il proprio gruppo e il corredo culturale e simbolico ad esso associato, si presentano come “centro dell’universo” rispetto a cui tutti gli altri vengono giudicati e valutati “per differenza”. L’etnocentrismo deve la sua formulazione a William G. Summer, sociologo statunitense, che nel 1906 lo rappresentava come una dinamica universale nella competizione e nella formazione dei gruppi sociali (out-group e in-group). Alfred Kroeber (1952) analizzerà l’etnocentrismo come un atteggiamento di sopravvalutazione o sacralizzazione della cultura d’appartenenza da parte dell’individuo. Per Edmund Leach l’etnocentrismo è fondato su “finzioni d’alto contenuto emotivo” che come autoriferimento sostituiscono all’individuo il Noi del gruppo e sarebbe diffuso in tutte le società umane, come un carattere universale della cultura. Secondo Vittorio Lanternari (1983), invece, l’etnocentrismo, come generico e istintuale bisogno dell’uomo di garantirsi un’identità sociale, in senso generale si collocherebbe tra egocentrismo e antropocentrismo, e si estenderebbe a contesti diversi anche al si là del rifermento alla differenza “etnica”.

2,2 Colonia, schiavitù e razzismo Il fenomeno storico-culturale che nell’espansione europea ha più profondamente determinato visione e pratica delle differenze è stata l’esperienza della Colonia. Vi sono due distinte fasi: quella della Colonizzazione, dal XV al XVIII secolo, e quella del Colonialismo, dal XIX al XX, cui corrispondono due diversi sistemi di sfruttamento. Il processo della colonizzazione, che qui stiamo considerando, si è realizzato nell’orizzonte rigidamente etnocentrico del primato della civiltà europea, a partire dalla religione cattolica. Il nativo americano, come afferma lo storico statunitense Anthony Pagden (1989), venne definito come “l’uomo naturale”, rappresentato insieme come il “selvaggio” l’abitante delle selve di cui temere la presunta irrazionalità. In un secondo momento, l’esplorazione del Pacifico e delle sue società insulari, fece emergere un’immagine alternativa, ma non meno ideologicamente costruita: quella del “buon selvaggio”, subito ripresa dai filosofi preilluministici francesi. L’uso aberrante del concetto di “razza” venne a definirsi, in senso biologico, fra il XVII e il XVIII secolo per indicare una tipologia fisica delle varie specie animali ed umane, fondandosi prevalentemente sulle loro forme e caratteristiche esteriori, tecnicamente il

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così detto fenotipo, considerate ereditarie e da mettere in relazione con comportamento e capacità. Il razzismo, che nella sua pretesa si voleva “scientifico”, nella sua essenza concettuale presupponeva che le differenze e le somiglianze tanto fisiche quanto socioculturali tra le popolazioni umane fossero elementi dipendenti da un repertorio biologico fisso e limitato ad un determinato gruppo.

Capitolo 3 3,1 Cultura e relativismo culturale Il concetto che risponde alle domande sulla diversità umana del processo di colonizzazione senza riferirsi a presunte basi biologiche, è la nozione di Cultura, col principio, ad essa collegato, del Relativismo culturale. Il termine ed il concetto di cultura non nascono con l’antropologia: l’origine è il verbo latino colere, che indica l’attività di lavorare i campi; dal corrispondente sostantivo cultus, “coltivazione”, deriva l’idea e la metafora della cultura come “coltivazione dello spirito”. Il concetto antropologico di cultura nasce da una rottura netta con questo significato definendolo elitario ed esclusivista. Edward Burnett Tylor nel 1871, in pieno clima imperiale vittoriano, affermava che: “la cultura, o civiltà intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo quale membro di una società.” Ha ricompreso nella cultura aspetti inediti come le capacità che qualificano saperi legati a partiche sociali come attività lavorative manuali, “quel saper fare” che ai nostri giorni come artigianalità costituisce valore aggiunto, per molto tempo screditato dalla definizione aristocratica della cultura insieme all’abitudine, ovvero a quanto oggi definiamo comportamenti e forme di vita, come eventi appartenenti a tutte le esperienze umane. Nel dibattito antropologico statunitense, Franz Boas, negli anni ’30, specificava il suo nuovo orientamento scientifico dando nascita all’Antropologia Culturale. J. Clifford: “La definizione antropologica, pluralistica di cultura, emerse come un’alternativa alle classificazioni razziste della diversità umana.” Nel relativismo culturale deriva il principio secondo cui non ci sono universi culturali di per sé migliori o peggiori, ma che ogni diversità è degna di considerazione e conoscenza quale elemento del fenomeno umano, a partire dall’indispensabile superamento di ogni valutazione presupposta e pregiudiziale. Il relativismo culturale è alla base della conoscenza antropologica e forse oggi ha assunto anche un valore universale.

3,2 Eppur (la cultura) si muove… acculturazione, transculturazione e dinamicità Il termine acculturazione è da far risalire a J. W. Powell, un antropologo americano che lo elaborò nel 1880 per definire i processi di transformazione nei modi di vita vissuti dagli immigrati nel contatto con la società statunitense. Si proponeva l’idea di uno scambio che, identificando un datore e un ricevente, rimaneva unilaterale. Nel 1935, il Social Science Research Council nominò un comitato composto da Robert Redfield, Ralph Linton e Melville Herskovits con il compito di “studiare il significato del termine ‘acculturazione’ ed esplorare nuove direzioni per le indagini future”. I primi risultati portarono nel 1936 alla pubblicazione del Memorandum per lo studio dell’acculturazione. Prendeva le distanze dalle prospettive di studio dedicate a mutamento culturale, assimilazione e diffusione, presentando una sintesi sui “risultati dell’acculturazione”: A. Accettazione: il processo di acculturazione si conclude con l’assimilazione della parte

maggiore di un’altra cultura e la perdita della massima parte del patrimonio culturale precedente; l’acquisizione da parte dei membri del gruppo accettante e l’interiorizzazione

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non solo dei modelli di comportamento ma anche dei valori intimi della cultura con cui sono venuti a contatto. B. Adattamento: i tratti originari e quelli stranieri si combinano in modo tale da produrre un

complesso culturale operante senza intralci; la ristrutturazione dei modelli delle due culture in una unità armoniosa dotata di significato per le persone alle quali si riferisce. C. Reazione: a causa dell’oppressione o delle conseguenze impreviste dell’accettazione di tratti

stranieri sorgono dei movimenti contrari all’acculturazione. Il vocabolo transculturazione esprime meglio le differenti fasi del processo transitivo da una cultura all’altra, poiché questo non consiste semplicemente nell’acquisizione di una distinta cultura, che è quello che di rigore indica la voce angloamericana acculturazione, bensì il processo indica necessariamente la perdita di una cultura precedente, che potrebbe definirsi come una parziale deculturazione nonché la conseguente creazione di nuovi fenomeni culturali che potrebbero dirsi di neo-culturazione.

Capitolo 4 4,1 L’etnia come categoria storica della dominazione Il termine ethnos deriva dalla Grecia classica dove era utilizzato, in opposizione a polis, per indicare i greci al di fuori dell’appartenenza alla città stato. Il riferimento all’etnico assunse il senso generico di “non cristiani” e “pagani”. L’etnia conserverà una connotazione difettiva, come configurazione che presenta tratti di omogeneità culturale, ma che non possiede analoghe forme di coordinamento e regolazione sul piano sociopolitico. Il riferimento all’etnico, in senso moderno, compare alla fine del Settecento in Germania. La prima menzione è con il termine Ethnofrapisch introdotto dallo storico August Ludwig von Schlozer nel 1772, per definire un metodo che, ispirato alla classificazione delle specie di Linneo, proponeva lo studio della storia dei popoli come individualità coerenti e distinte, nel più vasto disegno della storia universale. Se nella dimensione nazionale, quando l’etnia siamo noi, il termine esprimeva quella che con Hertzfeld (2003) possiamo definire come una forma di intimità culturale; nel contesto coloniale, quando l’etnia sono gli altri, lo stesso concetto serviva a istituire un’estraneità radicale, un regime di alterità assoluta, quella dei selvaggi e primitivi cui indirizzare la missione civilizzatrice.

4,2 La decolonizzazione e l’etnicità La decolonizzazione fu quell’ampia “rivoluzione delle aspettative” che, negli anni ’50, mise definitivamente in crisi il dispositivo di dominio del colonialismo.

Capitolo 5 5,1 La globalizzazione: pubblicità al futuro e nuovo (dis)-ordine mondiale I concetti di globalizzazione e mondializzazione sono emersi agli inizi degli anni ’90 per definire i nuovi assetti internazionali che hanno fatto seguito alla fine della logica dei blocchi. Possiamo definire come primo aspetto specificamente legato al concetto di globalizzazione il suo rapporto con la temporalità, ovvero la straordinaria enfasi sulla novità assoluta, sul cambiamento epocale che ne ha accompagnato e sostenuto la diffusione. La globalizzazione è stata presentata in qualche modo facendo la pubblicità del futuro. Le ragioni del suo “successo” sono nel fatto che insieme è

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stata coscienza e descrizione di un processo di cambiamento multidimensionale che scardinava tradizionali gerarchie di fattori. Proviamo a schematizzarlo attraverso tre “i”: un’internazionalizzazione potenzialmente illimitata di scambi, mercati e comunicazioni che, tecnologicamente assistita, ha assunto la forma di un’interconnessione sincronica, la quale ha determinato interdipendenze inedite, tali da mettere in discussione l’assetto e il principio di razionalità politica degli stati nazionali. Quella che si sarebbe venuta determinando è una “compressione spazio-temporale”, secondo l’efficace formulazione proposta da David Harvey (1990), cioè una contrazione degli orizzonti su scala planetaria, in una società globale dell’informazione come luogo della trasparenza e dell’uguaglianza delle opportunità. Introduciamo la distinzione fondamentale avanzata da Beck (1997) tra globalità, globalizzazione e globalismo. Il primo termine intende lo stato presente del mondo tecnologicamente interconnesso, attraversato da flussi commerciali, turistici, finanziari ecc. Il secondo descrive il processo attivo di interconnessione in continuo avanzamento, con forme e realtà inedite che occorre definire. L’ultimo identifica l’aspetto di interpretazione e di costruzione di una ideo-logica delle trasformazioni in atto. La globalizzazione si è caratterizzata in primo luogo come un abnorme sviluppo del flusso finanziario internazionale che, sfruttando le dinamiche dei mercati, ha trasferito quote crescenti di ricchezza dal profitto alla rendita, trasferendo in questa logica anche i bilanci “pubblici” di stati “sovrani”, con manovre spericolate in titoli e azioni che hanno lucrato su rialzi borsistici irrazionali.

5,2 Scenari antropologici globali: flusso e mondi locali Il punto di partenza dell’antropologia che ha scelto di confrontarsi con i presenti multipli della globalizzazione è il riconoscimento che la contemporaneità non è riconducibile a modelli semplicistici. Quest’assunzione traduce una diversa visione, plurale e articolata, della realtà, che Hannerz ricostruisce così: “Le culture complesse del nostro tempo sono molto visibilmente in stato di flusso, e considerarle ‘processi’ è almeno altrettanto naturale che considerarle ‘strutture’. Sono determinate dal cambiamento nel microtempo e nel macrotempo. C’è una distribuzione differenziata non solo dei significati e delle loro forme manifeste, ma anche dei tipi di processi culturali. La vitalità di queste culture dipende molto dal modo in cui lacune, sovrapposizioni, contraddizioni, disparità di intensità nella gestione culturale, vengono inserite in modelli ricorrenti, e qui rielaborate.” Le logiche culturali e le dinamiche culturali della mondializzazione si dispiegano attraverso diverse articolazioni spazio-temporali, con differenti modalità di interazione e mediazione, per ridisegnare i gruppi, i singoli e i loro reciproci rapporti, fuori e dentro i tradizionali ambiti nazionali. L’antropologia multi-situata si rivela come la prospettiva di ricerca più feconda e creativa degli ultimi anni, per un ampio ambito di ricerche: dallo studio del transazionalismo delle migrazioni, fino a quello dei fenomeni di connessione e traduzione culturale (Amselle, 2001). Essa contribuisce a restituire un quadro di esperienze inedite di relazione, evidenziando nuove interdipendenze e gerarchie in cui entrano in gioco una molteplicità di aspetti che oggi si fondano anche sull’ineguale distribuzione di capitali culturali. La pervasività dei media, insieme alle migrazioni di massa o alla produzione globale dei linguaggi e delle tecnologie, contribuiscono tutti fattori che determinano esperienze inedite dell’identità e della cultura, in primo luogo nella produzione di nuovi ambiti dell’immaginazione. L’antropologo statunitense Arjun Appadurai (1996), analizzando il relativo disancoramento della produzione di valori, simboli e identità del legame con i territori e con i confini delle diverse realtà nazionali, ha individuato come aspetto saliente dei flussi culturali nell’economia del sistema-mondo globale, la configurazione di almeno cinque nuovi scenari, letteralmente landscapes ovvero panorami: a. Etnorami (ethnoscapes);

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b. Mediorami ( mediascapes); c. Tecnorami ( technoscapes); d. Finanziorami (financescapes ); e. Ideorami (ideoscapes).

Si propongono all’attore sociale come elementi primi di combinazioni in rapporto a cui egli struttura attivamente ( agency) la ...


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