Embodiment and Experience, appunti da Csordas PDF

Title Embodiment and Experience, appunti da Csordas
Author Edilberto Sacchi
Course Antropologia culturale
Institution Sapienza - Università di Roma
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Appunti dal testo sull'incorporazione di Thomas Csordas, ancora non edito in lingua italiana...


Description

EMBODIMENT AND EXPERIENCE (appunti da “Embodimend and Experience”, curato da Thomas Csordas) I gruppi umani pensano che le proprie concezioni del corpo, l’uso che essi fanno del corpo siano ovvi, parti dell’ordine naturale e non convenzioni sociali. La riflessione antropologica ha da tempo evidenziato invece che le rappresentazioni e le pratiche relative ai corpi sono culturali e sociali, simboliche e in gran misura arbitrarie rispetto alla natura, eppure coerenti con altre rappresentazioni, come la cosmologia, le idee sulla natura, la religione, il sistema delle relazioni sociali e di potere. Il corpo può essere dunque visto come  sorgente, materia prima di simboli e significati di una società (legami di sangue, sperma, sangue mestruale)  utensile e strumento dell’uomo, per Marcel Mauss il primo e più naturale  luogo di manipolazioni simboliche, di manifestazione ed espressione di simboli e rappresentazioni collettive (antropopoiesi).  protagonista di linguaggi silenziosi, dalla cinesica alla prossemica Il corpo non è tuttavia solo uno strumento di iscrizione del modello culturale e sociale, è soprattutto luogo dell’esperienza personale e strumento di resistenza personale, di creatività, invenzione e lotta sociale: gli esseri umani fanno esperienza del mondo attraverso il corpo, sentono, comunicano, percepiscono, desiderano innanzi tutto attraverso il corpo. L’esperienza del corpo che sono è il corpo vissuto dal soggetto, la rappresentazione del corpo che ho fa riferimento al corpo come viene razionalizzato, pensato, descritto, raccontato, nei diversi contesti culturali, compreso quello delle scienze mediche. L’esperienza corporea si configura come un discorso del corpo, mentre la rappresentazione è un discorso sul corpo. L’antropologia sviluppa oggi un approccio diretto e fortemente improntato all’osservazione fenomenologica rispetto al corpo, reputando superate le precedenti prospettive di studio che guardavano al corpo umano in chiave fondamentalmente analitica. Ne venivano osservate le percezioni, le pratiche, l’anatomia e aspetti come le rappresentazioni di genere, i rapporti di dominazione, le pratiche curative, rituali e le modalità in cui il corpo utilizza e si integra con strumenti di lavoro e tecnologie. Il corpo è più della mera somma di questi aspetti, è il nostro modo di conoscere, agire e stare nel mondo, agente unico della nostra esperienza, il terreno esistenziale della cultura e del sé: il corpo possiede ed esprime una storia come fenomeno culturale ed entità biologica. Come bene illustrano gli scritti di Merleau Ponty, è attraverso il corpo che l’individuo fa esperienza del mondo, attraverso le sue funzioni motoree e spaziali, la sua lingua, la gestualità, la mimica, la vista, il tatto e così via. Ciò che d’altronde fa di fatto tale una famiglia è il suo stare insieme, il dormire e il mangiare sotto lo stesso tetto, sono carezze e scappellotti: tutte attività corporee. Siamo corpi che, nell’agire con i nostri simili, si attivano prevalentemente attraverso le emozioni, orientate da pratiche e principi di tipo culturale: le emozioni sono socialmente efficaci e producono conseguenze relazionali, guidano e preparano l’organismo per l’azione sociale, generano relazioni attive. Elias analizza in proposito l’evoluzione sociale delle funzioni naturali del corpo (mangiare, relazionarsi al sesso opposto, espettorare), evidenziando il mutamento concomitante e coerente tra le emozioni condizionanti di vergogna e imbarazzo e le loro manifestazioni comportamentali. Si parla in tal senso di incorporazione (embodiment), suggerendo così una prospettiva capace di ripensare la natura della cultura e la nostra situazione esistenziale come esseri culturali. Maurice Leenhardt, antropologo missionario, autore di studi sulla Nuova Caledonia, racconta in merito un episodio particolarmente illuminante, in cui, a confronto con un anziano saggio locale, avrebbe suggerito come responsabilità degli Europei l’introduzione della nozione di spirito nel modo di pensare locale, raccogliendo una risposta tutt’altro che prevedibile: “Noi abbiamo sempre agito in accordo

con lo spirito. Ciò che ci avete portato voi è il corpo.” Ed è infatti la concettualizzazione del corpo, e non dello spirito, a provocarne l’oggettificazione, i nostri corpi non sono di fatto originariamente avvertiti come oggetti, non vivono di esistenza propria, né possiamo definirli come meri supporti nell’esperienza della vita quotidiana, essi sono piuttosto il terreno dei nostri processi percettivi. Tuttavia, quando l’idea del corpo diventa esplicita e definita al nostro immaginario, inevitabilmente viene a delinearsi una discriminazione tra corpo e mondo mistico. Il corpo è dunque una fonte di soggettività, la mente il locus dell’oggettificazione. Il filosofo tedesco Hermann Schmitz evidenzia come la soggettività sia intimamente legata alla dimensione corporea dell’afflizione affettiva: perché qualcosa diventi davvero mio, ciò che viene comunicato deve “toccarmi”, “colpirmi” e sarà acquisito e riconosciuto fino in fondo come proprio quando “mi chiude la gola”, “mi preme sul petto”, “ho lo stomaco in subbuglio” o “mi batte forte il cuore”. Allo stesso modo, il filosofo Max Scheler descrive la concezione occidentale della mente come qualcosa che sta di fronte alla vita, dotato di un’indipendenza totale da ogni parametro organico. In tal senso l’uomo si presenta come l’unico animale capace di opporsi a sé stesso, negarsi, mettere limiti alle sue stesse forze vitali e farsi oggetto di puro pensiero: liberatasi dalla vita, la mente oggettifica il suo mondo. Scheler non interpreta l’opposizione tra vita e mente inconciliabile, d’altronde, è la vita stessa a rendere la mente potenzialmente attiva, ma le interpreta legate insieme dalla sublimazione che definisce “ideazione della vita”. Nelle narrazioni delle culture occidentali tardocapitaliste, i temi legati al corpo occupano un ruolo preminente: dall’essere oggetto e soggetto di seduzione per l’adv a campo di conflitto per la lotta di diritti legati alla riproduzione, alla cultura di genere o alla cura della salute, fino alle questioni del fin di vita, da testimonianza della violenza torturatrice di svariati regimi politici a campo di sperimentazione e alterazione delle più sofisticate tecnologie genetiche, chirurgiche ed estetiche. Il consumismo alimenta e orienta inoltre un campo sociale in cui il consumatore è chiamato a produrre e a realizzare la propria identità, facendo di bellezza, magrezza e aspetto fisico forme e valori connessi a criteri di classe e di status. Il risultato è un corpo individualizzato, che sembra di fatto accantonare il proprio ruolo relazionale, e dematerializzato, idealizzato, psicologizzato, concettualizzato fino alla manipolazione. La rivolta sessantottina sostituisce i soggetti collettivi di classe o Nazione con quelli individuali, per i quali vengono richieste libertà personali, da quelle sessuali a quelle relazionali (l’apparato di regole più o meno codificate che vanno dai rigidi sistemi di rispetto generazionale alla rivendicazione di diritti come il divorzio), dalla possibilità di esprimersi liberamente attraverso il proprio aspetto alla pretesa di un’apertura degli spazi politici per le generazioni più giovani. Se da un lato si diffonde la percezione d’apertura di una libertà sociale e culturale che abbatte le rigidità del patriarcato tradizionale, con le sue forme storiche di dominio sessuale, politico ed economico, dall’altro, pur richiamandosi spesso a valori di sinistra, la natura di queste rivendicazioni manifesta di fatto una natura altamente soggettiva ed egoistica e rappresenta il primo passo per la sostituzione della rappresentazione di “soggetto” politico con quella di “corpo” individuale, considerato, e spesso provocatoriamente presentato, come antitetico alle austere e astratte strutture intellettuali della gerarchia sociale dei padri. Con l’avanzare inesorabile della crisi delle istituzioni sociopolitiche, conseguente alla concentrazione transnazionale dei poteri e ai nuovi valori tardocapitalisti, che ridiscutendo la relazione della coscienza individuale con la realtà sociale e ridefinendo il valore dell’azione politica, su cui l’Occidente ha fondato la sua storia contemporanea, il concetto di “soggetto”, agente capace di critica e azioni dirette, cede sempre più il passo a quello di “corpo”, luogo simbolico di rappresentazione e, in tal senso, entità astratta e passiva, concettuale e semiotica. All’azione del soggetto politico subentra la resistenza verso entità sempre più astratte, come il patriarcato, i poteri finanziari, l’UE. I discorsi sul corpo, concentrandosi generalmente su rappresentazioni concettuali e linguistiche che finiscono con il trascurare realtà fisiche e oggettive. Questo determina di fatto la passivizzazione del corpo, che, privato dei propri istinti affermativi, viene ridotto a oggetto inattivo di diversi livelli di rappresentazione e resistenza. L’individualizzazione dei corpi promette precisi premi culturali, l’autonomia e l’indipendenza. Al contempo, Mike Featherstone si interroga se, idealizzato e manipolato perché possa ricercare specifici modelli culturali, il corpo occidentale sia individuato o oggettificato, personale o alienato. Lo studioso racconta come, a partire dagli anni ’20 del

‘900, con la diffusione del cinema e dell’adv, bellezza e giovinezza abbiano fatto del corpo non più solo un veicolo di esperienza ma il campo di un nuovo livello di espressione del Sé: il corpo diventa oggetto di scambio, può incrementare il proprio valore e ottenere vantaggi relazionali e professionali. Il corpo del lavoratore, in concomitanza con la progressiva diminuzione dei lavori manuali e l’affidamento di buona parte di quelli ancora necessari a migranti e occupanti i margini delle società, sparisce gradualmente dall’immaginario collettivo, anche solo come alternativa concettuale. Oggi nella società americana l’utilizzo del corpo come presentazione e vetrina del Sé assume una particolare accettabilità morale, coerente con i valori meritocratici e competitivi delle culture tardocapitaliste: la cura e i risultati raggiunti attraverso l’aspetto esteriore comportano un aumento di valore del Sé e la coltivazione di corpi di successo, allenati, disciplinati, manipolati, concettualizza il corpo come un costante work in progress. Il Sé opera sul corpo, scegliendo da un preciso repertorio di simboli, ed è percepito come indulgente, se si manifesta con peso in eccesso, o disciplinato, se sfoggia una buona massa muscolare: l’obiettivo non è tanto raggiungere o meno un determinato ideale, quanto essere presente e attivo nel processo di “body-making”. In questo senso il corpo individualizzato, dematerializzato e passivizzato delle culture occidentali incarna di fatto i valori più profondi della cultura in cui si muove, respira, si nutre, cresce, impara, desidera, lotta. La magrezza non è ovviamente un valore estetico per la gran parte delle popolazioni native: Malinowsky racconta come tra i Trobriandesi il commento più degradante tra i locali fosse “affamato!”. Tra Kenioti e Britannici, ad esempio, il peso corporeo acquisisce significati opposti, collegando i primi la figura tornita a una condizione di benessere e salute nutrizionale, mentre tra i Tonga e Samoa del Sud Pacifico la carenza di cibo rende l’aumento di peso non solo un elemento di vanto estetico, ma di prestigio sociale. Tuttavia è soprattutto la visione del corpo come, coltivazione e rappresentazione pubblica del Sé e del suo valore, a non essere universale. Nelle isole Fijii l’ottenimento di una forma ideale è completamente avulso dalla coltivazione del proprio corpo come proiezione pubblica del proprio Sé. Ancora Leenhardt racconta come i Melanesiani siano “attaccati con ogni fibra del loro essere al loro esser parte di un gruppo”: la persona è primariamente collocata nelle relazioni sociali, nella polarità tra individuazione e comunione, l’autoconsapevolezza è definita sostanzialmente dal loro esser parte di una comunità. Qui “l’umano si estende oltre l’immagine fisica dell’uomo”. L’idea di cura reciproca si declina in diverse tipologie di attitudini e gesti concreti, come il “viqwaravi” , il rivolgere attenzione alle necessità altrui, soprattutto nell’offrire e condividere cibo, il “vikawaitaki”, il mostrare interesse e attenzione per il benessere altrui, il “vilomani”, l’avere empatia e coinvolgimento nei problemi, nella crescita e nel successo del prossimo. In un quadro di questo tipo, il posizionamento relazionale del soggetto è ben rappresentato da quanto la sua forma sia curata o in stato di abbandono e la prima forma di concretizzazione della cura e del coinvolgimento del gruppo è proprio nell’aspetto dei corpi. Gli effetti cumulativi dell’attenzione e dell’interesse del gruppo sono manifesti nelle morfologie dei suoi membri: ciascun corpo è in capo alle responsabilità di nutrimento e attenzione del gruppo di cui è parte e, conseguentemente, il suo aspetto mostra il lavoro della comunità piuttosto che quello del Sé. La forma del corpo non si limita a suggerire abilità e qualità personali, ma prima di tutto marca la connessione di ciascuno alla propria rete sociale e riflette il potere che quest’ultima ha di nutrire (in questo è emblematica la devozione per la cura del corpo del capo). La condivisione di cibo è un vero e proprio imperativo morale ed è su questo che si regge la vita delle households, in cui è fortissima la preoccupazione che il cibo sia in abbondanza, perché possa essere offerto: “Se il cibo finisse … - commenta un’autoctona – questo ci farebbe vergognare”. Al momento dei pasti, porte e finestre vengo spalancate al suono di inviti come “Venite a consumare il pranzo da noi”, “C’è cassava qui!”, “Entrate a mangiare”, per poi integrare con sollecitazioni come “Mangia, mangia in abbondanza!”, “C’è ancora cibo qui”, “Continua, così che possa diventare bello ciotto”, “Non hai mangiato abbastanza”. Pur non trovando assolutamente i fijiiani l’obesità attraente (il loro linguaggio degli insulti rivela avversione sia per la magrezza che per l’eccessiva grassezza e una netta preferenza per una forma robusta), l’idea della magrezza è considerata un’onta sociale del gruppo. Così gli abitanti delle isole Fijii parlano di Macake, una vera e propria sindrome culturale che ha come sintomo la mancanza di appetito; i sintomi riportati sono una forma infiammatoria della bocca (gengive dolenti, patina bianca sulla lingua,

dolore alla mucosa orale), febbre e naso chiuso e, appunto, mancanza di appetito e perdita di peso, la cui cura è il dranu, una forma di terapia sociale che istituzionalizza la vigilanza collettiva sulla salute alimentare del singolo. Ancora una volta, l’identità che si concretizza nello spazio anatomico è dunque sociale e non personale. Nella medicina cinese la mente è posizionata all’interno del cuore (xin), considerato il più importante degli organi interni, sede della cognizione e delle virtù; l’armonia tra cuore e mente può tuttavia essere minacciata dalle sette emozioni (qi qing: gioia, tristezza, rabbia, preoccupazione, lutto, paura e spavento), cambiando il corpo attraverso l’alterazione degli organi loro corrispondenti. Le emozioni sono così fortemente stigmatizzate, sia nella loro intima natura che nelle manifestazioni comportamentali, poiché considerate forze esterne che modificano e feriscono l’interiorità dell’uomo, dunque antitetiche al Tao, la ‘strada per eccellenza’, la legge secondo cui si attua l'universo. L’uomo è chiamato a coltivare la calma, restare immune dalle sollecitazioni esterne, percorrendo la propria interiorità, la deità o luce che porta nel corpo, attraverso la visualizzazione della mente. La visione cinese si oppone dunque a quella occidentale, che considera le emozioni come pensieri “sentiti” nella carne, pulsazioni, movimenti di cuore, fegato, pelle, stomaco. Il monaco cattolico mortifica la propria carne peccaminosa, quello taoista cerca l’immortalità liberando la carne dalle emozioni, facendo in tal senso proprio del corpo il punto fondamentale della propria ricerca spirituale dell’eterno. In comune entrambi hanno tuttavia la priorità del concetto di dominio. Un caso particolarmente emblematico è quello del crane-qigong. Il Qigong è una tecnica che, dopo essere stata a lungo confinata nei soli monasteri buddisti, viene introdotta in ospedali e cliniche cinesi a partire dagli anni ’50 e ’60 del ‘900, raggiungendo subito, nonostante la dura opposizione della medicina tradizionale, un livello di richiesta tale da superare le tecniche più ufficiali, come l’agopuntura. Con la Rivoluzione Culturale Proletaria, viene tacciata di essere pura superstizione e bandita, fino a riesplodere in modo spontaneo, soprattutto tra gruppi che la praticano in parchi e luoghi pubblici sotto la guida di maestri, negli anni ’80 e ’90, facendone secondo il magazine di Hong Kong “Contemporary”: “la seconda forza dopo il Partito Comunista”. Il Qi, principio del soffio vitale, come il greco pneuma o l’indiano prana, denota al contempo l’aria che inaliamo e le forze corporee, sia in senso energetico che emozionale, da cui è animato il nostro essere: l’aria diventa forza generatrice di vita e respiro cosmico. Negli esercizi di qigong, l’adepto lascia che la forza della mente (yi) guidi il suo qi con l’aiuto di precisi movimenti e tecniche respiratorie. Negli anni ’80 vengono a crearsi nuove forme come il cranequigong, che guadagnano ancora più diffusione: dopo cinque set di movimenti lenti e gentili, che ricordano l’ondeggiare delle canne, si esegue il set definito “il palo immobile”, in cui è previsto il raggiungimento del massimo della calma e dell’armonia. In questo stadio, tuttavia, dopo una prima immobilità, gli adepti cominciano a emettere suoni e a liberare movimenti che portano frequentemente i praticanti a scuotere l’intero corpo, saltare, colpirsi e gettarsi in terra, massaggiare punti precisi, urlare, piangere, rotolarsi, ridere, toccare e abbracciare gli altri. In particolare questa pratica genera negli anni ’80 un vero e proprio movimento spontaneo, il cui attacco da parte dell’intellighenzia cinese diventa così forte da diventare un caso nel dibattito nazionale. Il crane-qigong e le pratiche del qigong “dei movimenti spontanei” tradiscono l’assunto tradizionale di stabilità e calma, portato dal controllo emotivo della mente, come esplicitamente scritto nelle comunicazioni del Ministero della Salute. È proprio alla tradizione taoista, invece, che si appellano sostenitori, illustrando come, fluendo, il qi generi naturalmente movimento o come, secondo i principi di yin e yang, l’estremo rilassamento non possa che evolvere in movimento o, ancora, come il movimento incontrollato non sia altro che la reazzione all’incontro di un blocco energetico da parte del qi. Dopo le iniziali e reiterate conferme, da parte dei praticanti, di quanto pubblicamente accettabile (la pratica cura i malesseri e i movimenti avvengono spontaneamente), la ricerca di campo si imbatte inizialmente nelle prime aperture di qualche adepto, poi nella lettura di lettere scritte privatamente a un maestro, in cui emerge lo spessore emozionale e catartico dei movimenti e quanto le emozioni siano ordinariamente percepite come soppresse e “ringoiate”, causando sensazioni di oppressione, blocchi e contratture. Stando alle parole di uno degli informatori: “I movimenti non seguono più il pensiero; sono invece immagini e pensiero a svilupparsi dai movimenti e a essere guidati da loro.” Lo spirito di communitas, d’altronde, secondo Turner, possiede

elementi intrinsecamente speculativi, è associabile al potere mistico e predisponente la generazione di immaginario e concetti filosofici. Molta responsabilità è assegnata alla Rivoluzione e in generale alla fase tra gli anni ’70 e ’80, in cui la confusione politica interna genera un senso di timore generalizzato, non si sa chi combatta contro chi, inducendo alla limitazione di ogni azione di carattere personale perché reputata rischiosa. In quegli anni la pratica viene costantemente repressa dalle forze pubbliche, che tuttavia non riescono a ottenere altro che sospensioni temporanee. Mary Douglas sostiene che le esperienze corporee vengano silenziate quando si è in presenza di una struttura sociale forte: “Rileviamo una timorosa percezione di pericolo legata a esperie...


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