Fare pace. La diplomazia di sant\'Egidio. Parte introduttiva PDF

Title Fare pace. La diplomazia di sant\'Egidio. Parte introduttiva
Course Welfare, diritti sociali e territorio
Institution Università degli Studi Roma Tre
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Introduzione del libro Fare Pace Roberto Morozzo Della Rocca...


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FARE PACE – LA DIPLOMAZIA DI SANT’EGIDIO

INTRODUZIONE. Sant’Egidio è una comunità cristiana, nata a Roma nel 1968, famosa per il suo lavoro con i più poveri e in situazioni di grave povertà nel mondo. Con gli anni poi è divenuta una fraternità di comunità, radicate in vari paesi del mondo. C’è chi ha inteso l’azione di Sant’Egidio per la pace come quella di un braccio laico della Santa Sede, che agiva laddove la Chiesa non poteva e non voleva operare direttamente. In realtà Sant’Egidio non ha mai compiuto interventi di pace su indicazione della Chiesa. Esso è quindi un soggetto internazionale che agisce su differenti quadranti del mondo, anche molto lontani da Roma. E’ presente in circa un settantina di paesi del mondo. Opera per i poveri nelle società del Nord. In questa prospettiva negli ultimi anni, ha molto investito per la cura dei malati di AIDS in Africa, arrivando a 350 mila persone prese in carico. La comunità di Sant’Egidio è stata anche al cuore di varie iniziative di incontro tra religioni e tra credenti e laici. In particolare, dopo la grande preghiera per la pace ad Assisi nel 1986, voluta da Giovanni Paolo II, la Comunità ha organizzato in vari paesi del mondo, annualmente, incontri tra leader delle varie religioni e delle Chiese cristiane, nella consapevolezza che le religioni possono essere sostegni decisivi per la pace, ma anche elementi di sacralizzazione della guerra. Lo spirito di Assisi si è allargato anche al colloquio tra credenti e umanisti laici. Negli anni Novanta e soprattutto dopo l’11 settembre 2001, questa ricerca del dialogo è potuta apparire ingenua, in un mondo che sembrava destinato allo scontro di civiltà e di religione. La guerra, quella culturale ma anche quella combattuta, appariva una dolorosa necessità, quasi un destino insito nella storia di alcuni paesi e civiltà. SPERANZA DI PACE E REALISMO DI AZIONI. Sant’Egidio, nonostante abbia caratteristiche originali nello scenario dei rapporti internazionali, è un soggetto riconosciuto nel mondo, tanto che politici e diplomatici di vari paesi lo considerano, lo visitano e lo contattano. Una trentina di paesi hanno stretto accordi di sede con la Comunità per facilitarne l’azione. Gli strumenti della diplomazia della Comunità sono efficaci, elastici ma non contano su leve finanziarie o militari. L’introduzione di un sistema di pagamento alle parti che negoziano ha prodotto in alcuni conflitti un effetto perverso: l’allungamento dei tempi delle trattative. La serietà delle imprese di pace sta nel fatto che un processo negoziale deve far maturare nelle parti la volontà di accordo. Per questo è necessario tempo e pazienza. Spesso il tempo dei negoziati e della loro maturazione significa che la guerra prosegue e vite umane vengono consumate. Gli strumenti semplici del contatto umano o del ragionamento politico si radicano in una legittimazione morale molto forte, che non è solo quella personale della gente di Sant’Egidio: è la legittimazione dei popoli che vogliono la pace e la vogliono presto. La comunità sente la forte domanda di pace della gente, che spesso quasi non riesce ad esprimersi e non trova i suoi interpreti. Così è stato nel Mozambico, un successo di pace che ha fatto conoscere Sant’Egidio nel mondo internazionale. Il popolo mozambicano, stanco di una guerra che aveva un milione di morti e distrutto il paese, voleva la pace, anche se governo e Renamo continuavano a combattere. Lo dimostra il fatto che, dopo la firma della pace, nel 1922, non ci furono vendette tra le due parti e tra la gente, nonostante i dolori e i torti accumulati in sedici anni di conflitto. Ci sono però alcuni blocchi che impediscono a questa volontà di pace di affermarsi. Sono storie di 1

classi politiche divise e invelenite, di abissi e risentimenti scavati dalla lotta armata. In questo quadro l’intervento esterno può forzare i blocchi e far prevalere la pace. Il blocco è politico ma spesso anche culturale e di prospettiva. La possibilità della pace comincia ad essere intravista quando nasce il contatto umano tra le parti che porta al dialogo. Così matura una visione nuova del proprio futuro e di quello del paese: che la pace è possibile e che l’altro non può essere demonizzato. Ogni lotta armata si nutre della demonizzazione dell’altro. Se l’altro non può essere distrutto, almeno va marginalizzato, condannato. Ma il processo di pace procede in tutt’altro senso: quello dell’accordo, del compromesso, della scelta di vivere insieme pacificamente. Questo richiede una trasformazione della visione dell’altro. La fiducia ovviamente non sboccia in maniera spontanea ed immediata. Con il dialogo si riduce l’odio, ci si conosce di più. Al tempo stesso c’è bisogno di costruire un’architettura del futuro comune che sia convincente. E’ necessario costruire un quadro politico per il futuro, che dia garanzie di sopravvivenza. Le garanzie sono decisive, anche perché chi combatte è sempre tentato da un fare pace che tenga aperta la possibilità di un nuovo ricorso alle armi qualora si sentisse penalizzato. Le garanzie vogliono condurre a una corretta prassi democratica, in cui le opinioni, la libertà e la vita di tutti siano protette. In alcuni casi i conflitti sono motivati ideologicamente. Oggi si ritrovano meno le motivazioni ideologiche dei conflitti, mentre si affermano quelle religiose, islamiche, ma anche fondamentaliste cristiane come nella Lord’s Resistance Army dell’ugandese Joseph Kony. L’azione di Sant’Egidio manifesta la convinzione che l’intervento dello Stato nell’azione internazionale resta decisivo. Molto spesso i conflitti nascono dall’incapacità dello Stato di farsi carico delle domande di sicurezza, di partecipazione, di benessere della popolazione. In Costa d’Avorio Sant’Egidio ha partecipato alla riconciliazione a fianco dei governi africani. Sant’Egidio ha inoltre costantemente sollecitato l’intervento dei governi in alcune situazioni di tensione. Se una realtà come la Comunità può avere capacità proprie di intervento, questo non significa che il campo della pace e della guerra non debba vedere la responsabilizzazione degli Stati. Del resto, essa è priva di alcune forze che caratterizzano gli interventi governativi. Le mancano la forza economica e quella militare. C’è un fattore umano che è determinante nella decisione di pace e di guerra. E’ l’uomo che decide, spesso un uomo solo o un gruppo ristretto. Bisogna allora stabilire un contatto umano, allargare gli orizzonti politici e culturali di un leader o di un gruppo dirigente. La forza debole del dialogo, dell’amicizia, diventa necessaria. E la potenza insita in questa forza è di non avere nessun altro interesse, né politico, né economico, se non il raggiungimento della pace. Spesso la svolta nei processi di pace avviene con il mutuo riconoscimento delle parti in lotta come componenti della vita nazionale. L’altro non è più solo il nemico da distruggere, ma una parte da integrare nel futuro del paese, e unicamente così si può ottenere la pace. Molto divide chi si combatte: azioni gravi, vere o presunte, un clima di violenza che ha generato atti deprecabili ecc. Non è mai una coscienza facile all’interno dei quadri nazionali da lungo tempo polarizzati, quando pure si ha una storia comune e non si può prescindere da un futuro comune. Le varie situazioni sono molto differenti tra di loro, non paragonabili. La soluzione della giustizia internazionale è altra cosa rispetto alla pacificazione e ai processi di mediazione. La via più realistica e aperta alla pace sta nell’accettare un futuro comune insieme. Secondo Papa Giovanni XXIII bisogna “ cercare quello che unisce e mette da parte ciò che divide. Quello che unisce può essere l’appartenenza ad una famiglia nazionale oppure la comune umanità, ma spesso sono anche aspetti minori della biografia degli uomini che si combattono. La guerra è invece l’affermazione che non c’è nulla in comune. La guerra diventa la pratica sanguinosa della divisione a tutti i livelli. 2

Sant’Egidio ha mosso i suoi primi passi negli scenari internazionali agli inizi degli anni Ottanta, dapprima conoscendo la situazione politica del Mozambico, poi interessandosi alla guerra civile in El Salvador e alla crisi libanese. Nel 1986 Sant’Egidio ha operato per la liberazione di varie centinaia di cristiani iracheni che, rifugiatisi sulle montagne alla frontiera tra il loro paese e la Turchia, non riuscivano ad ottenere asilo politico oltre frontiera e si trovavano in una situazione impossibile, rischiando la cattura. La comunità li ha accolti a Roma dopo avere ottenuto il passaggio sul territorio turco e ha operato per la loro sistemazione in vari paesi di accoglienza. Durante la guerra in Siria, la Comunità di Sant’Egidio non si è rassegnata alla distruzione di un paese di antica sopravvivenza e di grande cultura, che ha pagato un prezzo enorme di vite umane in un conflitto durato più della prima guerra mondiale. Numerosi sono stati i suoi contatti con le forze combattenti. Va ricordata inoltre la realizzazione di corridoi umanitari per i rifugiati, che ha già permesso a gruppi di persone vulnerabili, fuggite da paesi in guerra, di trovare accoglienza. Tale azione è stata avviata nel Febbraio del 2016 a favore di mille profughi in fuga dalla Siria fatti partire da Beirut per l’Italia con regolari voli di linea e poi accolti da Sant’Egidio congiuntamente alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia e alla Tavola Valdese. Così la Comunità è un osservatorio sull’orizzonte internazionale ma anche su quello locale, sulle frontiere della guerra, attento alla povertà dei popoli e alla diffusione della violenza, intento a recepire domande e a esplorare strade possibili. CAPITOLO I- LA PACE IN MOZAMBICO IL 4 Ottobre 1992 veniva firmato l’accordo di Pace che metteva fine ad una guerra civile in Mozambico che aveva insanguinato il paese per oltre sedici anni e che era costata un milione di morti, quattro milioni e mezzo di rifugiati, la distruzione di migliaia di scuole, ospedali, centri di salute, assieme alla paralisi del paese . L’accordo di pace, negoziato durante più di due anni di trattative nei locali della Comunità di Sant’Egidio a Roma, si è rivelato credibile e ha funzionato. Furono proprio i Mozambicani i principali e primi destinatari dei discorsi di Joaquim Chissano, presidente del Mozambico e di Alfonso Dhlakama, capo della guerriglia Renamo, quella domenica mattina del 4 ottobre 1992: la diretta via radio aveva elevato milioni di persone al rango di partecipanti in un’imprevista teleconferenza. I frutti della pace sono incalcolabili. Un quarto di secolo in pace è davvero un tempo lungo per un paese passato dai 14 milioni di abitanti al momento della pace agli oltre 27 di oggi. (Vedi pg 32) La lotta di liberazione avviata nel 1962 dal Frelimo contro il colonialismo lusitano fu lunga e dolorosa. I primi anni di indipendenza furono euforici, ma ben presto ci si rese conto che l’afromarxismo- leninismo del Frelimo non si attagliava ad un paese rurale, povero ed analfabeta al 97 %. Nella sua moderna opposizione al razzismo e all’etnicismo il Frelimo iniziò subito ad ostracizzare il sistema tribale tradizionale, obbligando i contadini a raggrupparsi nei villaggi comunali che erano pensati a metà tra i Kolchoz sovietici e le comuni di tipo cinese. Nel frattempo i disoccupati improduttivi delle città venivano deportati per via aerea nelle foreste del lontano Niassa, dove ad attenderli trovavano i leoni ed un clima rigido che ne decimò migliaia. Centinaia di bambini e adolescenti scelti tra i continuadores ( scout comunisti) venivano mandati a cuba a formarsi, mentre intere generazioni di giovani sarebbero state trasferite a tempo determinato nelle fabbriche di un paese fratello, la Germania dell’Est. La reazione non si era fatta attendere. Nel 1976 era nata la Renamo ( Resistenza Nazionale Mozambicana), guerriglia che si proclamò anticomunista. Con il tempo, la Renamo si sarebbe caratterizzata per la capacità di aggregare la 3

rabbia della gente del Nord o del Sud. In pochi anni si allargò a tutto il paese. La sua tattica consisteva nel fare terra bruciata di tutto. Il Mozambico divenne un’immensa terra di nessuno, caratterizzata da strade impraticabili, ponti distrutti. La Renamo reclutava molti adolescenti, rapiti alle loro famiglie nelle campagne. Sia i guerriglieri che i soldati governativi terrorizzavano la popolazione, sospettata di stare con il nemico. Milioni di mozambicani soffrivano la fame, milioni erano sfollati nelle capitali. Il Mozambico guadagnò il primato di paese più povero del mondo. Se da un lato la popolazione desiderava la pace, la guerra si riproduceva da sé, contro la volontà comune. La Renamo era etichettata come un gruppo di bandidos armados assoldato dalla Rhodesia e dal Sudafrica con l’unico scopo di destabilizzare un vicino pericoloso, come poteva essere un paese guidato da marxisti. Il frelimo cercò e ottenne l’appoggio della comunità internazionale riuscendo nell’intento di isolare la Renamo e screditarla come interlocutore. Dopo la fine della Rhodesia il conflitto persisteva ancora. Sempre di più si cominciò quindi a percepire che la guerra fosse da ascrivere a cause interne. Un conflitto come quello mozambicano non veniva a cessare per la modificazione del quadro internazionale. Occorreva agire su quegli elementi interni che avevano determinato ed alimentato la guerra. Mentre il Frelimo era divenuto sempre più indipendente dal blocco sovietico, la Renamo non poteva dirsi espressione degli interessi occidentali. Da parte sua, la Renamo giudicava tutta la comunità internazionale “ complice del Frelimo “. Così l’occidente non aveva dubbi nel simpatizzare per il pragmatico governo di Maputo piuttosto che con l’ignoto movimento nascosto nella foresta di Gorongosa, quartiere generale della guerriglia. Mentre a Maputo e nelle città continuava il via vai delle agenzie di cooperazione, degli organismo multilaterali e delle organizzazioni non governative, ogni sforzo teso al raggiungimento di un qualche sviluppo del paese era resi vano dallo stato di guerra generalizzata. La pace sembrava più lontana che mai. In tale scenario maturò il tentativo di Sant’Egidio di una via mozambicana alla pace. I PRIMI CONTATTI. Il primo incontro della Comunità di Sant’Egidio con il Mozambico risale al 1977 tramite la persona di monsignor Jaime Goncalves in occasione di una sua visita a Roma. Nel Mozambico di nuova indipendenza, la Chiesa cattolica era considerata dal Frelimo come un residuo del colonialismo portoghese. L’ostilità del governo marxista- leninista verso la chiesa si manifestò anche con una serie di limitazioni dell’attività del clero. Il presidente Samora Machel non esitava ad apostrofare pubblicamente i vescovi cattolici come “ scimmie”. In questo clima di pressione nasce il tentativo di Sant’Egidio di aiutare monsignor Goncalves facendolo incontrare con i dirigenti del partito comunista italiano. Infatti l’Italia aveva incrementato considerevolmente gli aiuti al Mozambico divenendone il primo paese donatore, anche per l’impegno delle forze politiche italiane di sinistra. Così nel 1982 e 1984 Goncalves incontrò due volte nei locali dell’antico monastero di Trastevere il segretario del Pci Enrico Berlinguer il quale aveva acconsentito volentieri all’incontro. Egli apparve indignato nell’apprendere che in Mozambico, paese dove quasi nessuno aveva l’orologio, fosse vietato suonare le campane per richiamare il popolo alla messa. Anni dopo si seppe che l’interessamento alla libertà religiosa da parte del Pci era stato reale ed aveva avuto effetti positivi. Nel frattempo una grave siccità aveva portato il Mozambico agli onori della cronaca era il 1983. Parlando nella chiesa di Sant’Egidio, monsignor Goncalves lanciò un appello per aiuti urgenti alle vittime della fame e colse l’occasione per parlare della guerra, allora quasi sconosciuta in occidente. La prima risposta della comunità fu la creazione di un Comitato Amici del Mozambico per convogliare energie e aiuti e il simultaneo invio di un primo aereo di soccorsi umanitari. 4

Nell’agosto 1984 Andrea Ricciardi e don Matteo Zuppi vennero ricevuti da tre ministri mozambicani. L’aiuto umanitario servì per alleviare situazioni di sofferenza e salvò vite in pericolo. Con i dirigenti del Frelimo nacque un rapporto personale, schietto e senza pregiudizi. Al dialogo seguirono iniziative di cooperazione allo sviluppo ma anche di scambio culturale nel segno di un’amicizia disinteressata. Ciò servì anche a rendere più duttili gli afro-marxisti del Frelimo che ragionavano in termini ideologicamente rigidi. L’udienza improvvisa e inattesa venne organizzata da Sant’Egidio mentre il presidente del Mozambico era in volo da New York verso Roma. Samora Machel non voleva andare dal papa senza essere invitato e si rifiutava di piegarsi al protocollo vaticano, ma l’idea di un incontro faccia a faccia lo attirava. Così l’incontro con papa Wojtyla si realizzò, fu amichevole e rappresentò un ulteriore passo verso la distensione del Frelimo e i cattolici mozambicani. Nel 1897 la Conferenza episcopale mozambicana chiese nella lettera pastorale “ la pace che il popolo vuole”, negoziati diretti tra governo del Frelimo e Renamo, ma i tempi non erano ancora maturi e ci furono varie opposizioni. La Comunità si mise alla ricerca di un contatto efficace con la Renamo, al fine di capirne realtà e idee, al di là degli scarni e rozzi documenti che filtravano attraverso la foresta senza possibilità di dialogo o replica. Nell’estate 1987, sulla terrazza di Bertina Lopes, artista mozambicana, Matteo Zuppi conobbe Juanito Bertuzzi, un italiano che aveva perso alcune proprietà in Mozambico a seguito delle nazionalizzazioni e che manteneva contatti con esponenti della Renamo. Bertuzzi, in seguito mise in comunicazione don Zuppi con Artur Da Fonseca, operativo in Germania, che era Segretario delle Relazioni esterne ( ministro degli esteri della Renamo). Per avere fiducia, Sant’Egidio chiese di far liberare una suora rapita dalla Renamo, essa fu effettivamente liberata. Nel maggio del 1988 Sant’Egidio organizzò un incontro segreto tra monsignor Jaime Goncalves e il leader della guerriglia Alfonso Dhlakama. Quest ultimo si mostrò interessato ai discorsi sulla pace, ma a condizioni ancora da discutere. Nel Settembre 1988 Giovanni Paolo II visitò il Mozambico. Samora Machel era morto e gli era succeduto Joaquim Chissano. Il papa richiamò la necessità di vie di riconciliazione e di dialogo e premette per una composizione del conflitto nella unità e concordia. L’anno seguente ( agosto 1989) Andrea Ricciardi venne invitato ufficialmente a partecipare al Quinto Congresso del partito Frelimo. Nel suo intervento richiamò il valore della pace “ preziosa come il pane per il popolo”. In quello stesso anno diversi leader religiosi mozambicani tentarono di avviare negoziati di pace a Nairobi con il sostegno del ministero degli Esteri del Kenya. L’iniziativa fallì e Frelimo e Renamo non si incontrarono mai direttamente. Chissano dichiarò concluso il tentativo delle Chiese e domandò aiuto ai governi del Kenya e dello Zimbabwe. Ma il tentativo di incontro con la Renamo in Malawi, a giugno del 1990 abortì. Nel Febbraio del 1990 su invito di Sant’Egidio, Alfonso Dhlakama effettuò la sua prima visita in Italia. Questa fu contrassegnata dalla segretezza più assoluta. La conoscenza diretta di quelli che poi sarebbero divenuti i mediatori rappresentò un passo in avanti nella creazione della fiducia da parte del movimento di guerriglia, che gli era necessaria per poter rischiare il salto nel buio dei negoziati. Alla visita di Dhlakama a Roma seguirono ulteriori contatti con la Renamo mentre il governo cominciava a togliere una a una le sue numerose precondizioni al dialogo diretto. Nella primavera del 1990 si verificò la convergenza su Sant’Egidio di due richieste: quella del governo mozambicano nella persona dell’allora ministro del Lavoro, Aguiar Mazula che richiese un incontro segreto tra un responsabile del governo e uno della Renamo e quella di Raul Domingos che chiese alla Comunità di ospitare le trattative tra la Renamo e il governo. I negoziati si aprirono l’8 luglio 1990 nel caldo afoso dell’estate romana, con una cauta stretta di mano sotto il grande banano posto nel giardino 5

di Sant’Egidio che suggeriva un ambiente africano. Andrea Ricciardi rivolse all...


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