H. G. Gadamer – L’IDEA DEL BENE TRA PLATONE E ARISTOTELE (Secondo volume degli Studi platonici) PDF

Title H. G. Gadamer – L’IDEA DEL BENE TRA PLATONE E ARISTOTELE (Secondo volume degli Studi platonici)
Course Ermeneutica filosofica
Institution Università degli Studi di Genova
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Riassunto completo del Secondo Volume degli STUDI PLATONICI di H. G. Gadamer – L’IDEA DEL BENE TRA PLATONE E ARISTOTELE ...


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H. G. GADAMER – L’IDEA DEL BENE TRA PLATONE E ARISTOTELE. (Secondo volume degli Studi platonici). Gadamer ha l’intento di ri-unificare la filosofia platonico-aristotelica, soprattutto nell’ambito della filosofia PRATICA, cercando di mostrare tutte le comunanze che rendono insensata la classica dicotomia “Platone l’idealista” e “Aristotele il realista”, attraverso una sua lettura ermeneutica dei rispettivi testi cardine degli autori. Si vuole insomma andare oltre il fraintendimento moderno che ha comportato il misconoscimento dell’unità della filosofia socratica, platonica e aristotelica, che ha impedito di cogliere pienamente l’eredità greca. Ad alimentare il fraintendimento moderno, che contrappone agli antipodi Platone e Aristotele, c’è la differenza stilistica, o editoriale, delle opere che ci sono pervenute: da una parte abbiamo infatti i dialoghi platonici, elaborazioni dialogiche fissate nella scrittura, dall’altra abbiamo le “carte di lavoro” aristoteliche, ovvero gli appunti di cui Aristotele si serviva per l’insegnamento nel Peripato. Questo è fonte di una difficoltà metodologica per l’analisi che Gadamer vuole condurre. Il problema. Nei precedenti 50 anni di indagini sulla filosofia antica, per quanto concerne gli studi aristotelici spunta la figura di Werner Jaeger, dove nella sua impostazione dominava uno schema semplice, teso a delineare l’evoluzione di Aristotele da PLATONICO a CRITICO DELLA DOTTRINA PLATONICA DELLE IDEE, e infine a EMPIRICO. Già allora, naturalmente, si poteva dubitare di della validità di questo schema. Questo perché è chiaro che nell’intera opera aristotelica non possiamo individuare un momento preciso nel quale egli non sia stato critico della dottrina platonica delle idee, ma neppure trovare dei momenti in cui egli avrebbe cessato di essere un platonico. Se nel caso di Aristotele è divenuto evidente che non regge l’idea di riconoscere nei suoi scritti le fasi evolutive del suo pensiero, ci chiediamo allora la stessa cosa in merito a Platone: anche per Plato esiste preminentemente una considerazione storico-genetica, e tale impostazione ci costringe a ritenere che la dottrina delle idee sia stato ciò che Platone insegnava all’inizio, e che più tardi sia stata sottoposta da Platone stesso ad una revisione critica (visibile nel Parmenide). C’è da notare, però, che se questa impostazione è portatrice di verità, eppure la tradizione antica, tanto in merito ad Aristotele che a Platone, non riferisca nulla di tali trasformazioni nel loro pensiero. Aristotele cita tanto il Timeo quanto il Parmenide quanto il Fedone apparentemente senza essersi accorto che già Platone aveva messo in dubbio le sue stesse teorie? Effettivamente pare al quanto assurdo vedere come Platone, nel Parmenide e nella “critica” alla dottrina delle idee si ponga sullo stesso piano e con la stessa insistenza che riconosciamo in Aristotele, addirittura concordano nelle medesime argomentazioni critiche e confutazioni (si pensi all’argomento del terzo uomo). Ma, secondo Gadamer, è una delle ipotesi peggiori pensare che Aristotele abbia ignorato la già compiuta autocritica di Platone. Uno dei problemi fondamentali che si riscontrano nell’esposizione della dottrina platonica è la partecipazione dei fenomeni (cose) alle idee: problematica perché vede contrapposte da una parte il chorismos (l’essere-per-sé delle idee) e la partecipazione ai fenomeni. È possibile che Platone l’abbia sottovalutato? Oppure è possibile una lettura che concili queste due posizioni (solo) apparentemente contrapposte? Tutte le difficoltà interpretative nascono dalla 8erronea) interpretazione dogmatica del chorismos, che impedisce che si possa conciliare con la partecipazione; forse, nei suoi dialoghi di autocritica, Platone intendeva mettere in luce, per contrasto, come non si dovesse interpretare in modo dogmatico e assolutamente letterale l’essere-per-sé delle idee. Con il termine methexis, Platone, secondo Gadamer, voleva mettere in luce la relazione tra il molteplice e l’uno (il “comune”, l’idea): la parte appartiene al tutto, ed esiste nel tutto. C’è dunque, dietro, la dialettica fenomeno-idea, molteplice-uno. Ecco perché è stato in qualche modo abbandonato l’altro termine, mimesis, che diviene inadeguato, in quanto descriverebbe il mondo dei fenomeni come mimesis, come imitazione, approssimazione (imperfetta) dei rapporti matematici puri (pensiero pitagorico: parlava di una

mimesis delle cose rispetto ai numeri e alle proporzioni ideali, vale a dire della rappresentazione visibile dei rapporti numerici puri, dell’armonia). Ma il nuovo termine di methexis si rivolge invece a mettere in chiaro la dialettica del tutto e delle parti che si verifica nel rapporto tra molteplicità e unità. Le parti, come le membra, appartengono al tutto, di cui sono, appunto, parti o membra. E questa considerazione vieta ogni interpretazione dogmatica dell’essere-per-sé delle idee, e anzi ne richiede un’interpretazione liberale. Platone ha assolutamente iniziato la “filosofia dell’eidos (idea)”, che vuole, attraverso la seconda navigazione,condotta con il nuovo metodo dei ragionamenti (a differenza del metodo dei fisiologi) che portano al trascendimento della sfera del sensibile e alla conquista dell’intelligibile; la conoscenza dei fisiologi e dei filosofi della natura non è adeguata per spiegare quella dimensione introdotta da Socrate col problema dell'anima, del bene, di ciò che trascende la pura materialità del corpo fisico (Socrate insisteva: tutti si prendono cura del proprio corpo; è però più importante prendersi cura della propria anima). Aristotele si può definire come “seguace” di questa impostazione platonica, anche se si scontrerà con Platone contro la sua qualificazione ontologica delle idee, sostenendo per contro il primato di realtà del singolo, della sostanza prima; nonostante ciò, è facile vedere come esista un indissolubile rapporto tra la sostanza seconda (dell’eidos, dell’idea, del comune, del genere e della specie, cioè ciò che risponde alla socratica domanda che cos’è) e la sostanza prima di ciò che è di volta in volta presente. Per contro, la completa separazione di un mondo delle idee da un mondo die fenomeni è, per Gadamer, un’assurdità; se nel dialogo platonico del Parmenide ci si esprime intenzionalmente in questo senso, ciò avviene proprio al fine di “ridurre ad assurdità” una tale interpretazione (così dogmatica) dell’esser-per-sé delle idee! Ma qual è allora il significato dell’ accusa di Aristotele al chorismos platonico? E’ davvero Platone il soggetto che Aristotele vuole colpire con essa? Che cosa vuole significare, in Platone, l’essere-per-sé delle idee? Vuole davvero dischiudere un secondo mondo, separato dal nostro mondo fenomenico da uno iato ontologico? Per tentare una risposta, si deve tenere presente la motivazione con cui Platone attua la SEPARAZIONE DELLE IDEE (dai fenomeni); questa motivazione è visibile nel campo matematico e nel campo morale. 1) campo della SCIENZA MATEMATICA: l’esigenza di separare le “forme” (idee) matematiche dal sensibile si vede manifestatamente nella geometria euclidea, che studia i puri rapporti spaziali, senza che si faccia uso di figure sensibili per rendere tali rapporti manifesti (nel disegnare un cerchio o un triangolo); ma si lavora di puro intelletto. Qui, soltanto la separazione ontologica del noetico dal sensibile, e quindi il chorismos, è riuscito a fare chiarezza, così che il matematico possa dire che egli non fa in alcun modo “fisica”, e questa è una verità fondamentale. 2) campo della SCIENZA PRATICA: analoga è la situazione die fenomeni morali; distinguere tra la giustizia in sé e ciò che viene considerato giusto è tutt’altro che una vuota astrazione mentale. Costituisce piuttosto il vero compito della coscienza morale-pratica, e sottolinea come il “giusto comportamento virtuoso” dell’uomo non possa giustificarsi o fondarsi su concetti e criteri convenzionali, ma debba invece assumere come modello e misura ciò che si presenta alla coscienza morale come vero universalmente. Dobbiamo dunque continuare a interrogarci sul significato della critica aristotelica, e a questo proposito dovremmo analizzare i fondamentali ELEMENTI COMUNI rinvenibili nella dottrina aristotelica e platonica. In particolare, l’indagine si concentrerà sull’idea del bene, che è un tema di stratta comunanza tra i due pensatori greci. Procederemo dunque nell’analisi utilizzando il problema del bene come filo conduttore. Ora, il problema del bene, e in particolare in problema del bene nel senso dell’ aretè (della virtù intesa come la migliore qualità – il bene – del giusto cittadino della polis) domina fin dall’inizio negli scritti platonici; e in essi, i problemi sollevati (cosa è questa o quella aretè, se l’aretè può essere insegnata) rimangono privi di una risposta. Rispetto a ciò, però, la Repubblica prova a fare un poco di chiarezza: introduce infatti l’ idea del bene, che si presenta come una risposta alla convenzionalità e alle approssimazioni rispetto alla comprensione dell’aretè dei dialoghi aporetici precedenti. Il sapere che viene richiesto (cosa è bene, la scienza del bene) non è raggiungibile finchè si rimane fermi ad una considerazione di “sapere” inteso come technè: il saper fare, l’arte poietica del produrre. Sapere, questo, che non è conforme al sapere a cui l’umana volontà di sapere aspira. La scienza del bene è qualcosa di profondamente diverso dalla technè e da ogni altro sapere umano,

in quanto all’idea del bene compete un carattere e uno statuto particolare: nella Repubblica, infatti, viene trattata da Socrate come una cosa di difficile comprensione, che si può osservare soltanto nei suoi effet. Come il SOLE, diffondendo calore e luce, assicura ad ogni oggetto visibilità ed essere, analogamente fa il bene, permettendo, con la sua “luce”, conoscenza e verità. Il voler comprendere direttamente il bene sembra dunque impossibile, e ogni discorso sulla natura del bene viene trattato in modo analogico. Resta il fatto che nella Repubblica il bene si presenta come l’unificatore del molteplice, la realtà prima, il principio unificatore. E questa idea concorda perfettamente anche con ciò che viene in luce nel Filebo: in questo dialogo non si tratta dell’idea del bene, ma piuttosto del bene nella vita umana – in fondo però è sempre dal problema del significato del bene per noi che muove il discorso sull’idea universale di bene. Il problema del Filebo è il seguente: in che misura piacere e sapere possono raggiungere nella vita umana un equilibrio armonico? Ricorda molto l’inizio della Repubblica, in cui ci si chiedeva: il bene è piacere, come pensano i molti, o conoscenza? Certamente nel Filebo non si espone questa contrapposizione incalzando la scelta di un’alternativa netta, ma piuttosto si incentra il discorso sull’equilibrio armonico dei due. Rimane ben presente, quindi, il problema fondamentale di come si possano CONCILIARE il chorismos (l’esser-per-sé delle idee) e la methexis; questa CONCILIAZIONE viene in luce nel Filebo. Qui, l’idea del bene esercita addirittura la funzione di orientamento pratico nella ricerca di una vita retta e virtuosa, in quanto questa vita è un misto di piacere e di sapere, e la sua MESCOLANZA è diretta, orientata, dall’ideale di PROPORZIONE, GIUSTA MISURA: è nell’apparizione del bello che il bene risulta ATTINGIBILE. L’idea del bene si presenta dunque come la condizione di ogni ordine o armonia esistente, ovvero come l’unità armonica del molteplice, aiuta la molteplicità a raggiungere l’unità di fondo. (Questa è l’idea del bene secondo Gadamer). Sapere e non sapere socratici. Ora si vedrà preminentemente: 1) AFFINITA’ TRA SCIENZA DEL BENE SOCRATICA E PHRONESIS ARISTOTELICA come punto di contatto e di continuità tra Platone e Aristotele (secondo Gadamer). Nel VI libro dell’Etica Nicomachea, si scopre un’affinità tra la scienza del bene ricercata da Socrate (Platone) e la phronesis aristotelica; la phronesis, ovvero la virtù della saggezza – o sapere - pratico, si presenta esattamente come ciò che nella vita di Socrate, che leggiamo dai dialoghi platonici, trova la sua incarnazione. (Dall’analisi che faremo risulterà che Aristotele sia rimasto fedele al reale uso linguistico di phronesis che già ne faceva Platone, e che non abbia ridotto all’ etico un termine tecnico platonico. E ciò dimostra come Aristotele continui a vivere nel mondo linguistico di Platone.)

Nell’Etica Nicomachea si legge come il sapere pratico (phronesis, la saggezza o prudenza pratica, dell’agire) venga nettamente distinto sia dal sapere teoretico sia dal sapere tecnico, e designato come un “specie diversa di sapere”. Al pari di ciò, Platone si è sempre curato si sottolineare, come abbiamo visto, la differenza tra la scienza del bene e ogni altro tipo di sapere umano (anche se solo in forma negativa). Platone usa spesso il termine phronesis come sinonimo di technè, ma ciò non vuol dire affatto che la “scienza del bene” sia realmente una scienza del tipo della technè. Viene infatti in luce una differenza essenziale, che distingue la ragionevolezza pratica dalle conoscenze tecniche: le ultime infatti vengono acquisite mediante l’apprendimento. Diversamente invece si presenta la cosa nell’esercizio della saggezza pratica: qui non ci si può basare su un “sapere generale” che si acquisisce mediante l’apprendimento, ma tuttavia si ha l’intento di raggiungere un giudizio e di decidere ciò che è giusto da fare e ciò che non lo è. e la decisione è sempre comportata da una consultazione che si ha con se stessi o con gli altri, un confronto dialettico con se stessi e con gli altri su quanto sarebbe giusto fare in una determinata situazione. Platone, quindi, pone in stretto legame la phronesis con la dialetca: la dialettica è infatti da intendersi come il PROCESSO DEL RENDERE CONTO, che non è da intendersi come una technè, ma piuttosto come un “atteggiamento” che caratterizza il vero filosofo e lo differenzia dal sofista. Va cioè a sottolineare come il filosofo non possegga una reale tecnica superiore da usare per avere ragione, ma cerca una “presa di coscienza” reale, attuata nel processo del rendere conto. La vera arte dialettica si configura dunque come il parlare e il rispondere intorno alle questioni (come la questione del bene). E in tale atteggiamento non basta avere una buona tecnica del discorso o semplice

acume intellettuale, ma occorre qualcosa di più, e questo “di più” sta proprio nella phronesis, che IMPONE un “dialogare con se stessi e con gli altri”, interrogare se stessi e gli altri, per giungere ad un giudizio intorno alla cosa. Per quanto concerne la dialettica, si tratta quindi di un sapere che non può essere acquisito mediante apprendimento (al pari della phronesis, che in Platone sembra quasi coincidere con la dialettica stessa) ma soltanto sottoponendo ad esame se stessi; soltanto nel dialogo con se stessi o con altri è possibile. È dunque possibile definire la phronesis come la virtù dialettica. Sempre rimanendo sul tema dell’INSEGNABILITA’ DELL’ARETE’, vediamo meglio come si articola in Platone: abbiamo già sottolineato come la phronesis non sia equiparabile al sapere della technè, in quanto non è acquisibile mediante un apprendimento; infatti essa non si fonda sull’insegnamento per apprendimento, ma piuttosto per imitazione, a partire dalla testimonianza (di grande valore conoscitivo) che può fornirne il maestro (vedi Socrate). Se infatti la phronesis (scienza della virtù) fosse insegnabile al pari della technè, cioè mediante apprendimento, allora saremmo costretti ad identificarla come technè; eppure la scienza della virtù non è insegnabile, ma rimane comunque un sapere, diverso da ogni altro. Ma allora, DI CHE NATURA E’ QUESTO SAPERE? Che tipo di sapere è la “scienza del bene” o delle virtù? A chiarire ciò ci viene in aiuto il Menone. In questo dialogo, all’inizio, viene fatta fallire una serie di tentativi di definizione dell’ aretè, tutti orientati a dimostrare come l’aretè fosse possibilità di procurarsi le cose belle che si desiderano. Il bello è che è proprio nelle aporie (in cui finiscono i tentativi di definire l’aretè da parte di Menone) che rappresentano lo scenario in cui è possibile INDAGARE sull’essenza dell’aretè stessa: infatti, “indagare l’essenza dell’aretè” significa “indagare se stessi”, in quanto questo tipo di sapere non può essere trasmesso direttamente mediante apprendimento cattedratico, ma può soltanto essere provocato, e il colloquio con Menone chiarisce pienamente questo, per contrasto. Qui infatti Menone si presenta come uno che vorrebbe appropriarsi di tale sapere con la minor spesa possibile, ma poi fugge quando si vede costretto a mettersi in questione. Egli è un valido esempio per comprendere che cosa propriamente siano il “sapere” e il “conoscere”. E se il sapere può essere soltanto provocato, implica che il sapere è ri-conoscere , rammemorazione di qualcosa di già conosciuto: ecco la dottrina dell’ANAMNESIS. Nonostante nel Menone la dottrina dell’anamnesis venga presentata sotto forma di “mito” (con riferimento alla dottrina della trasmigrazione dell’anima pitagorica), la successiva famosa lezione di Socrate allo schiavo di Menone è da considerarsi ben lontana dal mito (nella forma espositiva, ovviamente, nei contenuti si ricalcano i medesimi concetti). Lo schiavo, dopo essersi liberato delle soluzioni errate, riconosce la soluzione giusta non appena Socrate gliela presenta; Socrate dunque gliela mostra, egli non la trova da sé, ma non è questo il punto; l’importante è che egli la riconosca come l’oggetto ricercato, la sappia riconoscere. Gli errati tentativi di soluzione, sono errati solo dal punto di vista matematico, in quanto la comprensione della loro erroneità, per lo schiavo – a differenza del suo padrone – non ha nulla di paralizzante, ma piuttosto rende possibile la conoscenza giusta che, ripetendo poi in maniera corretta l’esercizio, si consolida in un autentico sapere matematico. Ecco l’ESSENZA DEL SAPERE AUTENTICO. Sapere ciò che non si sa non è ignoranza, perché comporta sempre un sapere precedente che guida la ricerca e l’interrogazione: la conoscenza è sempre ri-conoscenza. Una sorta di pre-comprensione. L’interrogare è un cercare, ed è dunque orientato dall’oggetto ricercato; si può cercare soltanto se si sa che cosa si cerca; soltanto allora, mirando all’obiettivo noto, si può escludere, delimitare, scartare, e in generale conoscere. ERGO: l’affermazione socratica secondo cui aretè sarebbe sapere si rivela quindi una sorta di PROVOCAZIONE, in quanto la virtù non è insegnabile, o per lo meno non è insegnabile dall’esterno. La scienza del bene e la polis. Ci si presenta ora il problema dell’UNITA’ DELLA VIRTU’, problema che è esposto nel Protagora. E in un certo senso il IV libro della Repubblica fornisce una risposta a tale problema. La molteplicità delle classi nello Stato ideale, come la molteplicità delle parti dell’anima, è ordinata all’unità e all’armonia. Nel libro IV

viene studiato dapprima l’ordine dello Stato nelle varie classi e poi l’ordine psichico delle virtù, le cosiddette virtù cardinali. Tutte e 4 queste virtù finiscono quasi per confluire l’una nell’altra, e insieme nella phronesis. Quindi si parla delle virtù come una forma di sapere, che è la phronesis, ma che tipo di sapere-conoscenza? La VIRTU’ non va pensata come l’unità dei modi di comportamento virtuosi che si presentano ad un osservatore esterno; essa è invece conoscenza di se stessi, phronesis. È nella prospettiva de “il bene” che il nostro comportamento acquista unità. Quindi il problema dell’unità dell’aretè si fonda nella “scienza del bene”, e la funzione propedeutica alla scienza del bene è propria delle scienze ad essa propedeutiche, appunto. Stiamo parlando dell’itinerario pedagogico compiuto attraverso le discipline matematiche (matematica, astronomia, musica ecc.), che conducono alla dialettica. Ora, nella Repubblica Platone presenta il progetto di uno Stato Ideale che per ovvi motivi non può essere realizzato; tutte le condizioni della sua realizzazione, dalla comunione delle donne e dei figli, al governo dei filosofi, ne dimostrano chiaramente l’impossibilità pratica. Anche un cieco si renderebbe conto che una tale città non è possibile. L’intero libro, infatti, secondo Gadamer, deve essere letto come un unico grande mito dialettico, dove per “considerare diale...


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