IL Fascismo Emilio Gentile PDF

Title IL Fascismo Emilio Gentile
Course Storia del mondo contemporaneo
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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EMILIO GENTILE – IL FASCISMOCAPITOLO 1 – IL FASCISMO, UN PROFILO STORICOLe origini del fascismo risalgono al processo di crisi e di trasformazione della società di ine otocento con l’avvio dei processi di industrializzazione e di modernizzazione. Il fascismo nacque dopo la guerra mondiale, ma alcuni...


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EMILIO GENTILE – IL FASCISMO

CAPITOLO 1 – IL FASCISMO, UN PROFILO STORICO Le origini del fascismo risalgono al processo di crisi e di trasformazione della società di fine ottocento con l’avvio dei processi di industrializzazione e di modernizzazione. Il fascismo nacque dopo la guerra mondiale, ma alcuni motivi culturali e politici erano già presenti in alcuni movimenti radicali di destra e di sinistra come il nazionalismo, il sindacalismo rivoluzionario e il futurismo, movimenti aventi ideologie diverse e contrapposte ma con in comune il senso tragico e attivistico della vita e l’attesa di un’incombente svolta storica che avrebbe segnato la fine della società borghese liberale e l’inizio di una nuova epoca. Dal punto di vista politico, questi movimenti condividevano il mito della volontà di potenza, il disprezzo del parlamentarismo, l’esaltazione delle minoranze attive, la concezione della politica come attività per organizzare e plasmare la coscienza delle masse, l’apologia della violenza, della guerra e della rivoluzione. Nella formazione del fascismo confluì anche l’eredità di temi, ideali e miti che emersero dalla contestazione antigiolittiana di gruppi intellettuali come la rivista “La Voce.” Sociologicamente la contestazione antigiolittiana era una rivolta generazionale di giovani che volevano abbattere l’ordine esistente con una guerra o una rivoluzione, ambendo a una rigenerazione morale e culturale degli italiani in uno stato più moderno e efficiente. Ad essi si affiancarono gli intellettuali nazionalisti che avevano già elaborato un progetto di trasformazione autoritaria dello stato per attuare una politica di potenza e di espansione imperialista. Gli antigiolittiani consideravano la guerra l’occasione rivoluzionaria per realizzare i loro miti e le loro ambizioni, identificandosi con la volontà generale della nazione. Non è comunque corretto definire la cultura antigiolittiana e i movimenti radicali come forme di protofascismo, perché nell’ambito di questi movimenti si formarono anche molti futuri protagonisti dell’antifascismo. Le condizioni per la nascita e il successo del fascismo furono poste dal conflitto mondiale e dagli svolgimenti economici, sociali, politici, culturali e morali che la guerra provocò, che accelerarono la trasformazione della società e la crisi dello stato liberale, suscitando sia a destra che a sinistra nuove forze antiliberali e antiparlamentari. Furono queste nuove forze le artefici principali della decadenza finale del regime parlamentare. L’esperienza della guerra, l’esasperazione nazionalistica per il mito della vittoria mutilata, l’entusiasmo delle masse operaie e contadine per la rivoluzione bolscevica, provocarono la radicalizzazione e la brutalizzazione della lotta politica, che esplose con episodi di guerra civile creando una profonda crisi di potere, di autorità e di legittimità. La classe dirigente liberale fu incapace di far fronte all’irruzione delle masse nella politica, alla gravissima crisi economica e alle tensioni sociali durante il cosiddetto biennio rosso, in cui esplose un’ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del proletariato. Dal 1919 al 1922 la rapida successione di governi deboli privi di una solida base nel parlamento e nel paese, favorì la diffusione della sfiducia verso lo stato liberale anche fra la classe borghese e i ceti medi, che fino ad allora lo avevano sostenuto, rendendoli disponibili per nuove politiche autoritarie contro la minaccia di una rivoluzione socialista. Le elezioni politiche nel novembre 1919 segnarono la fine dell’egemonia parlamentare del liberalismo e il successo del partito socialista e del partito popolare, inoltre contro lo stato liberale scesero in campo nuovi movimenti politici che si richiamavano all’interventismo e al mito dell’esperienza di guerra, come il partito futurista e l’arditismo. Nell’ambito di questi movimenti sorsero nel 1919, per iniziativa di Benito Mussolini i Fasci di combattimento.

Mussolini Mussolini nacque in Romagna nel 1883 da una famiglia di origine contadina, fece il maestro per alcuni mesi e si dedicò alla lotta politica come militante socialista. Mescolando le idee di Marx, Nietzsche, Sorel e Pareto, formò una propria concezione del socialismo rivoluzionario, idealistica, volontaristica e violentemente antiborghese e antiriformista. Nel luglio 1912 al congresso socialista di Reggio Emilia si affermò sulla scena nazionale come uno dei capi della nuova corrente rivoluzionaria, e dal 1912 al 1914 fu la figura più popolare del socialismo italiano. Ammirato dai giovani rivoluzionari e amato dalle masse, fu la guida effettiva del partito al quale diede un’energica impronta rivoluzionaria, incitando il proletariato alla lotta violenta contro lo stato borghese. Animato da una forte ambizione, desideroso di potere e di dominio, con una personalità che appariva originale e affascinante, Mussolini sapeva suscitare emozioni e passioni col suo stile conciso e violento di giornalista e oratore efficacissimo. Antinazionalista, antimilitarista e internazionalista, quando esplose il conflitto europeo, Mussolini si dichiarò subito per la neutralità assoluta, ma nell’autunno 1914 si convertì all’interventismo ritenendo che la guerra fosse necessaria per abbattere il militarismo e l’autoritarismo degli imperi centrali e per creare le condizioni per la rivoluzione sociale. Egli si era illuso di spostare a

favore dell’intervento gran parte del partito socialista, ma in realtà solo pochi lo seguirono quando diede vita al proprio giornale “Il Popolo d’Italia”, per sostenere la necessità dell’intervento italiano in guerra contro l’Austria. Infatti Mussolini venne espulso dal partito e venne condannato come traditore delle masse socialiste. L’esperienza della guerra fu decisiva per la sua conversione dal socialismo marxista e internazionalista a un nazionalismo rivoluzionario che affermava il primato della nazione, sosteneva la validità del capitalismo produttivo e la necessità di una collaborazione di classe per accrescere la ricchezza e la potenza della nazione. Finita la guerra Mussolini con il suo giornale divenne il principale fautore di una rivoluzione nazionale per portare al governo una nuova classe dirigente formata dai combattenti. Dopo il tentativo invano di assumere la guida all’interventismo di sinistra, Mussolini lanciò a marzo 1919 un appello ai reduci per dare vita ai fasci di combattimento.

Il fascismo diciannovista Il termine fascismo deriva dal simbolo romano del fascio littorio. Nella sinistra italiana il termine fascio era usato comunemente per definire un’associazione senza strutture di partito. La parola fascista fu usata probabilmente per la prima volta alla fine dell’800 con riferimento ai moti contadini dei fasci italiani. L’espressione movimento fascista apparve nell’aprile 1915 su Il Popolo d’Italia per definire un’associazione di tipo nuovo, l’antipartito, formato da militanti politici che rifiutavano i vincoli dottrinari e organizzativi di un partito. Alla riunione di fondazione dei fasci di combattimento a Milano il 23 marzo 1919, parteciparono un centinaio di persone, quasi tutti militanti della sinistra interventista. Il primo segretario generale fu Attilio Longoni, ex sindacalista rivoluzionario, sostituito ad agosto da Umberto Pasella, anche egli ex sindacalista rivoluzionario, artefice della prima organizzazione fascista. Il fascismo diciannovista si proclamava pragmatico e antidogmatico, anticlericale e repubblicano, e propose riforme istituzionali, economiche e sociali molto radicali. I fascisti disprezzavano il parlamento e la mentalità liberale, esaltavano l’attivismo delle minoranze, praticavano la violenza e la politica della piazza per sostenere le rivendicazioni territoriali dell’Italia e per combattere il bolscevismo e il partito socialista. Nel primo congresso nazionale dei fasci gli iscritti erano poche centinaia, concentrati soprattutto nell’Italia settentrionale. L’insuccesso del movimento fu confermato dalla disfatta nelle elezioni politiche del novembre 1919, ma subito dopo il fascismo iniziò un cambiamento di rotta che fu sancito al congresso nazionale di Milano, abbandonando il programma radicale del 1919 per riproporsi con una conversione a destra, come organizzazione politica della borghesia produttive e dei ceti medi che non si riconoscevano nei partiti tradizionali e nello stato liberale.

lo squadrismo e la nascita del Partito fascista Le fortune del fascismo cominciarono alla fine del 1920 dopo l’occupazione delle fabbriche e le elezioni amministrative dell’autunno che segnarono l’inizio del declino del partito socialista, mentre spinsero la borghesia e i ceti minori a organizzare forme di autodifesa per riaffermare i diritti della proprietà e il primato dell’ideologia nazionale contro il pericolo bolscevico. Il fascismo introdusse delle forze armate, organizzate militariamente, che in pochi mesi distrussero gran parte delle organizzazioni proletarie in Valle Padana, zona controllata sul piano politico e economico dal partito socialista e le leghe rosse, che spesso adoperarono metodi intolleranti verso i ceti borghesi e talvolta verso gli stessi lavoratori. Per questo motivo l’offensiva antiproletaria dello squadrismo fu accolta favorevolmente da tutti i partiti antisocialisti come una sana reazione contro le violenze massimaliste. Ciò consentì al fascismo di accreditarsi come difensore della borghesia produttiva e dei ceti medi. Dopo il 1920 la crescita del movimento fascista fu rapida, arrivando nel 1921 a oltre 200.000 iscritti. Il nuovo fascismo formato da questa massa era molto diverso dal fascismo diciannovista, era un aggregato di vari fascismi provinciali sostenuto e finanziato dalla borghesia agraria. La classe operaia rimase in gran parte refrattaria alla propaganda fascista, che riuscì invece ad attrarre un notevole seguito fra i lavoratori della terra aspiranti alla proprietà. Sociologicamente parlando questo fascismo era espressione della mobilitazione dei ceti medi, che costituivano una massa sociale in aumento, soprattutto nel nord. Su 150 mila iscritti ai fasci di combattimento, il 24% era composto da lavoratori della terra, il 15% da lavoratori dell’industria, il 14% da impiegati pubblici e privati, il 13% da studenti e l’11% da proprietari terrieri e piccoli agricoltori. Dai ceti medi proveniva la maggioranza dei dirigenti dei fasci e dei capi dello squadrismo, e fu soprattutto la loro adesione a trasformare il fascismo in un movimento di massa con un proprio dinamismo. Lo squadrismo dunque fu la vera origine del fascismo come forza organizzata e dominatrice della lotta politica, consapevolmente orientata verso la conquista del potere. Il fascismo partecipò alle elezioni del maggio 1921 conquistando 35 seggi, dopo una campagna elettorale funestata da violenze. Giolitti si era illuso di poter porre fine allo squadrismo favorendo l’ingresso dei fascisti in parlamento, ma dopo il successo elettorale Mussolini recuperò subito la sua libertà d’azione, dichiarando che il fascismo fosse un movimento tendenzialmente repubblicano. Giolitti abbandonò definitivamente il potere, mentre continuarono nel paese le violenze degli squadristi contro socialisti, comunisti, repubblicani e popolari. Il governo

Bonomi tentò di porre fine alla violenza politica favorendo un patto di pacificazione fra fascisti, socialisti e dirigenti della CCdL il 3 agosto 1921. Mussolini accettò il patto mirando a inserire stabilmente il fascismo nella politica parlamentare, a far valere la sua autorità di capo sui fascismi provinciali, e a porre un limite alle violenze squadriste, che cominciarono a suscitare la condanna anche da parte dell’opinione pubblica borghese. Mussolini voleva inoltre trasformare il movimento in partito, un partito del lavoro per i ceti medi, ma la maggior parte dei capi dei fascismi provinciali contestarono la pretesa di Mussolini di essere considerato il capo di un movimento che si era sviluppato e affermato come movimento di massa e grazie alla loro azione. La crisi fu uno dei momenti più difficili nella storia del fascismo, ma alla fine fu superata con un compromesso al Congresso di Roma, in cui fu decisa la trasformazione del movimento in partito e Mussolini fece accettare definitivamente il suo ruolo di duce.

Il partito milizia alla conquista del potere Il partito fascista ereditò dallo squadrismo l’organizzazione, l’ideologia, la mentalità e lo stile di comportamento e di lotta. La cultura politica rifiutava il razionalismo e concepiva la militanza come una dedizione totale, fondata sul culto della patria, sul senso comunitario del cameratismo, sull’etica del combattimento e sul principio della gerarchia. L’ideologia fascista venne espressa esteticamente in modo efficace e suggestivo, attraverso i riti e i simboli di un nuovo stile politico assumendo i caratteri di una religione laica esclusiva, integralista e intollerante, che aveva come dogma fondamentale il primato della nazione. I fascisti si schierarono a difesa della proprietà privata, esaltavano il ruolo del dirigente della borghesia produttiva, sostenevano la funzione storica del capitalismo e la necessità della collaborazione di classe al fine di intensificare la produzione. Il partito non aveva un preciso programma di politica estera anche se reclamava la revisione del trattato di Versailles per risarcire la vittoria mutilata, e il mito dell’impero fu presente nell’ideologia del partito fin dall’inizio. Il fascismo si considerava la milizia della nazione, infatti pretendeva di avere una condizione di superiorità nei confronti degli altri partiti. Il mito della giovinezza conferiva alla violenza dello squadrismo e alla sua avversione per la democrazia liberale l’aspetto di una rivolta generazionale. I fascisti odiavano gli avversari di sinistra, socialisti e i comunisti, considerandoli esseri umani di natura quasi animalesca, avidi di sangue e di distruzione, mentre disprezzavano i borghesi liberali considerati politicanti vecchi, senza ideali di eroismo e di grandezza, corrotti dalle pratiche del compromesso. Nel 1922 con oltre 200.000 iscritti, una milizia armata, associazioni femminili e giovanili e sindacati che contavano circa mezzo milione di aderenti, il Pfn era la più forte organizzazione politica del paese, e si accingeva a conquistare il potere. I fascisti proclamavano apertamente la volontà di diventare la nuova classe dirigente, perché si consideravano la nuova aristocrazia formata dai giovani che avevano conquistato nelle trincee il diritto al comando. Nella primavera del 1922 il fascismo riprese l’offensiva militare per estendere il suo predominio su altre zone del paese e moltiplicò gli attacchi contro le sinistre e il partito popolare. Il partito fascista voleva realizzare una rivoluzione politica per conquistare il monopolio del potere. Alla vigilia della marcia su Roma Mussolini dichiarò pubblicamente che lo stato fascista non avrebbe concesso alcuna libertà ai suoi avversari.

Verso lo stato totalitario L’idea di una marcia su Roma maturò dopo il fallimento dello sciopero legalitario proclamato dall’alleanza del lavoro per protestare contro il fascismo, che reagì con una violenta rappresaglia distruggendo quel che rimaneva delle organizzazioni operaie. Risultò allora chiara l’impotenza dello stato liberale e l’incapacità dei partiti antifascisti di trovare un accordo per creare un governo capace di ristabilire l’autorità dello stato. I partiti antifascisti, i politici liberali, l’opinione pubblica, le istituzioni e le forze economiche consideravano il fascismo un movimento destinato a esaurirsi in breve tempo, infatti ritennero necessario per risolvere il problema del fascismo, coinvolgere il Pnf nelle responsabilità di governo, non cedendogli il potere ma inserendolo in una coalizione presieduta da un esponente del vecchio ceto politico. Alla vigilia della marcia su Roma il duce proclamò che il fascismo rispettava la monarchia e l’esercito, riconosceva il valore della religione cattolica, intendeva attuare una politica liberista favorevole al capitale privato e restaurare l’ordine e la disciplina del paese. La marcia su Roma fu usata come arma di pressione e di ricatto sul governo e sul re per indurlo a cedere il potere al fascismo. L’insurrezione fascista si attuò in molte città dell’Italia settentrionale e centrale con l’occupazione di edifici governativi, poste e stazioni ferroviarie, e sarebbe certamente fallita in uno scontro con l’esercito regolare, ma la sua efficacia fu seminare la confusione ai vertici dello stato. In questo modo la mobilitazione fascista conseguì il massimo risultato col minimo rischio, perché riuscì a far fallire l’ipotesi di un governo Salandra o Giolitti auspicato dalla monarchia, dagli industriali e dagli stessi fascisti moderati, e fece prevalere alla fine la soluzione di un governo Mussolini dopo il rifiuto del re di decretare lo stato d’assedio per stroncare l’insurrezione squadrista. Il 31 ottobre Mussolini formò il nuovo governo, composto da fascisti, esponenti liberali, popolari, democratici e nazionalisti, ottenne la fiducia dalla Camera e del Senato che concessero anche i pieni poteri al presidente del consiglio per l’attuazione di riforme fiscali e amministrative. La marcia su Roma può essere

considerata storicamente il primo passo verso la distruzione dello stato liberale e l’instaurazione dello stato totalitario. Per sua natura il partito fascista era incompatibile con il regime parlamentare, tutta la sua azione fu diretta alla conquista del monopolio del potere usando sia l’arma terroristica sia le riforme parlamentari. La conquista del monopolio del potere avvenne attraverso diverse fasi che coincisero con l’espansione del predominio fascista nel paese. nella prima fase Mussolini attuò una politica di coalizione con i partiti disposti a collaborare, ma allo stesso tempo agì per disgregarli. Contro i partiti antifascisti Mussolini si servì anche di mezzi legali di repressione per ostacolare la loro attività. Subito dopo la marcia su Roma Mussolini iniziò la penetrazione del fascismo nelle regioni meridionali dove era stato quasi assente. Tra il 1924 e il 24 il Pnf fu investito da una gravissima crisi provocata dalle rivalità di interessi e ambizioni nella corsa all’arrembaggio delle cariche politiche, ma la crisi assunse anche un carattere politico con lo scontro tra i fascisti integralisti, che esaltavano il ruolo dello squadrismo e volevano una conquista totale del potere e per la costruzione dello stato fascista, e i fascisti revisionisti, fautori della similitarizzazione del Pnf. Giunto al potere Mussolini tolse al Pnf qualsiasi autonomia per sottoporlo alle sue direttive. Nel dicembre 1922 istituì il Gran consiglio di cui egli stesso era il presidente, organo che assunse la guida del partito e che divenne anche un governo ombra in cui furono preparate le leggi che avviarono la demolizione della democrazia parlamentare, come l’istituzione della milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Mussolini mirava a consolidare il suo potere attraverso il compromesso con le istituzioni tradizionali, con la chiesa e con il mondo economico. Per ottenere una maggioranza parlamentare più ampia e sicura fece varare una riforma elettorale, la legge Acerbo, che assegnava un premio di maggioranza alla lista vincente. Le elezioni politiche di aprile 1924 assicurarono una larga maggioranza al governo, ma l’assassinio del deputato socialista Matteotti e la secessione parlamentare della maggioranza dei deputati antifascisti fecero vacillare il governo. Con il discorso di Mussolini alla camera il 3 gennaio 1925, il fascismo diede inizio a una nuova fase di consolidamento e di ampliamento del proprio potere, la gestione della politica interna fu affidata a Federzoni che attuò la politica repressiva contro i partiti antifascisti e assecondò la politica mussoliniana di contenimento dell’estremismo fasciata. La segreteria del Pnf venne affidata a Farinacci che pretendeva di conservare l’autonomia del partito rispetto al governo, ponendo il segretario del Pnf, come capo del partito, sullo stesso piano di Mussolini come capo d...


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