LA CATARSI DI PLATONE PDF

Title LA CATARSI DI PLATONE
Author camilla patrignani
Course Cinema italiano
Institution Università degli Studi Roma Tre
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LA CATARSI DI PLATONE...


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La Catarsi

Nella Poetica di Aristotele il termine catarsi ricorre una volta soltanto, ma in una posizione saliente. Nel capitolo sesto, Aristotele enuncia la definizione della tragedia: tragedia è “imitazione di un’azione, seria e compiuta, dotata di una sua grandezza, in linguaggio addolcito da abbellimenti […] eseguita da agenti e non raccontata, tale che mediante la pietà e la paura porta a compimento la purificazione (katharsis) di siffatte passioni”1 . Il termine si incontra anche, sempre in riferimento ad un’arte, nella Politica, e ci siamo già imbattuti in esso quando abbiamo parlato delle emozioni in musica e riferito come Aristotele ritenesse che alcuni modi musicali vanno coltivati ai fini dell’educazione, altri a quelli “della catarsi”. In quella sede il filosofo rimandava esplicitamente alla Poetica: “che cosa intendiamo ora per catarsi ora accenniamo in modo generale, appresso lo diremo con più chiarezza nei trattati sulla poetica”2 . Siccome però nella Poetica di tale spiegazione non c’è traccia3 , probabilmente perché era contenuta nel secondo libro, andato perduto, oppure perché dicendo “nei trattati sulla poetica” Aristotele si riferiva ad un’altra sua opera andata perduta, noi moderni c troviamo in una situazione imbarazzante: non abbiamo quasi appigli sicuri per capire che cosa Aristotele intendesse con una nozione che tuttavia è straordinariamente importante, sia perché indica lo scopo, il fine precipuo della tragedia, sia perché spiega come agiscono in essa le emozioni fondamentali. L’imbarazzo è accresciuto dal fatto che la poetica occidentale, per almeno due millenni, ha compreso e illustrato il funzionamento delle emozioni nella fruizione artistica proprio attraverso la nozione di catarsi, che si trova ad essere, quindi, uno dei concetti centrali dell’estetica e della critica letteraria, e ha giocato, nell’ambito della questione che ci ha occupati in questo libro, cioè come si debba pensare la funzione delle emozioni nell’arte, un ruolo che è parso per secoli insuperabile. Sulla nozione di catarsi si cono così accumulate le interpretazioni, dapprima da parte di coloro che la utilizzavano per la costruzione delle proprie teorie del teatro e dell’arte, poi, a partire dall’Ottocento, quelle dei filologi e degli studiosi della poetica e della filosofia antiche4 . Tutto ciò rende estremamente complesso districarsi tra i vari sensi che sono stati attribuiti al concetto, ma al tempo stesso inevitabile farlo. A meno che, 1 Aristotele, Poetica, 1449 b 24-28. Citiamo dalla tr. it. di P. Donini, Torino, Einaudi 2008. 2 Aristotele, Politica, 1341 b 40-41. Citiamo dalla tr. it. di R. Laurenti, Bari, Laterza, 1973. 3 Nella Poetica si trova bensì una seconda occorrenza del termine (1455 b 15), ma essa non ha nessun rapporto con la

tragedia, e si riferisce alla purificazione religiosa. 4 Ovviamente una discussione approfondita esula completamente dagli scopi che ci proponiamo. Si può dire che ogni

edizione moderna della Poetica (ce ne sono una decina in Italiano) fornisce ragguagli sulla questione. Il volume a cura di M. Luserke, Die aristotelische Katharsis, Hildesheim, Olms, 1991 fornisce un’utile raccolta dei principali interventi critici sul tema che si sono avuti nell’Otto- e Novecento.

naturalmente, non si ritenga più facile ignorarlo, e pensare il rapporto tra emozioni e arte con i ferri nuovi che abbiamo visto nei capitoli precedenti, relegando la catarsi tra quelli vecchi dei quali basta sbarazzarsi il più rapidamente possibile. Già rimanendo alla lettera del testo, comunque, i problemi si affollano. Aristotele dice: la purificazione di siffatte passioni. Ma è un genitivo soggettivo (come quando dico: l’autorità del leader) o un genitivo oggettivo (come quando dico: il timore della sofferenza)? In altre parole, sono le passioni che ci liberano o siamo noi che ci liberiamo dalle passioni? Abbiamo a che fare con una liberazione dalle passioni o con una loro trasformazione? E di quali passioni stiamo parlando? Della pietà e della paura, certamente. Ma se il primo termine non sembra fare troppi problemi (qualcuno però traduce ‘compassione’, e già questo può suscitare un dubbio: per provare pietà debbo soffrire anch’io - com-patire - la passione del personaggio, o mi basta prendere atto che l’altro soffre?), il secondo ne ha suscitati parecchi. Se dico ‘terrore’, come pure alcuni fanno, non cambia forse molto; ma per uno dei più importanti interpreti della Poetica lungo la storia dell’estetica, il Lessing della Drammaturgia d’Amburgo (1767-68) ‘terrore’ era completamente sbagliato e la traduzione giusta era ‘timore’ (Furcht in Tedesco), perché il terrore ci travolge e ci annienta, mentre il timore (che quel che accade al protagonista accada a noi) ci porta a solidarizzare con lui (e infatti i Tedeschi di solito traducono “Furcht und Mitleid”, il timore e la compassione). E poi, le passioni in questione sono solo queste due, la pietà e la paura, o ce ne sono altre che entrano in gioco? Aristotele non dice “di queste passioni” ma “di siffatte” o “cosiffatte” passioni, lasciando intendere che oltre alla pietà e alla paura la catarsi possa riguardare anche altre emozioni, ma “consimili”; però qualcuno pensa che possa riguardare non le emozioni provate dagli spettatori ma quelle rappresentate sulla scena (e quindi, almeno in potenza, una gamma molto vasta di emozioni), e traduce “la purificazione che i patimenti rappresentati comportano” o “la purificazione propria di questo genere di azioni”5 . Questi dubbi non arrivano però a scalfire la centralità della catarsi per la interpretazione della tragedia e, in particolare, il suo ruolo di vero e proprio scopo finale della rappresentazione drammatica e di individuazione della risposta che esso suscita nel pubblico6 . Tutti gli altri elementi citati nella definizione, infatti riguardano gli aspetti per così dire strutturali della tragedia e descrivono come è fatta, non 5 Si tratta della tr. it. di C. Gallavotti, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1974 e di quella di M. Zanatta, Torino, UTET,

2004. 6 Per la verità nemmeno questo è del tutto pacifico, perché in quel mare magnum che è la letteratura critica sulla catarsi

non sono mancate, particolarmente in anni recenti, interpretazioni deflazionistiche che tendono a negare alla catarsi un ruolo centrale e addirittura ipotizzano che la frase che contiene il termine catarsi sia, nella Poetica, una glossa, ossia una interpolazione successiva. Si veda, ad es., S. Halliwell, Pleasure, Understanding and Emotion in Aristotle’s Poetics, in A. Oksenberg Rorty, Essays in Aristotle’s Poetics, Princeton, Princeton University Press, 1992 (ma Halliweel ha poi rivisto la sua interpretazione) e C. Veloso, Aristotle’s Poetics without katharsis, fear or pity, in “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, 2007, pp. 255-284.

l’effetto che fa. E da questo punto di vista è ovvio che Aristotele si dilunghi su di essi, dato che la sua è, eminentemente, una estetica dell’opera, non un’estetica dell’effetto o della fruizione e men che meno un’estetica del produttore, che si occupi cioè del ruolo dell’artista. Ma della reazione emozionale dello spettatore Aristotele si occupa in modo significativo, per esempio interrogandosi sulle condizioni che rendono possibile l’identificazione col personaggio e riprendendo, nei capitoli tredicesimo e quattordicesimo della Poetica, la questione dell’effetto della tragedia. Del poeta, ossia dell’autore della tragedia, invece, il filosofo si interessa davvero poco e potremmo trascurare quello che dice in proposito se Aristotele non si soffermasse proprio sulle emozioni dell’autore per sostenere, sorprendentemente, che il poeta deve provare lui per primo le passioni che rappresenta. Diciamo sorprendentemente perché faremo vedere come le emozioni dello spettatore, secondo Aristotele, non coincidono con quelle del personaggio e soprattutto subiscono una trasformazione che le rende diverse sia da quelle inizialmente provate sia da quelle esperite nella vita quotidiana, al di fuori del teatro (questo credo, è una soglia minima del significato della catarsi che, vedremo subito appare difficilmente negabile). Ci troviamo, insomma, di fronte a una situazione singolare: mentre, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, spesso chi vede continuità o addirittura coincidenza tra le emozioni ordinarie e quelle artistiche non per questo pensa che l’artista debba provare i sentimenti che descrive (lo abbiamo rilevato nell’esempio recente di Ferraris), Aristotele nega la coincidenza dal lato del fruitore mentre la teorizza dal lato dell’autore, e afferma che per indurre un’emozione bisogna provarla oi stessi: “Sono infatti più credibili coloro che, muovendo dalla medesima natura [dei loro personaggi] si trovano nelle situazioni emozionali [che descrivono]; esprime l’agitazione nel modo più reale chi è agitato e muove all’ira chi è adirato. Perciò l’arte poetica è propria di chi abbia una naturale versatilità o di un esaltato”7 . Torniamo alla catarsi. Per lungo tempo, a partire dai commenti rinascimentali, fioriti numerosi dopo che prima la traduzione in Latino di Giorgio Valla (1498), poi quella in Italiano di Bernardo Segni (1549) avevano rimesso al centro della considerazione un testo in precedenza sostanzialmente ignorato, a prevalere è stata l’interpretazione moralistica, ossia quella che fa derivare l’acquisto prodotto dall’assistere alla tragedia in un miglioramento delle nostre virtù etiche. Aristotele non era un nemico delle passioni: egli riteneva piuttosto che dovessero essere corrette e indirizzate, e soprattutto che dovessero essere mantenute in uno stato di moderazione e di equilibrio (il famoso giusto mezzo), e dunque è legittimo pensare che egli ritenesse che la tragedia potesse contribuire a quest’opera di ‘contenimento’ e di ‘educazione’ delle passioni. Quest’opera in largo senso pedagogica della tragedia si può però intendere in modi molto diversi. Ludovico Castelvetro, autore del più ampio 7 Aristotele, Poetica, 1455 a 31-34. Naturalmente questa presa di posizione potrebbe a sua volta essere interpretata e

andare soggetta a varie precisazioni: non è chiaro, per esempio, se Aristotele pensi ad una abilità artistica del poeta a trasferirsi nelle passioni del personaggio o a una vera e propria coincidenza di stati d’animo.

commento cinquecentesco, pensava ad esempio che la tragedia producesse una trasformazione delle passioni indicate in quelle contrarie: “con l’esempio suo e con la spessa rappresentazione fa i veditori di vili magnanimi, di paurosi sicuri, e di compassionevoli severi, avvezzandosi per la continua usanza delle cose degne di misericordia, di paura e di viltà ad essere né misericordiosi, né paurosi, né vili”8 , e insomma scacciasse la pietà e la paura sostituendole con le passioni contrarie. È come se la tragedia ci abituasse a ‘fare il callo’ di fronte alla sofferenza e alla disgrazia, proprio come accade nella vita quando, nostro malgrado, siamo esposti alla vista continua del dolore e della disperazione. Facile vedere il limite di questo modo di interpretare l’effetto morale della tragedia. Passi per la paura, che può essere eliminata senza troppe conseguenze; ma dove sarebbe l’acquisto di eliminare una passione tanto apprezzabile come la pietà? Ecco allora altri interpreti leggere la catarsi come la eliminazione non della paura e della pietà, ma delle passioni contrarie, per esempio l’invidia, l’odio, l’indifferenza e l’insensibilità. Ed ecco altri proporre che la catarsi non si traduca affatto in una eliminazione radicale delle passioni, ma piuttosto in una loro attenuazione. Agli occhi di questi ultimi, dunque, la catarsi agirebbe essenzialmente come una mitigazione e un alleggerimento della forza delle passioni: facendoci vedere quanto mutevoli sono le sorti dell’uomo, quanto è frequente passare dalla felicità alla rovina, la tragedia ci abituerebbe a non eccedere nel legarci ai beni passeggeri, e mettendoci di fronte disgrazie immani ci indurrebbe a dolerci di meo per quelle che ci toccano in sorte, che ci appariranno meno pesanti. La varietà di sensi che può avere l’interpretazione moralistica della catarsi si spiega anche col fatto che essa ha dominato la discussione sulla Poetica per quasi tre secoli, fornendo, al di là dei sui limiti, analisi molto interessanti delle due passioni fondamentali citate da Aristotele, la paura e la pietà. Lessing, per esempio, in pieno Settecento, è ancora tutto all’interno di questo tipo di spiegazione, ma al contempo fornisce una veduta interessantissima del ‘timore’ tragico e della sua relazione con la compassione. “Il timore di cui parla non è il sentimento suscitato in noi dal malanno che minaccia un altro, ma quello che sorge in noi per noi stessi in virtù della somiglianza che esiste fra noi e la persona colpita dalla disgrazia: è il timore di divenire oggetto anche noi di pietà”9 . Da qu il carattere del tutto transitorio delle passioni vissute a teatro: “Non appena la tragedia si è conclusa, cessa la nostra pietà, e nulla più resta in noi della provata commozione, se non il verisimile timore che il male, al quale abbiamo assistito, suscita per le nostre persone”10 . D’altra parte, la 8 L. Castelvetro, Poetica di Aristotele vulgarizzata e sposta (1570), ed. a cura di W. Romani, Bari, Laterza, 1978, vol. I

pp. 160-161. 9 G. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, tr. i. a c. di P. Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975. P. 332. 10 Ivi, p. 340.

stessa pietà o compassione è un sentimento complesso, nei confini del quale si possono scoprire cose interessanti. Per esempio, perché la compassione sembra manifestare una inclinazione speciale a coniugarsi con lo spettacolo teatrale? Qui lasciamo la parola a un interprete contemporaneo, buon conoscitore del dibattito secolare sulla Poetica. “la pietà sembra rendersi più intensamente disponibile in contesti in cui non c’è l’esigenza immediata di collegare l’emozione a un’azione”11 . La pietà si trova in un terreno di mezzo tra il pieno coinvolgimento psicologico e il distacco del puro riguardante. Significativamente, nella vita reale noi non proviamo compassione quando a soffrire è una persona alla quale siamo profondamente legati. Se nostro figlio soffre noi non lo compatiamo: soffriamo con lui, ci preoccupiamo per lui. Simmetricamente, se da passanti vediamo una persona ferita in un incidente stradale, la nostra compassione è sì immediata, ma superficialissima e spesso non esente da una deprecabile curiosità. “La pietà comporta un certo grado di compassione e compartecipazione che non esclude la percezione della differenza tra sé e l’oggetto della pietà. La pietà –soprattutto la pietà tragica – avvicina il pubblico al dolore altrui ma nello stesso tempo gli chiede e gli permette di avvertire le altrui sofferenze da un punto di vista diverso da quello di coloro che ne sono vittime”12 . Proprio così, e adesso forse capiamo meglio che cosa non andava nella installazione di Iñarritu Carne y arena dalla quale è cominciato il nostro discorso: semplicemente, Iñarritu non ha mai letto Aristotele. L’interpretazione etica della catarsi intende la purificazione come una purificazione morale, simile a quella alla quale si può andare incontro in un rito religioso; nel corso dell’Ottocento, invece, la filologia propone una interpretazione del tutto diversa: la purificazione va intesa in senso medico, e la pierà e la paura agiscono come un farmaco che aiuta evacuazione: la purificazione è, letteralmente, una purgazione. Questa lettura, avanzata da J. Bernays nel 1857 si appoggia sia a uno dei sensi prevalenti del termine katharsis in Greco (nel quale può designare, oltre che una purificazione rituale, anche il processo di liberazione delle viscere attraverso un medicamento), sia soprattutto a quel che Aristotele dice nella Politica nei riguardi della catarsi indotta da certe musiche (non quelle educative ma quelle entusiastiche, “che trascinano l’anima fuori di lei”). Tali generi musicali, infatti, ci fanno vedere gli ascoltatori ricondotti alla normalità, “come se avessero ricevuto una cura o una purificazione”13 . Per acuta che sia, tale interpretazione riconduce dal nostro punto di vista a problemi non troppo diversi da quelli appena visti. Resta aperta, infatti, la questione se questa ‘cura’ delle passioni agisca in modo omeopatico, cioè se le passioni vengano alleviate da passioni dello stesso tipo, oppure allopatico, ossia se ad 11 S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, tr. it. Palermo, Aesthetica, 2009, p. 191. 12 Ivi, p. 192-193. 13 Aristotele, Politica, 1342 a 11-12.

essere purgate siano passioni diverse da quelle direttamente eccitate. L’interpretazione omeopatica era già presente in uno scritto rinascimentale che anticipa dettagliatamente l’esegesi di Bernays, il De la purgazione della tragedia di L.Cremonini, del 1586: “Questa spezie di medicatura è da’ Greci chiamata ‘chatarsis’, ed il medicamento che in sé ritiene tale virtù è detto purgativo, et opera non come contrario et inimico, ma come simile et amico a l’umore”14 . Ma l’atrenativa tra allopatia e omeopatica non è l’unica difficoltà. Parlare di ‘purgazione’ in senso medico sembra implicare una completa evacuazione della pietà e della paura, come se si trattasse di condizioni in ogni senso patologiche, mentre il testo di Aristotele fa chiaramente intendere che nella tragedia queste passioni non sono un male indesiderato del quale sbarazzarsi, ma un effetto necessario e utile. Di qui il ripiego, di considerare la purgazione non proprio come una eliminazione, ma, di nuovo, come un affievolimento e un contemperamento delle emozioni originarie, che sarebbero dannose solo nel loro eccesso ed andrebbero ricondotte ad una presenza fisiologica. Con ciò, però, ritorniamo ad una soluzione non troppo dissimile da quella avanzata nel quadro della interpretazione etica: dannosa non è l’emozione in sé, ma il suo dispiegarsi incontrollato e selvaggio, tanto che l’azione dell’arte consiste precisamente nel limitare e addolcire l’effetto patetico, riconducendolo in un alveo nel quale può essere tenuto sotto controllo. Introducendo la propria definizione della tragedia Aristotele afferma esplicitamente che ogni parte di essa è ricavata dalle premesse precedenti, cioè da quello che ha detto nei cinque capitoletti che precedono quello in cui si enuncia la definizione. Ora, ciò appare confermato per tutte le componenti della definizione, tranne proprio per la menzione della catarsi. Ciò ha indotto molti interpreti, soprattutto novecenteschi, a chiedersi se non sia proprio questa la direzione in cui indagare. E muovendosi in questa direzione, l’unico aspetto che può fungere da anticipazione della catarsi è quel che Aristotele dice – e non è cero poco, dato che l’imitazione è l’essenza stessa dell’arte, per il filosofo – a proposito della mimesi. In effetti un limite evidente tanto della interpretazione moralistica quanto di quella medica sta nel fatto che nessuna delle due sembra in grado di ricollegarsi alla veduta generale dell’arte tragica propugnata da Aristotele. Non esiste nessuna evidenza che Aristotele assegnasse all’arte una funzione catartico-religiosa (o morale), e men che meno fisiologicomedica. È vero che la tragedia attica era un rito religioso, ma notoriamente Aristotele, in ciò straordinariamente moderno e perfettamente anti-nietzscheano, non si cura minimamente di tale carattere originario della tragedia, che ignora a favore di una lettura che oggi diremmo senza esitazione ‘estetica’. Ora, che l’essenza dell’arte, la mimesi o imitazione, abbia per Aristotele un carattere conoscitivo è cosa ben nota (il filosofo la spiega ricorrendo all’innato desiderio di 14 L. Giacomini, De la purgazione de la tragedia, in Trattati di Poetica e di Retorica del Cinquecento, a c. di B.

Weinberg, Bari, Laterza, 1972, vol. III, p. 354.

imparare che è proprio dell’essere umano), e ogni interpretazione che racchiuda la catarsi in un perimetro unicamente emozionale apre un solco difficilmente colmabile tra l’aspetto cognitivo e quello emotivo dell’arte. Non bisogna invece perdere di vista che Aristotele non parla mai di semplicemente di pietà e paura, cioè di queste emozioni come potremmo incontrarle nella vita reale, ma sempre di pietà e paur...


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