LA Città Degli Esclusi PDF

Title LA Città Degli Esclusi
Author Bruna De Martino
Course Filosofia del diritto
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
Pages 13
File Size 355.6 KB
File Type PDF
Total Downloads 34
Total Views 126

Summary

Riassunto libro ‘La città degli esclusi’, parte speciale...


Description

PREMESSA “Che cos’è oggi la cit tà per noi?” – si chiedeva Italo Cal vino, presentando a New York Le cit tà invisibili; e così proseguiva: “Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo av vicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle cit tà invivibili”. Il romanzo di Calvino presentava le città visitate e descrit te dall’instancabile mercante veneziano Marco Polo come “luoghi di scambi” in cui era sempre possibile cercare asilo, porti cui s’approdava fiduciosi dopo aver attraversato mari o deserti. Ne emergeva una caratteristica costante della cit tà come forma di vita associata: la sua capacità di far sentire protet ti, la sua attitudine a costituire un rifugio sicuro per tutti, cittadini e viandanti. La situazione oggi sembra capovolta. Le città stanno diventando i luoghi privilegiati in cui si consuma e soprattutto si esalta l’esclusione come forma prevalente di socializzazione. Forse è proprio la scomparsa dell’originaria vocazione delle città all’accoglienza e all’emancipazione, che le ha rese invivibili. Forse è proprio per reagire a questa tendenza che Italo Calvino scelse d’immaginare e descrivere cit tà affascinanti ma inesistenti. *** Nel corso della sua lunga storia la cit tà come paradigma della convivenza umana ha rappresentato una forma di vita basata sull’inclusione emancipatrice che prometteva e in parte realizzava nei confronti dei suoi cittadini. Questa forma di socializzazione subisce una drastica interruzione negli anni recenti della globalizzazione, quando le città, come ha scritto Zygmunt Bauman, diventano delle “discariche”. Vi prevale l’immaginario dell’esclusione. Dietro l’emarginazione di tutti coloro che non risultino funzionali alla massimizzazione immediata dei profitti, sono riconoscibili due fondamentali figure dell’esclusione contemporanea. Il primo grande escluso è lo spazio pubblico con la sua intrinseca inclusività, letteralmente asfaltato dalle privatizzazioni. Queste ultime investono l’insieme delle relazioni sociali, finendo col rendere ardua e difficile agli individui la possibilità stessa d’investire le proprie energie in oggetti socialmente valorizzati. Secondo un’acuta e ben conosciuta osser vazione di Jacques Lacan, ciò che viene espunto dal simbolico, ritorna nel reale: ne consegue, perciò, una depressione diffusa che però diventa pericolosamente reattiva, come si vede nei periodici accessi di collera e violenza. Ecco perché il secondo grande escluso è il futuro, divenuto semplicemente impensabile nella sua novità e imprevedibilità. La città globale appare imprigionata nel suo presente e perciò riluttante a cogliere le opportunità rappresentate dall’avvenire che spesso viene av vertito unicamente come minaccia. Le pagine seguenti si propongono di denunciare e contrastare questa egemonia dell’immaginario dell’esclusione. L’av venire non comporta soltanto criticità e problemi, ma al tempo stesso anche opportunità.

1. LA CITTÀ COME PARADIGMA DELLA CONVIVENZA SOCIALE Le prime città, (insieme di costruzioni finalizzate ad alloggiare gruppi di esseri umani e consentir loro l’esercizio delle proprie attività artigianali, commerciali, religiose e di governo), sorsero nel IV millennio a.C. nelle grandi civiltà fluviali situate in Mesopotamia, in Egitto, in India e in Cina. Tuttavia le più antiche esperienze di insediamenti umani in agglomerati di grotte, capanne e altre dimore rudimentali, per la prima volta stabiliti, sono attestate già alla fine del paleolitico, quindi ancor prima d’una delle primissime “città” come Gerico (le tracce risalgono all’8000 a.C.). Con questi iniziali stanziamenti di piccoli gruppi umani, fa la sua comparsa storica qualcosa in cui è riconoscibile il germe del villaggio. Quest’ultimo, però, è ben diverso dall’esperienza della città, caratterizzata da una netta distinzione fra le dimore della gente comune e quelle delle élites, e soprattutto dalla presenza di costruzioni collettive (mura, altari, templi, regge). L’enorme successo storico e socioculturale della città come modalità di convi venza degli esseri umani è attestato e confermato dal fatto che ormai vive in città più d’un terzo della popolazione mondiale, soprattutto ma non solo nei paesi industrializzati, la differenza tra città e non-città è ben difficile da determinare, poiché spazio urbano e società globale tendono a sovrapporsi. Tuttavia non è solo per questa sua prevalenza tanto sul piano storico quanto sul piano geografico, che la città può esser considerata il paradigma della convivenza sociale. Come hanno mostrato le ricerche di tanti studiosi, la caratteristica fondamentale della città è l’esperienza emancipatrice dell’inclusione sociale che vi si è realizzata. È questo il filo conduttore dell’analisi antropologico-filosofica che Marcel Hénaff ha recentemente dedicato al tema della città nel corso del processo di civilizzazione. Scrive Hénaff: “Da quando ci sono delle città (di qualsiasi genere esse siano), una certezza sembra imporsi: la città si costruisce e si organizza per essere di per sé stessa un mondo. Essa non è semplicemente un palazzo in cui risiede il principe con la sua corte, né un monastero, né una fortezza ; essa è il luogo in cui vivono tutti i membri della comunità; essa assorbe e organizza in funzione di sé stessa lo spazio che la circonda. E ancora: “In civiltà molto differenti tra loro, costruire una città vuol dire costruire un mondo. Se la città si presenta come un mondo è perché viene percepita come l’espressione di forze capaci di rifare il mondo. La città oppone il mondo prodotto al mondo di prima sentito come dato”. Sottolineando come caratteristica ricorrente della città la sua attitudine a contrapporsi al mondo già dato attraverso l’istituzione d’un mondo comune, Marcel Hénaff giunge a una conclusione analoga a quella cui era pervenuto Paul Ricœur in un testo degli anni Sessanta del secolo scorso , nel quale si mostrava come l’immagine della città sia sempre una conseguenza della forma specifica di volta in volta assunta dall’autorappresentazione dell’umanità. Scriveva Ricœur: “Sia che si pensi alle immagini mitiche della ‘città’ come forma visibile di un modello celeste (tutte le ‘città di Dio’), sia che si pensi all’identificazione greca tra la città e la cellula del politico (polis), c’è sempre un’immagine della città. Ebbene, noi moderni percepiamo la città come la principale testimonianza dell’energia umana: la città è l’opposto della terra, che è un prodotto della natura. La città è realizzazione del progetto umano. La città è sempre in progettazione, protesa verso il proprio futuro. La città è il luogo in cui l’uomo percepisce il cambiamento come progetto umano; il luogo in cui l’uomo intravede la propria ‘modernità’”. Le radici profonde di questa “modernità”, cioè della capacità di immaginare e progettare il proprio cambiamento, sono quindi da ritrovarsi nell’opposizione del mondo comune, cioè il mondo prodotto dalla convivenza umana, al mondo fino ad allora avvertito come dato immodificabile. Questa visione della città come “artificio” deve essere messa in relazione alla concezione della città come “mediazione” proposta dal filosofo marxista francese Henri Lefebvre. In questo testo, la denuncia dello sfruttamento dei lavoratori nella città neocapitalistica e la conseguente ri vendicazione d’una “pianificazione sociale” capace di riformare la città in senso rivoluzionario, venivano fondate su di un’esplicita visione della città come “mediazione”. Scriveva Lefebvre: “A segnare la città sono stati atti e agenti locali ma anche i rapporti impersonali di produzione e di proprietà e, di conseguenza, le classi e la lotta di classe, dunque tutte le ideologie. La proiezione del globale sul terreno e sul piano specifico della città si realizza solo attraverso mediazioni. La città è il luogo, il prodotto delle mediazioni, il terreno delle loro attività, l’oggetto e l’obiettivo delle loro proposte”. Su questa base, Lefebvre avanzava “una prima definizione di città come proiezione della società sul territorio” e aggiungeva “A essere iscritto e proiettato non è solo un ordine remoto, una globalità sociale, ma anche un tempo, o meglio dei tempi, dei ritmi. Da queste parole di Lefebvre risulta evidente il carattere storico-sociale della nozione di “mediazione” da lui evocata per definire la città. È una mediazione che s’incarna e si sedimenta nel concreto della vita urbana, che attraversa e dà forma alle istituzioni, e che in tal modo rende possibile “il diritto alla città”, in quanto quest’ultimo “si presenta come forma superiore di diritti, come diritto alla libertà. La città che si trasforma attraverso le lotte dei lavoratori diventa il luogo privilegiato della rivendicazione dei diritti negati o minacciati dagli sviluppi dell’industrializzazione neocapitalistica. Da qui la denuncia di Lefebvre: “Lo Stato e l’impresa si sforzano di assorbire la città, di sopprimerla in quanto tale, e lo fanno attraverso l’omogeneizzazione degli stili di vita e la colonizzazione della vita quotidiana da parte della tecnica industriale. Al contrario, nella prospettiva politica di Lefebvre, solo le rivendicazioni rivoluzionarie portate avanti dalla classe operaia nella città che si rinnova potranno realizzare la connessione virtuosa tra industrializzazione e urbanizzazione, liberando la vita urbana dagli “antichi limiti della povertà e dell’economismo, ma evitando al tempo stesso di ritenere “necessaria e sufficiente” la sola razionalità industriale, distruggendo in tal modo “il senso (l’orientamento, lo scopo) del processo. Per Lefebvre, in conclusione, “la riforma urbana ha una portata ri voluzionaria, il cui protagonista – nelle parole attraverso le quali Saskia Sassen ha riassunto il punto di vista di Lefebvre – sarà prioritariamente la città intesa come “sito strategico per le lotte della forza lavoro industriale alla conquista dei suoi diritti”.

Torniamo ora alle implicazioni concettuali della visione della città come istituzione d’un mondo comune, in quanto essa costituisce la prima manifestazione dell’attitudine più propria della città, consistente nella possibile trasformazione (più o meno rivoluzionaria) del dato in prodotto. Il risultato di questa operazione o di questo inter vento rigorosamente artificiale – aggettivo che va sottolineato, perché l’intervento in questione risulta sprovvisto d’un modello naturale preesistente da mettere in opera attraverso l’imitazione – è la costituzione dello spazio urbano come luogo di convivenza dei diversi. Tale caratteristica iniziale della comunità cittadina, in cui convivono individui con una variegata molteplicità di ruoli, funzioni e aspettative, è molto probabilmente alla base dell’inarrestabile successo della città come forma storicamente privilegiata di aggregazione umana. Infatti, è verosimile che proprio da ciò tragga origine l’enorme forza di attrazione della città su generazioni e generazioni di individui, sempre di nuovo indotti e come allettati a fare il loro ingresso in un contesto ritenuto in grado di assimilarne e integrarne le diversità. E così la città fa diventare i suoi membri sempre più consapevolmente i protagonisti del proprio cambiamento, cioè gli artefici d’un mondo comune, prodotto esclusivamente dalla loro convivenza. Già Aristotele, proprio all’inizio del suo trattato sulla Politica, sostiene che “ogni città (polis) è una comunità”. In una celebre pagina Aristotele invita a riconoscere che la comunità cittadina s’origina esclusivamente dallo scambio tra individui che risultino tra loro diversi e perciò non uguali; tra costoro, di conseguenza, deve aver luogo una mediazione che si rivela al tempo stesso un’istituzione creativa. (non da due medici sorge una comunità, ma da un medico e da un contadino, e in generale da diversi e non da uguali: eppure occorre che siano resi uguali in qualche modo. A questo scopo è sopraggiunta la moneta ed essa è in un certo senso un termine medio, misura ogni cosa. Se non si avrà questo, non vi sarà scambio e neppure comunità. Bisogna dunque che ogni cosa venga misurata in rapporto ad un’unica unità di misura. La moneta è diventata per convenzione un sostituto del bisogno: per questo ha il nome di moneta, perché esiste per legge e dipende da noi cambiarla e toglierla dalla circolazione”. Alla base della città, c’è dunque l’intreccio fra originarietà dello scambio e alterità degli individui e delle opere che costoro si scambiano. Ed è a questo livello fondamentale che si costituisce l’omogeneizzazione delle cose e dei servizi che rende possibile la convivenza dei diversi all’interno della città. Le tante transazioni empiriche che costituiscono la quotidianità di quest’ultima e grazie alle quali si realizza lo scambio di cose e servizi, transazioni effettuate dapprima “immediatamente” attraverso il baratto e poi attraverso la “mediazione” della moneta, risultano altrettante materializzazioni della transazione essenziale, che si scopre alla base della koinōnia, anzi che la costituisce. In questo senso, la mediazione o istituzione originaria è la stessa koinōnia, cioè la comunità cittadina, in quanto essa esige e realizza la co-originaria instaurazione di un’uguaglianza tra le irriducibili alterità degli individui. Tale uguaglianza, che non può precedere la relazione sociale, ne è al tempo stesso il primo effetto e l’imprescindibile condizione di possibilità. Proprio perché “occorre che siano resi uguali” quegli individui che in quanto tali sono “diversi e non uguali”, la convivenza umana di volta in volta effettiva, ha il compito di far diventare uguali i diversi, cioè di rendere commensurabili le opere che costoro si scambiano, istituendo uno spazio in cui possa aver luogo il loro eguagliamento. L’istituzione del comune è perciò da intendersi come la creazione di una dimensione inclusiva, capace di integrare al suo interno le diverse individualità che la costituiscono.

Questo riferimento ad Aristotele rende opportuna e necessaria una precisazione storica. Il carattere inclusivo e la portata emancipatrice del mondo comune istituito da quest’ultima vanno ricondotti alla specificità della città europea. Già nel grande libro postumo di Max Weber sulla città, un ruolo capitale veniva riser vato a ciò che egli chiamava “la città dell’Occidente”, da lui indagata nelle sue differenze rispetto alla città asiatica (è esattamente tra l’età delle guerre persiane e l’età di Alessandro Magno, che si forma “il senso di una Europa opposta all’Asia, per costumi, e soprattutto per organizzazione politica; una Europa che rappresenta lo spirito di ‘libertà’ contro il ‘dispotismo’ asiatico”) Vale la pena di effettuare qui una breve digressione. In questa germinale “coscienza” europea, ciò che funge da termine di riferimento esterno, ossia da luogo dell’alterità ambigua e tentatrice, è l’Asia, cioè l’Oriente. Come ha scritto Edward Said, “la linea di confine tra Oriente e Occidente appariva già netta all’epoca dell’Iliade. L’Europa è forte e ben strutturata, l’Asia è lontana e sconfitta. Vi è nelle due tragedie il tema dell’Oriente come pericolo e insidia. È l’Europa a dare forma, intelligibilità all’Oriente. Il modo in cui lo fa non è quello del burattinaio, ma piuttosto quello dell’artista, guidato da un autentico ingegno creativo. Di questa “creatività” della coscienza europea, la città greca – la polis – nel mondo antico ha senza dubbio costituito l’origine. Torniamo alla differenza specifica della città europea. In realtà, è proprio e solo in Europa, nella cosiddetta età comunale, che la città assume il significato sociale e politico d’una forma emancipatrice di convivenza. In questo contesto il modello-città si lega al progetto dell’inclusione liberatrice. Come riassume Castoriadis, in stretta continuità con le analisi weberiane, “se nella maggioranza degli altri casi, le città sono state fortezze del potere di un’aristocrazia, la storia europea ha creato delle città a carattere completamente diverso. La storia europea crea – e viene a sua volta creata da – un nuovo tipo di città: la polis, la città fatta da e per i cittadini (politai, Bürger) in quanto soggetti politici che mirano a partecipare in modo esplicito e in accordo a determinate procedure formali al governo della propria comunità. La stessa parola politica deriva da qui: la politica è l’attività che si relaziona all’autogoverno della polis, della comunità autonoma (struttura materiale e urbana). Mentre nella città imperiale e burocratica il centro è in linea generale occupato dalla dimora (pubblica-privata-sacra) dell’Imperatore o del Re, luogo in cui sono trattati tutti gli affari del governo, nella polis greca il centro è materialmente uno spazio aperto dove i cittadini si riuniscono, discutono e prendono decisioni (agora e ecclesia). Il crollo delle città segna l’inizio del vero e proprio Medio Evo. E la fine di quest’ultimo comincia con la comparsa, d’un nuovo tipo di città. Molte di esse, in particolare in Italia e nei Paesi Bassi, sono divenute rapidamente il focolaio di un’intensa vita intellettuale e politica, grazie alla quale la borghesia entrava in una situazione di forte opposizione ai poteri stabiliti (i signori feudali, la Chiesa o la nascente monarchia). Die Stadtluft macht frei, l’aria della città rende liberi: il vecchio modo di dire tedesco ha un significato tanto giuridico che sociale-storico. Sotto la monarchia assoluta le città sono diventate il principale ‘potere compensatore’ nei confronti dello Stato. Non è un caso che a partire dal XVIII secolo non pochi autori hanno cominciato a pensare in funzione di una distinzione tra la ‘s ocietà civile’ (bürgerliche Gesellschaf t) e lo Stato. La società civile è, essenzialmente, la società delle città. Questa società afferma la sua creatività politica a partire dal 1789. Da questa lunga citazione di Castoriadis soffermiamoci su, l’equazione da lui stabilita tra la città e la società civile contrapposta allo Stato; si sottolinea la forza inclusiva ed emancipatrice del modello-città, che in Occidente è stata a lungo una sua caratteristica fondamentale.

Nel corso della storia europea, la città ha reso possibile l’istituzione d’un mondo di volta in volta comune a una molteplicità di individui “diversi e non uguali”. In questo senso, la convivenza urbana ha avuto nella storia europea un carattere al tempo stesso inclusivo ed emancipatore, accentuato dall’analisi della differenza tra il modello greco della polis e quello più tardo della civitas romana, che grazie alla diffusione del cristianesimo ha finito per imporsi. In che consiste la divergenza tra la polis greca e la civitas romana? La polis è in greco antico il termine da cui poi deriva il vocabolo che designa i cittadini (i polites); a Roma accade il contrario: sono i cives, i cittadini, a precedere e dare origine alla civitas. Nel caso greco c’è una precedenza etimologica e una prevalenza sostanziale della polis sui polites; Aristotele parla addirittura di indubitabile superiorità della prima sui secondi, dal momento che il tutto è superiore alle parti che lo costituiscono. Ciò ha come sua conseguenza un assai forte legame della polis greca col territorio e col genos, cioè con la stirpe che le ha dato origine. Perciò nell’antica polis, fondata sull’appartenenza, gli autoctoni, coloro nati dalla stessa terra della città, risultavano intrinsecamente privilegiati rispetto ai meteci (cioè agli stranieri liberi, seppur stabilmente residenti, che venivano discriminati per il solo fatto di esser nati altrove). La civitas romana, invece non presupponeva nei suoi cives la condivisione della medesima origine, ma nasceva dall’individuazione di un fine comune, cioè la convivenza pacifica sotto la medesima legge. Come riassume efficacemente Umberto Curi, “la civitas romana è il confluire di diversi cives che sono tra di loro differenti per religione, cultura, etnia e che si danno tuttavia le stesse leggi e che vivono quindi nella pax che è assicurata dalla concordia romana. La conseguenza più rilevante di questo modello di città è che la città è sempre mobile, dinamica. Essa è costantemente crescente e tende ad un’espansione che conduca a trasformare l’orbis, l’intera struttura del mondo, in urbs, cioè in città”. Il modello di città risultato vincente nella storia europea è stato quello della civitas romana...


Similar Free PDFs