La morte di Ivan Il\'ic: riassunto e analisi PDF

Title La morte di Ivan Il\'ic: riassunto e analisi
Course Letteratura russa 
Institution Università degli Studi di Udine
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Riassunto dell'opera per capitoli con analisi e commento. ...


Description

La morte di Ivan Il’ič Lev Tolstoj, 1886 Cap. I Nell’edificio degli uffici di giustizia giunge la notizia della morte di Ivan Il’ič; i colleghi pensano a chi di loro prenderà il suo posto, a come questa morte influirà nel loro lavoro. Era una morte inaspettata, i colleghi discutono tra loro su come lo avevano visto l’ultima volta che erano andati a trovarlo e pensano che per fortuna la morte era toccata a lui e non a loro. Pëtr Ivanovic, che gli era stato compagno di studi a giurisprudenza, ed essendo uno dei colleghi più intimi, si sentì in dovere di andare a far visita alla moglie del defunto. Giunto nell’abitazione, salì nella stanza di Ivan per l’ultimo saluto, ma questa visita lo turbò; successivamente trattenne una conversazione con la vedova Praskov’ja Fëdorovna, la quale voleva sapere come riuscire ad ottenere qualche rublo in più dalla pensione del marito. In seguito si svolse la funzione funebre e una volta finita raggiunse gli amici per la partita di whist.

Cap. II Vengono descritte le origini di Ivan Il’ič; Ivan Il’ič moriva a 45 anni, consigliere di corte d’appello. Egli era figlio di un funzionario di Pietroburgo, un consigliere segreto ed era il secondo di tre fratelli; era un uomo “intelligente, arguto, piacevole e a modo”. Aveva compiuto gli studi di giurisprudenza ed era diventato “un uomo abile, socievole e pieno di bonarietà, ma capace di svolgere con severità quello che riteneva essere suo dovere; e riteneva essere suo dovere tutto quello che le persone altolocate ritenevano tale”. “Fin dagli anni della giovinezza si sentì attratto, come una mosca dalla luce dalle persone a lui per posizione sociale” e con queste mantenne rapporti d’amicizia e seguì i loro comportamenti. Terminata la scuola, partì per la provincia dove il padre gli aveva procurato un posto di funzionario con incarichi speciali presso l’ufficio del governatore. Dopo cinque anni di servizio, gli venne offerto un posto di giudice istruttore: Ivan accettò l’incarico. Nel lavoro egli “s’impadronì rapidamente della tecnica di allontanare da sé tutte quelle circostanze che non avessero un rapporto diretto con il lavoro”. Trasferitosi in questa nuova città, fece nuove conoscenze, trovò piacere nel giocare a whist e dopo due anni di servizio nella nuova città incontrò la sua futura moglie Praskov’ja Fëdorovna. Attraverso le danze- un altro modo che aveva per dimostrare di essere migliore degli altri- la conquistò; Praskov’ja Fëdorovna “era di buona schiatta nobiliare, e piacente: e aveva un modesto capitale”. Ivan Il’ič non aveva idee chiare circa il matrimonio, ma la sposò “facendo cosa grata a sé stesso prendendosi una donna del genere e al tempo stesso faceva quel che gente assai altolocata riteneva giusto”. Il matrimonio procedette bene fino alla prima gravidanza, quando la moglie cominciò a turbare il piacere e il decoro della vita; Ivan Il’ič attraverso il lavoro circoscrisse un suo mondo indipendente: si mise ad amare di più il suo lavoro, in esso trovava il suo piacere. Con la nascita del figlio, il bisogno di circoscriversi un mondo al di fuori della famiglia divenne ancora più impellente; divenne sostituto procuratore e dopo sette anni di servizio, venne trasferito a un posto di procuratore in un altro governatorato. Morirono due figli e la vita familiare si fece sempre più pesante; nel mondo del lavoro si concentrava tutto l’interesse della sua vita.

Cap. III Ivan Il’ič visse così per 17 anni dopo il matrimonio; in attesa di un posto più appetibile aveva rifiutato alcuni trasferimenti, ma improvvisamente si verificò una circostanza spiacevole: un suo collega Hoppe gli passò davanti. Ivan non sopportò il fatto e si scontrò con i suoi superiori; tutto questo a suo scapito poiché non ottenne alcuna promozione. Il 1880 fu l’anno più pesante per Ivan Il’ič; si rese conto che tutti lo avevano abbandonati. Si trasferì in campagna con la moglie, presso il fratello di quest’ultima; trovatosi senza lavorò fu preso da un’angoscia insopportabile e decise di recarsi a Pietroburgo con l’obiettivo di ottenere “un posto con uno stipendio di cinquemila rubli”. Grazie all’aiuto del suo compagno di studi Zachàr, Ivan ricevette una nomina che lo metteva due gradini al di sopra dei suo colleghi: ottenuto questo ambito posto, si dimenticò di quanto fosse successo e tornò in campagna per riferire alla moglie ciò che fosse accaduto.

Gli sembrava che “la sua vita zoppicante stesse tornando ad assumere il carattere autentico che le era proprio, di allegra piacevolezza e decoro”. Dovendo prendere servizio il 10 settembre, Ivan si trasferì a Pietroburgo prima dell’arrivo della famiglia, trovò un appartamento incantevole e lo sistemò, cercando di conferirne un carattere aristocratico; “in realtà tutto era come nelle case di certe persone non propriamente ricche, ma che ai ricchi vogliono assomigliare”. Un giorno salì su una scaletta, inciampò e cadde, picchiando con il fianco la maniglia di una finestra; la botta gli fece male, ma poi il dolore passò. La moglie e i figli lo raggiunsero; attorno a sé egli seppe riunire la migliore società. “Le gioie autentiche di Ivan Il’ič erano le gioie del whist”.

Cap. IV Tutti erano sani, nonostante alcuna volte Ivan lamentasse uno starno sapore in bocca e un fastidio nella parte sinistra del ventre; questo dolore cominciò ad accentuarsi e si trasformò in una cattiva disposizione di spirito. La situazione familiare peggiorò e si cercò di mantenere in piedi solo il decoro. La moglie stessa, a causa dell’atteggiamento del marito, du più volte vicina a desiderarne la morte, ma l’unico freno era il pensiero che mancato il marito, sarebbe mancato anche lo stipendio. Un giorno Ivan Il’ič ammise di essere facilmente irritabile, ma aggiunse che ciò era causato dalla malattia. Si fece visitare da uno dei medici migliori della città, il quale però non espresse un giudizio definitivo sulla sua malattia, ma gli disse che era necessario attendere l’esame delle urine. La sua diagnosi fu: “rene mobile, catarro cronico e affezione dell’intestino cieco”. Nonostante quello che gli avesse detto il dottore, Ivan trasse la conclusione che per lui le cose si stavano mettendo male: “quel dolore, un dolore sordo, prolungato, che non cessava mai”. Cominciò ad interessarsi di medicina; visitò altri medici, ciascuno dei quali aveva pareri differenti e in tutto questo la famiglia-in particolare la moglie e la figlia- rimasero indifferenti. La moglie, anzi, riteneva che il colpevole della malattia fosse il marito stesso e che la malattia stessa fosse un nuovo fastidio che egli dava alla moglie. Qualsiasi insuccesso lo portava alla disperazione, il dolore continuava ad aumentare e le sue forze diminuivano; durante le partite di whist aveva l’impressione di trasmettere la propria la propria tetraggine agli amici. Sentiva di “vivere al limite dell’annientamento, da solo, senza che nessuna persona lo comprendesse e ne provasse compassione”.

Cap. V Trascorsero alcuni mesi, prima di capodanno giunse da loro il cognato; questi quando vide Ivan Il’ič rimase a bocca aperta e ad Ivan fu tutto chiaro. Egli chiese al cognato se fosse cambiato, questo gli rispose che un cambiamento c’era stato. Uscì; Ivan si mise davanti allo specchio, prese un ritratto e lo paragonò a ciò che vedeva allo specchio: “il cambiamento era enorme”. Uscito anche lui dalla stanza sentì il cognato dire alla moglie “è un uomo morto, guardagli gli occhi”. Nessun dottore sapeva che cosa avesse, così Ivan decise di andare dall’amico Pëtr Ivanovic, il quale a sua volta aveva un amico dottore. Il medico gli disse che si trattava di una cosa nell’intestino cieco, ma che con l’assorbimento della cosa tutto si sarebbe sistemato. Rientrato a casa pranzò, successivamente andò nel suo studio a lavorare, ma il suo pensiero era fisso all’intestino cieco. Andò in salotto per il tè, dove c’erano degli ospiti, ma alle undici andò a letto. Dall’inizio della malattia dormiva solo, in una stanzetta annessa allo studio. Si stese sul letto e dopo un momento in cui il dolore sembrava passato, ecco che sentì quel sordo dolore e quel sapore in bocca. Ad un tratto la questione gli si presentò sotto un altro punto di vista: “la questione non è l’intestino cieco, non è il rene, ma è la vita e…la morte”. Si disse che a tutti, tranne che a lui era evidente che stesse morendo; c’era la luce e adesso le tenebre. Si chiese che cosa ci fosse, qualora non ci fosse più; possibile che fosse la morte? Si rispose di sì, “è la morte […], per loro la cosa è indifferente, ma anche loro moriranno” disse sentendo la musica che proveniva dal salotto degli ospiti. Ivan Il’ič sentiva avvicinarsi l’abisso. Accompagnati gli ospiti all’uscita, la moglie entrò nella sua stanza; gli chiese se non fosse il caso di chiamare il celebre dottore, ma lui disse di no.

Cap. VI Ivan Il’ič vedeva che stava morendo; nel profondo del suo animo sapeva che stava morendo, ma non solo non accettava la cosa, non la comprendeva. Si ricordò di quel sillogismo che aveva studiato nella logica di Kizevetter: “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”, ma per tutto il tempo quel sillogismo gli era sembrato giusto nei confronti di Caio, ma insensato nei suoi confronti; Ivan non si sentiva Caio. Non gli sembrava possibile che dovesse morire; cercava di distrarsi attraverso il lavoro, ma lei c’era sempre. Si rese conto che se per mezzo del lavoro era fuggito alla famiglia, davanti a lei (la morte) ciò non era possibile. Si chiedeva “Possibile che solo lei sia la verità?”. Andava in salotto, in quel luogo dove era avvenuta quella contusione che aveva generato la malattia, sistemava le cose, ma aveva l’impressione che lei fosse li. Andò nel suo studio e rimase con lei.

Cap. VII Al terzo mese della malattia di Ivan Il’ič avvenne quel che tutti, anche lui steso sapevano. Tutti sembravano interessati a lui perché in breve tempo avrebbe lasciato loro il posto, avrebbe liberato gli altri dalla sua presenza e avrebbe liberato sé stesso dalla sofferenza. Gli venivano preparati cibi particolari, persino per la sua defecazione doveva occuparsi un’altra persona: “ma proprio in questa cosa tanti spiacevole venne un conforto per Ivan Il’ič”. A portar via le sue feci era Gerasim, un giovane muzik, sempre allegro e sereno. Insieme a lui Ivan Il’ič stava bene, gli chiedeva di tenergli le gambe sollevate e nel frattempo amava conversare con lui. In questo momento il principale tormento di Ivan Il’ič era la menzogna, lo tormentava il fatto che gli altri non riconoscessero ciò che gli stava succedendo e che tentassero di portare anche lui in questa menzogna. Vedeva che nessuno aveva compassione per lui perché nessuno comprendeva la sua situazione; “il solo Gerasim comprendeva questa situazione e aveva compassione per lui”. Gerasim non mentiva, né sentiva il bisogno di nascondere la realtà, anzi egli stesso disse ad Ivan “tutti moriremo” e si prendeva cura di Ivan nella speranza che qualcuno a sua volta si sarebbe preso cura di lui al momento della morte. “La cosa più tormentose per Ivan Il’ič era che nessuno lo compatisse così come egli avrebbe voluto lo compatissero”: egli voleva desiderava che qualcuno piangesse per lui, che lo accarezzasse, che lo baciasse.

Cap. VIII Era mattina, ma Ivan lo sapeva solo perché Gerasim era andato via ed era arrivato Pëtr; tutti i minuti, le ore, i giorni per lui erano uguali: tutto era sempre lo stesso, anche il dolore. Il valletto gli chiese se volesse del tè, dopo un po' di tentennamento gli rispose di sì, ma fatico a berlo. La moglie era ancora a letto. Dopo un paio d’ore arrivò il medico, lo visitò, ma Ivan Il’ič sapeva che si trattava di una menzogna; entro nella stanza anche sua moglie, piena di vita e lui provò odio nei suoi confronti. La donna aveva invitato anche il celebre medico affinché i due dottori potessero confrontarsi, ma Ivan sapeva che –nonostante ella dicesse che quello che faceva lo faceva per il marito- in realtà lei lo faceva per sé stessa. Dopo cena, entrò in camera la moglie vestita da sera, pronta per andare a teatro; chiese se potesse far entrare i figli. Entrò la figlia, mettendo in mostra il suo corpo giovane e in salute, poi il fidanzato e per ultimo il figlio ginnasiale: il suo sguardo era spaventato e partecipe del dolore del padre. In quel momento a Ivan Il’ič sembrò che -oltre a Gerasim- anche il figlio lo capisse e provasse compassione per lui. Uscirono tutti dalla stanza e Ivan si sentì liberato dalla menzogna, ma il dolore rimaneva e “sempre più terribile si faceva l’ineluttabile fine”. Chiese che gli mandassero Gerasim.

Cap. IX Tornata da teatro, la moglie entrò nella sua stanza, gli chiese se soffrisse e gli disse di prendere dell’oppio; così fece e dopo un po' chiese anche a Gerasim di lasciarlo solo. Quando fu sicuro che Gerasim era nell’altra stanza si mise a “piangere come un bimbo”: piangeva per la propria impotenza, per la sua solitudine, per la crudeltà degli uomini e di Dio, piangeva per l’assenza di Dio. Smise di piangere e prestò attenzione ad una voce, era la voce dell’anima che gli chiese che cosa volesse: egli rispose “vivere”. La voce allora gli chiese come volesse vivere ed egli rispose che voleva vivere bene e piacevolmente, come prima: ma fu in quell’istante che i momenti che prima gli apparivano i migliori della sua vita, ora gli apparivano completamente diversi. “tutte quelle cose che un tempo gli erano sembrate fonte di

gioia prendevano ora a disfarsi sotto i suoi occhi, e a frantumarsi in un che d’insignificante e spesso ripugnante”. Tutto ad eccezione dei ricordi d’infanzia, ma allontanandosi dall’infanzia verso il presente tutto gli appariva insignificante. “Forse non ho vissuto come avrei dovuto?” gli venne in mente; cercò di allontanare da sé quell’enigma, ma questo pensiero permaneva.

Cap. X Trascorsero due settimane, Ivan Il’ič non si alzava più dal divano; in solitudine pensava se fosse possibile che si trattasse della morte e la voce interiore gli rispondeva di sì. Dall’inizio della malattia in lui c’erano due stati d’animo opposti, ma con il progredire della malattia, più fantasiose si erano fatte le speranze e maggiore la consapevolezza della morte incombente. Nell’ultimo periodo della sua solitudine, egli aveva vissuto unicamente della sua immaginazione, rivolta sempre al passato. Piacevoli erano i ricordi d’infanzia e “più si andava all’indietro e più si trovava vita”. Gli sembrava che così come le sofferenze peggioravano avanzando la malattia, così proseguendo la sua vita non aveva fatto altro che peggiorare.

Cap. XI Trascorsero due settimane, nel frattempo alla figlia venne fatta la proposta formale di matrimonio, ma quella stessa notte le condizioni di Ivan Il’ič erano peggiorate. La mattina seguente la moglie entrò in camera per dargli la notizia, ma senza che lei finisse di parlare lui le gridò di lasciarlo morire in pace. In quello stesso istante entrò la figlia, la quale si diceva di non aver colpa per la malattia del padre; entrò anche il medico, ma Ivan conosceva la sua condizione e disse al dottore che non poteva fare più niente per lui. Ma quello che più faceva soffrire Ivan non erano le sofferenze fisiche, bensì quelle morali e fu allora che, osservando Gerasim, gli tornò il pensiero: “e se effettivamente tutta la mia vita, la mia vita cosciente, non fosse stata come doveva essere?”. E se così fosse stato, egli se ne sarebbe andato dalla vita avendo distrutto ciò che gli era stato dato. Il mattino seguente giunse il parroco per i sacramenti; lo confessò e avvertì una sosta di sollievo dai suoi dubbi e dalle sue sofferenze. Dopo la comunione si sentì meglio e gli apparve di nuovo la speranza della vita: “vivere, voglio vivere, si diceva”. Giunse la moglie, ma ogni cosa in lei gli diceva un’unica cosa: “non è come dovrebbe essere. Tutto quello di cui hai vissuto e vivi è menzogna, inganno, che ti nasconde la vita e la morte”. Lui le chiese di andarsene, di lasciarlo.

Cap. XII Da quell’istante era cominciato quel grido che non si era interrotto per tre giorni; lo si sentiva a due stanze di distanza. Dal momento in cui aveva risposto di sì alla moglie, Ivan Il’ič aveva capito di essere perduto, che era giunta la fine e che il suo dubbio non era stato risolto. Cominciò a gridare «uh, non voglio», ma continuò a gridare solo la lettera U (che in russo era la lettera finale della parola non voglio). Per tre giorni continuò e si dibatteva così come si dibatte il condannato a morte tra le mani del boia; per lui non c’era salvezza e si avvicinava sempre più a quel punto che tanto gli faceva orrore. Alla fine del terzo giorno, un’ora prima di morire che tutto non era stato come sarebbe dovuto essere. In quell’istante il figlio ginnasiale entrò nella stanza del padre, Ivan gli toccò la testa con la mano, il figlio la prese, la portò alla bocca e la baciò: in quell’istante Ivan vide la luce, “gli si rivelò che la sua vita non era stata come sarebbe dovuta essere”, ma vi si poteva ancora porre rimedio. Ivan Il’ič aprì gli occhi, guardò il figlio e provò pietà per lui; guardò la moglie: aveva pietà di loro, bisognava fare in modo che non provassero sofferenza, né loro, né lui. Si domandò dove fosse andato il dolore, e “la morte dov’è?”: cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. “Non c’era nessuna paura perché non c’era nemmeno la morte. Al posto della morte c’era la luce”. Tutto ciò per lui avvenne in un attimo, per parenti l’agonia si protrasse per altre due ore. Qualcuno ad un certo punto disse “è finita”; sentendo queste parole Ivan Il’ič ripeté nella sua anima “è finita la morte, non esiste più”. Inspirò l’aria e morì.

Analisi tratta dalla dispensa La morte di Ivan Il’ič è un’opera a cui Tolstoj lavora dal 1880 al 1886, anno in cui viene pubblicata. Sin dal titolo, musicale, sono molteplici i richiami evangelici; Ivan è la traduzione russa di Giovanni (il vangelo di Giovanni è il più spirituale), mentre il patronimico Il’ič vuol dire figlio di Elia, altro richiamo biblicoevangelico. Quest’opera è la descrizione del passaggio da una meccanica quotidianità alla sensazione di una malattia che avanza gradualmente, all’esperienza della condizione che precede la morte e del momento stesso della morte. La descrizione prende le mosse dalla visione del cadavere –dopo che era giunta la notizia della morte ai colleghi di lavoro- e, attraverso la narrazione della carriera e vita familiare di Ivan, si concentra sulla condizione interiore del protagonista. Nella sua solitudine, egli si rende conto che quella che ha vissuto non è stata la vita che avrebbe dovuto vivere, comincia a diventare consapevole della falsità della vita che ha vissuto. Ma negli istanti che precedono la morte egli vede la luce e la paura e la morte scompaiono. Ivan è la versione russa di Giovanni, che in ebraico significa “Dio è buono”; il patronimico Il’ič vuol dire figlio di Elia, che in ebraico significa “Geova è Dio”. Secondo Nabokov, il racconto non è la storia della morte di Ivan, ma della sua vita. La morte fisica descritta è parte integrante della sua vita mortale, è la fase terminale della mortalità. La formula tolstoiana dice che Ivan ha vissuto una cattiva vita e poiché una cattiva vita non è altro che la morte dell’anima, Ivan Il’ič ha vissuto una morte vivente; ma morendo Ivan è entrato in una nuova vita, ha visto la luce e non più la morte. Una caratteristica rilevante del racconto è che quando inizia, Ivan è già morto. Tuttavia non c’è grande contrasto tra la salma e le persone che vanno a dare un ultimo saluto, perché la loro esistenza non è vita, ma morte vivente. Una delle tematiche del racconto è la banalità della borghesia burocratica, di quella borghesia impiegatizia a cui apparteneva lo stesso Ivan. Il primo pensiero dei colleghi, quando vennero a conoscenza della morte di Ivan Il’ič fu di pensare a quale influenza questo fatto avrebbe avuto sulle loro carriere. Ma questo egoismo è un tratto umano, così come lo è pensare che fortunatamente la morte è toccata ad un altro e non a loro. Nel rivisitare la propria vita, Ivan crede che l’apice della sua felicità sia stato ottenere il lavoro desiderato, l’appartamento aristocratico, ma è proprio in questo ambiente che egli si ferisce mortalmente. La comparsa di Gerasim sarà un momento chiave del racconto, poiché...


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