La scrittura dell\'altro PDF

Title La scrittura dell\'altro
Author Diane LP
Course Discipline dea i
Institution Sapienza - Università di Roma
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Summary

Riassunto dettagliato del suddetto testo....


Description

La scrittura dell’altro, Michel de Certeau. È una raccolta di quattro saggi di Michel de Certeau; come evidenziano Silvana Borutti e Ugo Fabietti nell’introduzione, intitolata significativamente Scrivere l’assente, la raccolta di questi saggi è motivata dal loro tema comune: la scrittura come forma attraverso la quale il sapere Occidentale costituisce e organizza il proprio rapporto con l’alterità. Le analisi di Certeau, relative all’antropologia, all’etnologia, alla storia, alla demonologia tendono cioè a evidenziare le condizioni di possibilità, le dinamiche, le pratiche attraverso cui un sapere si manifesta, in particolar modo il sapere della società moderna, che ci presenta i risultati della sua pratica investigatrice nella forma del libro e sotto questa stessa forma produce e organizza l’oggetto stesso della ricerca: il passato (alterità temporale) per la storia, il selvaggio (alterità geografica e culturale) per l’antropologia e l’etnologia, la possessione (l’alterità soprannaturale) per la demonologia. Capitolo 1: Storia e antropologia in Lafitau. Nel 1724 Lafitau pubblicò un testo in 4 volumi e 1100 pagine nel quale trattativa delle usanze dei selvaggi dell’America; tale testo è considerata come iniziatrice del percorso dell’antropologia ma De Certeau si sofferma sull’immagine di frontespizio del libro, che rappresenta la scrittura e il tempo. In particolare una figura nell’atto di scrivere sta di fronte al tempo, una regge la penna che crea il testo, l’altra la falce che distrugge gli essere; queste si avvicinano ma non si incontreranno mai. Altre 41 tavole sono presenti nel testo di Lafitau, tutte volte a spiegare il discorso che l’antropologo porta avanti. Ai piedi dello scrittore degli archivi (medaglie, statuette, documenti) sono sparsi a terra: è la produzione che lotta contro il tempo; sono frammenti di un passato sul quale ha agito il tempo. All'interno della raffigurazione del frontespizio troviamo una seconda raffigurazione posta in rientranza sul muro, una pittura differente sottratta all'ordine cronologico dell'opera: due cerchi sovrapposti di nuvole avvolgono due coppie: Adamo ed Eva,separati all'albero della conoscenza, e l'Uomo resuscitato e la Donna dell'apocalisse, entrambe le coppie sotto il simbolo ebraico di Jahvè. A differenza del filosofo Huet, Lafitau sostituisce Mosè(che qui rappresenta tutta la Bibbia) con Adamo ed Eva, cioè sostituisce una figura storica con una “teorica” dell'origine. Adamo rappresenta qui la TEORIA, che pone al suo stesso interno il rapporto con la storia e col tempo, trasformandola in un Non Luogo separato da tutto. Con questo Lafitau vuole dire che l'origine di tutto non è una data, un personaggio o un libro, ma è una forma, cioè una rete di rapporti formali. Lafitau vuole creare un campo proprio, dove la scrittura può creare liberamente le proprie regole e controllare da se la propria produzione, senza dipendere dai padri della storia o da qualche condizione particolare: lo scrittore allora diviene la madre di un nuovo mondo che non dipende più dalla tradizione. Queste posizioni si riassumono nella presenza di una sola coppia originaria, uomo e donna, che troviamo in due forme, una celeste, vestita, che rappresenta il vecchio mondo e l'antichità religiosa, e una terrestre, nuda, che rappresenta il nuovo mondo e la primitività selvaggia. Ma entrambe portano allo stesso risultato, poiché la stessa coppia si riproduce da una nuvola celeste all'altra terrestre. Da ciò Lafitau fa un discorso la cui forma è teologica ma il contenuto è scientifico(mescolanza che lui non nasconde poiché è un missionario). Così come Nietzsche afferma che l'usura di una metafora la trasforma in un concetto, allo stesso modo le credenze religiose col tempo si trasformerebbero in un sistema razionale. Il posto degli dei si svuota ma non scompare, rimane li, e viene preso dalla scrittura. Questa metamorfosi presenta tre caratteristiche che si ripresentano ogni volta che una ragione trasforma in mito il reale dal quale una credenza dipende: al credibile è sostituito il leggibile; allo storico lo speculativo; alla non coerenza di esseri differenti la coerenza di principi attraverso i quali un pensiero si da il proprio progetto.

La galleria di Lafitau è una sorta di collezione che si articola intorno tre serie, ovvero archeologica (medaglioni), libresca e cartografica sui quali l’autore fa giocare un rapporto di comparazione e di accostamento; sono tracce di antichità che danno a vedere quello che i costumi e le favole dei selvaggi consentono di comprendere attraverso un’operazione comparativa nella collezione sono presenti molte figure di donne con vari riferimenti alla maternità feconda; la madre feconda è il centro dell’incisione ma rappresenta l’autore: la madre scrittura deve generare un nuovo inizio quando l’antichità, tradizione paterna, crolla; rappresenta il gesto di scrivere sulle rovine di qualcosa. Con i resti del passato la scrittura scrive la storia; ciò sta a significare che nel confronto istituito dalla rappresentazione la traccia orale (i costumi e le favole dei selvaggi) e una traccia visiva (le antichità) si danno senso creando connessioni sistematiche e dunque nel quadro sistematico del sapere illuministico e dell’operazione comparativa da esso derivata la scena rappresenta la fondazione dell’etnografia: è un dialogo tra il Tempo, maestro del sapere antico, e la Scrittura, il nuovo sapere antropologico. La scrittura è insuperabile perché traduce la parola orale. Capitolo 2: Etnografia. Fu Ampere nel 18 secolo a definire l’etnografia come un insieme dato da oralità (comunicazione propria della società selvaggia, primitiva o tradizionale), spazialità (insieme della storia), alterità (differenze culturali) e incoscienza (fenomeni riferiti a un significato estraneo). De Certeau riprende le visioni di Léry, in particolare concentrandosi sull’opera del 1578 intitolata Storia di un viaggio in Brasile, che racconta proprio di un viaggio di Léry compiuto tra il 1556 e il 1558 in Brasile. L’autore, approdato al calvinismo, si rifugia dalla Francia e Ginevra e da lì in Brasile con un gruppo di riformati con lo scopo di creare un Rifugio calvinista; prima di ripercorrere il cammino inverso e tornare prima a Ginevra e poi in Francia, Léry si isola dalla comunità e per tre mesi, dall’ottobre del 1557 al gennaio del 1558, vagando tra i Tupinamba; attraverso la mediazione dell’altro, dei Tupi, il racconto riporta a se stesso. La riproduzione scritturale è molto importante; la scrittura infatti riconduce la pluralità dei percorsi all’unicità del centro produttore; ne La scrittura della storia Léry gioca sul rapporto tra struttura (che pone la separazione) e operazione (che supera la separazione); la frattura è ciò che il testo suppone ovunque, cioè la separazione posta dall’autore p tra il di qua e il di là, come frattura oceanica dell’Atlantico come divisione tra Vecchio e Nuovo Mondo. Tale frattura si figura come una scissione tra natura e cultura; di qua c’è la verità. Di là l’errore; la strada del ritorno può condurre il selvaggio a Ginevra. Al dualismo verità-errore, si sostituisce uno schema circolare costruito sul triangolo di tre punti di riferimento: Ginevra, la natura estranea e l’umanità esemplare. È un lavoro definito ermeneutica dell’altro, ricava dalla relazione con l’altro effetti di senso. Il funzionamento si delinea nel testo di Léry sotto forma di due problematiche che ne trasformano l’uso teologico; per quanto riguarda la materia religiosa, il sesto capitolo dell’opera di Léry racconta i dibattiti teologici di cui il forte di Coligny (baia di Rio) fu teatro di scontri religiosi a causa dello sbarco degli ugonotti tra i Tupi della costa; tale isola è un luogo dove regnano la divisione e la confusione delle lingue; il dizionario diventa uno strumento importantissimo ma Téry, sulla stessa scia di Calvino, sosteneva bisognasse convertire un linguaggio in un altro, Calvino aveva suggerito di ridurre i linguaggi in una lingua originaria da cui deriverebbero tutti. All'interno dell'opera di Lèry la lingua straniera acquisisce una duplice funzione: è la via attraverso cui la vita selvaggia è chiamata a sostenere il discorso di un sapere europeo, ed è poi la favola cioè un parlare che non sa quello che dice, prima che una sua spiegazione gli procuri un significato. Questa economia di traduzione è in Lèry una problematica generale; egli classifica piante e animali secondo una costante distinzione tra ciò che si vede (l'apparenza) e ciò che si mangia (la sostanza commestibile), così come per la favola dove opera una divisione tra ciò che essa dice e ciò che non dice, trasformando ciò che non dice in una verità che fa ascoltare in Francia.

Lèry sviluppa infine il tema dell'utilità, o meglio quello della “produzione”, poiché il viaggio che compie è un lavoro “produttivo che produce capitale”: partendo da Ginevra egli si mette alla ricerca di un mondo, che appare incapace di difendere i suoi enunciati se non attraverso il linguaggio della soggettività. A questo linguaggio si oppone il mondo della massima alterità: la natura selvaggia. Il luogo di partenza era un “qui” (noi) relativizzato da un “altrove” (loro), in un linguaggio privo di sostanza. Ma se alla partenza il linguaggio da restaurare era “teologico”, quello che si instaura al ritorno è scientifico o filosofico. Nel suo schema Lèry distingue tra loro, il soggetto e l'oggetto “entologici” attraverso due forme letterarie: quella che racconta del viaggio (prima parte del libro) e quella che descrive il paesaggio (seconda parte del libro). In riferimento al mondo dei Tupi, egli identifica due piani: nel primo descrive la cronaca dei fatti sia dei Tupi che propri, raccontandoli in termini di tempo, nel secondo invece inserisce una tavola ragionata di un sapere che regola lo spazio Per Lèry il suo libro è una “storia” in cui le cose viste sono legate all'attività dell'osservatore, soggetto che è momentaneamente un “principe dell'esilio” sospeso tra cielo e terra, tra un Dio che si allontana e una terra da trovare. Dopo di lui ci sarà una etnologia dove lo spazio della rappresentazione sarà distinto da chi osserva e dove sarà inutile mettere in scena il soggetto. Nell'Histoire il selvaggio viene associato alla parola seduttrice. Quello che la letteratura di viaggio produce è un selvaggio come “corpo di piacere”. In Lèry il mondo dei Tupi esalta l'erotizzazione del corpo dell'altro (nudità e voce delle selvagge) che porta alla formazione di un'etica della produzione. Questa figura dell'altro ha svolto nell'occidente moderno un ruolo anche più importante di quello delle idee critiche portate in Europa dai racconti di viaggio. La scrittura divide un profitto “riportato” e un resto che non viene scritto: il piacere è la traccia di questo resto. Eventi come il rapimento di Lèry, le feste dei Tupi, i danzi e i balli sono effimeri e non possono essere sfruttati poiché sono senza ritorno e senza reddito, formando dei buchi nel tempo del viaggiatore; qualcosa dello stesso Lèry, non ritorna dal suo viaggio. Queste fratture disfano la costruzione del racconto, e ciò che non è udito viene tolto al lavoro produttivo. Non si tratta qui di fatti straordinari che vengono utilizzati da discorsi agiografici o mistici per stabilire lo statuto di un linguaggio di verità; ma nell'Histoire, l'elemento meraviglioso serve a fondare un linguaggio che riconduce l'esteriorità allo “stesso” (“l'altro” in questa operazione è solo l'effetto secondario). Globalmente all'interno dell'opera troviamo una serie di opposizioni che mantengono dall'inizio alla fine dell'opera la distinzione tra il selvaggio e il civilizzato: nudità/vestito, festa/lavoro, piacere/etica. Per Lèry infatti i Tupi sono degli “impennacchiati” e ciò che loro fanno, cioè feste, danze e i loro riti in generale, sono qualcosa che non si conserva e non è redditizio. Nel mondo Tupi appare quindi invertita l'immagine del lavoratore. Quello che fa Lèry è una “estetizzazione” del selvaggio: questo viene descritto come un personaggio di spettacolo, ma proprio per questo è il rappresentante di un'economia diversa da quella del lavoratore. Così facendo egli lo reintroduce nel quadro, ossia la nostra dimensione. Possiamo dire che il selvaggio è il “ritorno”, sul registro estetico ed erotico, di ciò che l'economia di produzione ha dovuto rimuovere per esistere. In un passo tratto direttamente dall'opera, Lèry scrive che: “la festa dei selvaggi è ciò che lo fa rimanere sorpreso ma è anche ciò che lui sorprende, poiché arriva presso i Tupi come se avesse commesso un'effrazione. Nel villaggio in cui si riuniscono i selvaggi, Lèry prova un certo spavento nel sentirli cantare in lontananza, ma tuttavia si decide ad avvicinarli grazie ad un “intermediario”. Arrivato in quel villaggio, visto che le case erano coperte da un reticolato di erba, egli per vedere meglio fa con le mani un piccolo foro. Entrato nel villaggio e vedendo che i Tupi non si erano spaventati alla sua vista, egli decide di mettersi in un angolo e contemplarli, rimanendo rapito dal loro canto”.

Scene simili che egli definisce “erotismo etnologico” si ripeteranno spesso nei vari racconti di viaggio. I rumori e i canti infatti, che arrivano dagli uomini selvaggi, non hanno un contenuto intelligibile, sono infatti un discorso che non trae potere da ciò che dice, ma semplicemente da ciò che è. Non è né vero, né falso, né positivo o negativo, ma è insensato e fa godere. Nonostante il desiderio di rispondere alla seduzione del canto, l'atto di avvicinarsi ad esso non diminuisce la distanza, poiché rimane incomprensibile, creando una situazione di interdetto in cui il “desiderio è il rovescio della legge”. Alla soppressione del selvaggio corrisponde la sostituzione della sua realtà con una “voce”. L'altro infatti ritorna sotto forma di un rumore che può essere un urlo o un suono dolce. Se le figure e le voci sono associate al piacere e formano un teatro “estetico”, all'interno di esso il selvaggio è diverso a seconda che venga considerato dal punto di vista dell'occhio o dal punto di vista dell'orecchio. A questi due termini bisogna poi aggiungere anche il termine bocca, poiché ad essa spetta la sostanza del selvaggio. L'occhio è al servizio di una scoperta del mondo poiché c'è, nell'uomo del sedicesimo secolo, una forte volontà di scoperta e curiosità per tutto ciò che è raro, strano o singolare. Questa curiosità è simboleggiata nei racconti di viaggio, dall'incontro tra lo scopritore, vestito e armato, e l'indiana nuda e inerme, poiché il loro stato selvaggio affascina e minaccia (questi erano cannibali). Lèry nella sua opera, per ricondurre la figura dell'indiana al nostro quadro, la paragona alle streghe, divoratrici di bambini, che danzano di notte. Il mondo selvaggio, così come il mondo diabolico, diventa donna e si declina al femminile. Lèry è così affascinato dai Tupi che li descrive più forti e sani rispetto a noi europei, quasi come degli dei che “bevono dalla fonte della giovinezza”. La poca cura che i Tupi hanno delle cose di questo mondo, fa credere a Lèry che essi abitino una sorta di paradiso dov'è sempre primavera. Lèry rimane così affascinato dalle donne Tupi, che paragona l'apparizione di una donna selvaggia a quella di una dea, la cui nudità è qualcosa di innocente e divino, ma che tuttavia cela qualcosa di diabolico. Lo scoprire il corpo della donna selvaggia è in Lèry la metafora dello scoprire tutto il nuovo mondo dei Tupi. Questo suo proposito è chiarito attraverso un'osservazione di Freud sulla relazione tra scrittura e sapere: “il sapere è calpestare il corpo della madre terra”. Le donne nude in Lèry infatti indicano un sapere che calpesta e percorre visivamente una nuova terra per poterla rappresentare. Tanto l'oggetto che noi vediamo è scrivibile, quanto la voce che sentiamo rientra in una dimensione che si stacca dal senso e dal tempo: la voce che arriva dalla feste dei Tupi, dagli uccelli della foresta, o dalle preghiere degli sciamani, rinvia ad un oblio, ad un'estasi, tanto che Lèry dice di esserne “rapito”. Per Lèry, la voce dell'altro è qualcosa di inatteso, di inverosimile e qualcosa che non ha un senso e che quindi non può essere detta e nemmeno scritta, ma può essere descritta solo metaforicamente. Nell'opera di Lèry, il selvaggio assume quindi una duplice funzione: esso è sia l'oggetto del discorso, che la vocazione di quel discorso. Infatti la voce, anche se non può essere scritta, è ciò che stimola lo scrivere. Come infatti dire Lacan, la voce è “ciò che non cessa mai di scriversi”. Capitolo 3: Il linguaggio alterato. De Certeau si concentra sul linguaggio della posseduta e sul duplice problema che pone: da una parte la possibilità di accedere al discorso dell’altro, dell’assente, dall’altra l’alterazione del linguaggio da parte di una possessione; nel diabolico vanno distinte due forme: la stregoneria e le possessioni; la stregoneria si presenta come un combattimento, la possessione come scena. L’autore in La possessione di Loudun considera un gruppo di circa 20 suore orsoline possedute; per sei anni (1632-1638) queste suore hanno attirato migliaia di visitatori sul luogo. De Certeau si sofferma sulla frase tipica delle possedute, che affermano sia qualcun altro a parlare per loro; non si sa cosa parla e spesso neanche di cosa si parla; l’esperienza di possessione implica un atto locutorio particolare, al quale spesso né medicina né religione

sanno dare significato; le fonti disponibili per verificare i casi delle possedute quali archivi o manoscritti mostrano sempre il discorso della posseduta come enunciato da qualcos’altro; le testimonianze vengono da medici, esorcisti che fanno domande alle quali le possedute rispondono e talvolta dalle possedute stesse, per esempio è il caso di Jeanne des Anges, la più celebre posseduta di Loudun. Essa parò da posseduta, ma non poteva scrivere da posseduta e infatti riferiva i fatti scritti in prima persona: la possessione non è che una voce. Di conseguenza il rito dell’esorcismo è essenzialmente un’impresa di denominazione, tende a fissare un nome proprio ai demoni che rendono incosciente la posseduta e questi diventano poi una sorta di spazio in cui agire. De Certeau analizza il caso di Jeanne des Anges, utilizzando l'espressione di Rimbaud “io è un altro” per indicare impropriamente il posto in cui si situa nel linguaggio la faglia aperta dalla posseduta. Isolando i testi che riportano i propositi manifestati dalle posseduta, se ne evince un tratto comune ossia che questi sono tutti discorsi in prima persona che dicono proprio “io è un altro”: viene così segnata una continuità con ciò che da tre secoli la tradizione psichiatrica chiama isteria, poiché l'isterica non sa e dunque non può nominare chi è. La posseduta crea nel linguaggio un disturbo che disarticola il soggetto parlante (io) e un nome proprio definito (un altro). Compito dell'esorcista o del medico è appunto determinare chi è questo altro. Dunque l'esorcismo è essenzialmente un'impresa di “denominazione” destinata a riclassificare un qualcosa che è estraneo e sfugge al discorso. Ciò che egli cerca di fare è riunire il soggetto e il linguaggio cercando appunto un nome proprio per esso, tornando ad un ordine linguistico. Poichè la posseduta crea questo disturbo linguistico, occorre attribuire all'altro un nome proprio, che spesso viene preso da una lista demonologica. Gli esorcisti incitano la posseduta a fissare il suo nome: essa finisce spesso con dichiarare “io sono” seguita da una serie di nomi demonologici, e questa pluralità rende difficile una localizzazione del soggetto. La posseduta si inserisce nel codice demonologico in cui vuole metterla l'esorcista, ma tuttavia essa lo attraversa e costringe a ripetere questa operazione denominatrice all'infinito. Questa procedura è equivalente a quello che Rimbaud affermava nella sua poesia: “è sbagliato dire io penso, si dovrebbe dire mi si pensa”. Ecco appunto il problema introdotto dalla posseduta: “mi si parla”. Bisogna cercare quindi di capire chi o che cosa è questo “si”. I testi delle possedute non ci forniscono la chiave del loro linguaggio, che rimane anche per loro stesse indecifrabile. Il solo modo che hanno per difendersi è quello di passare da un nome all'altro all'interno di una lista di nomi che gli vengono imposti. Designandosi di volta in volta con dei nomi div...


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