Title | La società dell\'indagine |
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Author | Stefano Cancro |
Course | DAMS |
Institution | Università degli Studi di Torino |
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Alessandro Perissinotto
TEORIE E TECNICHE DELLE SCRITTURE
LA SOCIETÀ DELL’INDAGINE 1 - IL BISOGNO DI VERITÀ NELLA SOCIETÀ DEL COMPLOTTO Le narrazioni di vicende criminali non sembrano conoscere cali di gradimento da parte del pubblico, siano esse in forma letteraria o in forma audiovisiva. Il mondo intellettuale si chiede perciò se questo genere possegga o meno qualità artistiche apprezzabili: se, da una parte, si paventa la corruzione della narrativa da parte di scribacchini (i giallisti) che usurpano il titolo di scrittori, dall’altra si guarda alla diffusione del poliziesco come a un percorso virtuoso per condurre generazioni di non lettori sulla via della lettura. Le domande che oggi ha senso porsi di fronte al poliziesco riguardano la sua capacità di penetrazione del tessuto sociale, di assurgere al paradigma interpretativo della realtà. È questa la caratteristica più sorprendente del “fenomeno poliziesco”: la sua pervasività, la sua flessibilità, la sua efficacia nel rappresentare l’essere e le ansie del divenire di un universo, quellooccidentale, che appare sempre più come una detectivestory globaledove il potere (economico, politico, religioso) è l’artefice delle trame criminose che il cittadino, nella sua veste di investigatore per caso e per forza, è chiamato a svelare per poter condurre un’esistenza libera e consapevole. Se il poliziesco ha successo è perché esso ci fornisce ben più di una rappresentazione della società; ci dà una chiave di lettura dei fatti, non solo di quelli narrativi, ma di tutti quelli che accadono abitualmente. Il giallo ci fornisce un metodo per realizzare (in maniera più o meno illusoria) alcune delle nostre aspirazioni più profonde, come quella della verità. La “narrativa d’indagine” è costituita da narrazioni concepite come un cammino verso l’accertamento o la manifestazione di una verità inizialmente negata. Questo cammino è l’indagine, in cui l’unica cosa che conta non sono i metodi dell’investigazione, ma il fatto che l’autentico oggetto di valore del racconto sia la verità. Ogni racconto nasce infatti dalla tensione di uno o più personaggi della storia verso un oggetto che, per il fatto stesso di essere desiderato, diviene oggetto di valore. Una narrazione, una corrente, un genere ottengono un successo di massa quando una parte considerevole della massa stessa insegue gli stessi desideri dei protagonisti delle storie raccontate. Il successo del poliziesco inteso come racconto d’indagine apre uno squarcio inquietante sulla nostra società, asserendo che uno dei desideri, dei bisogni più assillanti nell’epoca post-moderna, è quello quello della verità. Dal momento che ogni desiderio nasce da una mancanza, bisogna ammettere che l’amore diffuso e massificato verso il poliziesco denuncia una profonda crisi di credibilità di ogni tipo di istituzione sociale, un profondo senso di insicurezza. Il giallo, con il suo finale consolatorio, riporta l’ordine dove il delitto aveva creato il caos. Ma se il pubblico si appagasse all’arresto del criminale, non si spiegherebbe il successo di quegli autori che rinunciano all’happy end, rinunciando al trionfo della giustizia, pur senza negare al lettore quello della verità. Quello che ci manca nella realtà, e che cerchiamo nella fiction poliziesca, non è solo una società dove ogni crimine viene punito, ma un mondo di verità, un mondo che non ci costringa al dubbio perenne. Il poliziesco è figlio della cultura di massa e non è un caso che le sue origini coincidano, anche cronologicamente, con la prima diffusione su larga scala dei giornali. Né è un caso che i grandi polizieschi dell’800 compaiano, in forma di feuilleton, sulla prima pagina dei quotidiani popolari. Da un lato le notizie, luogo della verità istituzionale, ma anche strumento di mistificazione, dall’altro la finzione letteraria, apparentemente libera dalla logica mistificatoria del potere e quindi più vera del vero. La cultura del dubbio, di cui il giallo si fa interprete, è il frutto della dissociazione, operata dalla comunicazione di massa, tra esperienza e conoscenza. Se c’è una cosa che più delle altre differenzia l’uomo medio contemporaneo da quello di un paio di secoli fa è infatti la netta distinzione tra la sfera della conoscenza e quella dell’esperienza: oggi, di tutto ciò che assumiamo come vero, esistente e reale, solo una percentuale minima è garantita 1
dell’esperienza, il resto è frutto di una informazione mediata. Nella società odierna, le informazioni degli eventi che si verificano in qualche remota regione della Terra, possono influenzare direttamente l’esistenza di ciascuno di noi; nel momento in cui la conoscenza assume un ruolo cruciale, la trasformazione della conoscenza in esperienza diviene sempre più rara, sempre più impraticabile. Questa influenza dell’informazione sulla vita quotidiana è insita nella struttura stessa dello Stato moderno, uno stato fondato sulla sovranità popolare. Dare al pubblico i mezzi per farsi un’opinione significa dire come stanno le cose e in questo dire si può essere sinceri o mendaci: ecco l’origine della cultura del dubbio. Fin tanto che il potere si manifesta in forma di “potenza”, da imposizione violenta, il sentimento che suscita è quello della paura; quando invece esso va in cerca di una propria legittimazione “legale-razionale” appoggiandosi all’opinione pubblica, a prevalere è il dubbio, il sospetto. Gli studiosi sostengono che, nel mondo della comunicazione, tutto è mirato all’induzione di atteggiamenti fideistici, di comportamenti talmente privi di razionalità da ignorare quella continua sovrapposizione tra finzione e realtà che i mezzi d’informazione propongono ogni giorno. Le informazioni in genere finiscono per essere assimilate ai racconti; di conseguenza la severa separazione di fact e fiction viene abbandonata sempre più frequentemente. Una comunicazione di massa che gioca a favore della stabilità sociale, della conservazione, che obnubila le capacità critiche e limita la partecipazione ai processi decisionali. L’idea che la contaminazione tra informazione e finzione porti con sé conseguenze nefaste è ancora perfettamente contemporanea; domina, infatti,l’ideachel’elemento narrativo massificato corrompa la percezione del reale: questa confusione può essere bidirezionale. Se è vero che il proliferare di fiction e di docu-fiction può indurre a non distinguere più tra ciò che è stato inventato e ciò che è accaduto storicamente, è anche vero che esso induce a cercare nella realtà dei fatti le stesse trame intricate della narrazione, induce cioè a dubitare della realtà così come essa viene presentata. Alle finte certezze dell’informazione, la rappresentazione narrativa della società oppone il dubbio, la possibilità di altri scenari. Da questa frattura tra ciò che si vorrebbe certo e ciò che è ragionevolmente immaginabile nascono le mille teorie del complotto. L’aver proposto al grande pubblico la possibilità di altri mondi è forse un contributo della narrazione di massa a quell’esercizio pubblico della critica che è uno dei fondamenti della democrazia. La consapevolezza dell’impossibilità di conoscere il mondo attraverso i media dovrebbe essere il germe del dubbio, il primo passo verso una visione laica e non fideistica della comunicazione. La narrativa d’indagine, all’interno dell’universo della comunicazione di massa, appartiene alla grande galassia dei mass media, ma, al tempo stesso, ne svela le trame. Si può pensare alla fiction d’indagine come a una sorta di falla del sistema, come un virus che mina il sistema dall’interno stimolando, all’esterno, il desiderio di verità. Una falla di cui il regime fascista si era sicuramente accorto: nell’Italia di Mussolini infatti, dove si doveva far credere che il crimine e la delinquenza fossero stati definitivamente debellati, non ci poteva essere spazio per il cinema giallo, ma solo per quello comico; ne scaturisce l’ambientazione delle vicende malavitose in terra straniera. È legittima anche la posizione opposta, che vede nel poliziesco una sorta di “valvola di sfogo” attraverso la quale confinare in uno spazio sorvegliato l’anelito di verità del pubblico ( visione del potere come capacità di limitare il processo decisionale altrui a questioni relativamente non controverse). Si può obiettare che la narrativa d’indagine, invece di indicare la strada per una ricerca di verità, contribuisce piuttosto all’edificazione di una società paranoica, dove il complotto non è che il risultato di un’autosuggestione mediatica. I sostenitori delle teorie anti-complottistiche affermano che l’attitudine diffusa a cercare sempre disegni oscuri dietro il verificarsi degli eventi nasce dalla non accettazione di quegli stessi eventi e dalle loro motivazioni ufficiali. L’ipotesi del complotto risulterebbe, paradossalmente, più rassicurante di quella della sua assenza, perchè sposterebbe le responsabilità dei fatti verso parti della società che ci sono più note. Assumendo questo come vero bisognerebbe ammettere che la tensione verso la verità presente nella narrativa d’indagine sortisceuneffettocontrario,contribuendo,proprioattraversol’inscrizione nell’immaginario collettivo di cospiratori stereotipati e buoni a ogni occasione, alla mistificazione del reale. Il problema sta nell’inafferabilità del reale, che rende ipotizzabile tutto e il contrario di tutto e non rende verificabile nulla. Si può parlare di “complotti della menzogna”: la menzogna diventa complotto quando viene socialmente condivisa, quando, a livello collettivo, prevarica i diritti della verità determinando conseguenze concrete che vanno al di là della semplice negazione del vero. Nella formulazione mediatica di un “complotto della menzogna” il dire è un fare , è un produrre azioni socialmente rilevanti. Non solo è impossibile confutare l’esistenza di queste trame basate sulla falsificazione, ma
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è impossibile stabilire se una nuova cospirazione ai danni della verità sia in atto in questo momento o meno. L’onnipresenza dell’ipotesi del complotto non è sintomo di una società paranoica, bensì di una società che ha perduto il valore della verità; lo ha perduto, non perché si sia corrotta, ma perché ha moltiplicato esponenzialmente la rilevanza del non esperibile. L’uomo che vive all’interno di un ambiente ristretto il quale soddisfa le sue esigenze con la propria produzione o con la cooperazione diretta, ha una panoramica e un controllo più facili e più completi sulla propria esistenza che non l’individuo appartenente a una cultura superiore. La nostra esistenza moderna si fonda molto di più di quanto si creda sulla fiducia nella sincerità degli altri. Basiamo infatti le nostre più importanti decisioni (come in campo economico o scientifico) su un complicato sistema di rappresentazioni, la maggior parte delle quali presuppone che ci si fidi di non essere ingannati; ne consegue che nelle relazioni moderne la menzogna diventa qualcosa di molto più catastrofico di quanto non avvenisse prima. La nostra stessa esistenza è sospesa tra l’assoluta necessità di credere, senza la quale non possiamo mettere in atto alcuna azione sociale, e l’altrettanto assoluta necessità di dubitare che ci deriva dall’esperienza della menzogna subita. Né ci serve da garanzia il fatto, probabilmente inconfutabile, che un complotto, se efficace, prima o poi creerà i propri risultati e diverrà evidente. Contrariamente a quanto si è soliti ritenere, il segreto non è necessariamente minacciato dal crescente numero di persone che di esso sono a conoscenza, a condizione che queste persone siano sufficientemente interessate a mantenere il privilegio che dalla segretezza o dalla menzogna deriva. Ciò che ci chiediamo costantemente non è se qualcuno dirà la verità, ma se avremo i mezzi per riconoscerla. Nella società dell’indagine, o del dubbio, nella società dell’informazione o della disinformazione, la forza della narrativa d’indagine non sta nel dimostrare il complotto, ma nel mostrare che il complotto è sempre possibile: essa è testimone dell’indecidibilità circa il reale.
2 - OLTRE LA VALENZA CONSOLATORIA: ESORCIZZARE LA MORTE Si è spesso parlatodella valenza consolatoria delIa narrativa di genere e delle molteplici forme che questa vera o presunta consolazione assume. Il carattere di “intrattenimento” che viene normalmente attribuito alla letteratura di genere nel suo complesso, e al poliziesco in particolare, viene subito utilizzato come sinonimo di “evasione” e come contrario di “impegno”. L’intrattenimento sarebbe consolatorio perché allontanerebbe il male e i veri problemi dal nostro orizzonte. In realtà, non è così facile individuare la perfetta equivalenza tra ciò che intrattiene e ciò che determina disimpegno. La letteratura d’indagine, per sua natura ha dovuto occuparsi del male che si annida nelle famiglie, del rapporto tra vittime e carnefici, della paura come sentimento umano, e molto altro (denaro, droga, politica, tutta una serie di denunce alla banalità del male). Fare polizieschi significa mettere a nudo personaggi straziati dal dolore, mettendo mano alla carne della realtà. I propositi di rassicurazione, di stabilizzazione sociale non sono completamente estranei al poliziesco e nulla può escludere un uso ideologico e demagogico di quella verità che il giallo sembra garantire bene. Tuttavia, la visione dell’indagine come transizione tra il caos del crimine e l’ordine della legge appare più appannaggio della fiction televisiva che di quella letteraria. In Europa, la recente produzione poliziesca in televisione opta per una rassicurazione a tutto campo attraverso un’accurata scelta di investigatori e colpevoli; i protagonisti dei telefilm gialli rimangono nella stragrande maggioranza gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in misura minore, alla magistratura. Inoltre, se un tempo la sconfitta del male era affidata all’abilità del singolo poliziotto che agiva da eroe solitario in mezzo all’indifferenza di colleghi e superiori, adesso, a trionfare è il lavoro di squadra, è l’istituzione in quanto tale. La ripartizione dei compiti, soprattutto nelle serie televisive gialle, rispecchia l’andamento della realtà, in cui poliziotti e carabinieri si trovano confrontati a una pluralità di fatti, più o meno gravi; tale ripartizione è perfettamente funzionale al compito di rassicurazione: lo spettatore può stare tranquillo perché il cittadino è al riparo da ogni misfatto, grande o piccolo che sia. Mentre l’eroe solitario si occupava solo di quei crimini, come l’omicidio, che di solito non attraversano l’esistenza della gente normale, l’eroe collettivo affronta anche le situazioni nelle quali le persone comuni si sentono minacciate direttamente e quotidianamente. A riportare l’ordine è quindi lo Stato nel suo complesso.
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Contrariamente al cinema e alla narrazione letteraria, dove la denuncia di poliziotti e di interi settori deviati dello Stato è diventato ormai un topos, nella finzione televisiva, la divisione tra bene e male è rigidamente manichea. In alcune serie televisive statunitensi (vedi Dexter), le quali hanno saputo differenziare maggiormente le tematiche, è difficile stabilire se il messaggio ideologico che sta alla base di questi telefilm voglia sottolineare l’infiltrazione del male anche tra le fila dei tutori dell’ordine o se, al contrario, voglia ribadire che nella lotta al crimine tutto è permesso; ma questo risultato non è certamente né rassicurante, né consolatorio. Consolatorio o meno, il poliziesco porta però con sé un protagonista che di consolatorio ha ben poco, ovvero la morte. Eppure, anche nella rappresentazione della morte, la letteratura d’indagine assolve un compito gratificatorio e placa l’ansia che ci deriva da quello che ormai viene comunemente chiamato il “tabù della morte in Occidente”. Nei mezzi d’informazione, la morte viene accennata, viene presentata come un risulato (i morti appunto) e non come processo (il morire). La società contemporanea ha quindi espulso la morte, ne ha vergogna, la accetta ma non la esibisce. Ciononostante, dell’immagine della morte noi abbiamo un disperato bisogno, perché sappiamo che essa fa parte del nostro destino. La morte non rappresentata è come una verità nascosta: sappiamo che c’è, sappiamo che ci toccherà in sorte, ma continuiamo a non vederla. Il “tabù della morte” diviene uno dei complotti della menzogna; e più una verità è certa e al tempo stesso nascosta, più siamo attratti da essa. Il poliziesco sembra andare in controtendenza rispetto all’occultazione delle modalità del decesso. Il noir, il giallo, il thriller ci somministrano quotidianamente “dosi omeopatiche” di morte, affinché possiamo riprendere con essa un po’ di familiarità. Mentre la morte naturale si camuffa sempre più sotto il velo della pudicizia, la morte violenta recita un ruolo di crescente importanza nelle fantasie proposte al grande pubblico (romanzi polizieschi, western, storie di guerra, … ). Il poliziesco ci parla del trapasso nel suo divenire; e noi abbiamo l’impressione che l’evento estremo e irrimediabile ci vengaoffertoinmaniera completamente demistificata: la violenza dell’omicidio denuda la morte, spogliandola di ogni pudore. Una delle figure emblematiche del romanzo criminale contemporaneo è proprio quella del medico legale per il quale la morte non ha segreti e sfumature: nella fiction viene premiata la crudezza, l’inclinazione all’esplicito, l’assenza di mezze misure. Nel realismo del poliziesco si fa spazio l’iper-realismo della rappresentazione della morte; e di fronte a questo iper-realismo, l’atteggiamento del pubblico è voyeuristico: siamo attratti da una rappresentazione socialmente sconveniente. La morte occultata, negata, resa indecente suscita attrazione e desiderio, ma l’appagamento misurato di questo desiderio anestetizza rispetto al dolore del trapasso e quindi esorcizza la paura più prof...