LEOPARDI.L'ALBA DEL NICHILISMO. Introduzione.pdf PDF

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Author Luigi Capitano
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Introduzione Siamo sospesi in ardita posizione, sopra un abisso deserto, fra cielo e terra. W.H. wackenroder, Fantasie dell’arte I l dipinto di Caspar David Friedrich Monaco in riva al mare (1808-10) rappresenta un emblema di quella «perdita del cen- tro»1 di cui anche Leopardi rimane uno dei massim...


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Introduzione

Siamo sospesi in ardita posizione, sopra un abisso deserto, fra cielo e terra. W.H. wackenroder, Fantasie dell’arte

I

l dipinto di Caspar David Friedrich Monaco in riva al mare (1808-10) rappresenta un emblema di quella «perdita del centro»1 di cui anche Leopardi rimane uno dei massimi interpreti nell’Ottocento. Il quadro lascia intravedere in basso a sinistra la figura di un frate in atteggiamento malinconicamente pensoso sulle dune sabbiose a strapiombo sul mare, contornate da una cupa striscia d’orizzonte che si stempera sullo sfondo in un immenso cielo annuvolato e albeggiante. Esposta per la prima volta all’Accademia reale di Berlino nel 1810, l’opera del paesaggista romantico suscitò reazioni alquanto perplesse e contrastate tra i visitatori. Un temporale, si disse, sarebbe stato più godibile, poiché sembrava che non vi fosse nulla da vedere, eccezion fatta per la quasi impercettibile presenza del piccolo monaco in un angolo del quadro2. Non per caso il Monaco in riva al mare è stato paragonato a certi paesaggi impalpabili e vaporosi di Turner che il critico William Hazlitt definiva causticamente «rappresentazioni del Nulla» o del «caos». In effetti, anche la tela di Friedrich – che sembra davvero dipingere il Nulla – non offre alcun particolare soggetto alla vista, salvo la presenza quasi insignificante di un omino sperso nell’infinito. La piccola figura del monaco appare come un segno spezzato fra il mare scuro e una deserta spiaggia pallidamente illuminata dal grande cielo del giorno che avanza, mentre – per citare un verso di Heidegger – «cresce silenziosa la prima luce del mattino»3. Apparentemente estraneo agli elementi della natura e all’infinito che lo circonda, il monaco in atteggiamento meditabondo, col capo scoperto e con una mano malinconicamente appoggiata sul mento, sembra contemplare il mare o il filo dell’orizzonte. Immerso nei suoi pensieri e insieme smarrito nel grande arcano della natura, l’uomo solo appare come un punto interrogativo abbandonato «quasi romito, e strano» sulla

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«inabitata piaggia», nella «vastità incomprensibile dell’esistenza», per dirla leopardianamente. Come reagirono gli amici di Friedrich di fronte all’opera del pittore? L’articolo di Clemens Brentano e Achim von Arnim, apparso sui «Berliner Abendblätter» nell’ottobre del 1810, oltre a magnificare romanticamente la «solitudine infinita» e contemplante del monaco – cuore eccentrico della rappresentazione – immaginava di registrare in tono semiserio le più disparate «impressioni» dei visitatori: talvolta ammirati, ma più spesso spiazzati dalla novità dell’opera e perfino inclinanti alla chiacchiera più becera. Pur mantenendo la firma di Clemens Brentano (con le sue iniziali: c.b.), il testo subì – con vivo disappunto dei due autori – sensibili tagli e modifiche da parte di Heinrich von Kleist. Il drammaturgo e direttore della rivista ebbe comunque l’agio di sottolinearne i passaggi più penetranti: Nulla può essere più triste e desolante di una tale posizione nel mondo: unica scintilla di vita nel vasto regno della morte, il centro solitario nel solitario cerchio. Il quadro sta davanti a noi con le sue due o tre presenze misteriose simile ad una Apocalisse, come se fosse frequentato dai Pensieri notturni di Young, e giacché esso, nella sua uniformità e assenza di confini non ha altro primo piano fuorché la cornice, quando lo si osserva si ha come l’impressione che le palpebre vengano recise4.

Piuttosto che ad Ossian l’estetica del sublime (di cui il quadro è un ennesimo manifesto) viene associata da Kleist ai Notturni di Young; a quegli stessi Pensieri che anche al giovane Leopardi autore di una Storia dell’astronomia suggerivano, nel giro degli stessi anni (1813), la visione degli infiniti mondi, consentendogli così di respirare con l’immaginazione nelle regioni più rarefatte degli spazi cosmici. Per dirla con Nietzsche, von Kleist aveva cominciato a «disperare di ogni verità»5. Lo sguardo di Kleist sul nostro quadro (cioè sul mondo nichilistico) appare pertanto apocalittico e disperato. Ma se l’occhio dello spettatore rimane sbarrato di fronte al «Regno della Morte», lo spettacolo del vuoto non risulta per questo monotono, anzi la luce del celeste Nulla, filtrando tra i velami delle nuvole, sembra lottare con la bruma del Niente che sorge dal mare. Ha avuto ragione von Kleist di sottolineare tale aspetto tragico del teatro del mondo, che non cancella tuttavia l’altra metà del Nulla: la pienezza del vuoto e l’oceano di luce che discende dall’alto, invadendo quasi interamente la scena.

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Nell’osservare quello che rimane soprattutto un paesaggio interiore, possono venire in mente le parole di Kierkegaard: «l’anima si trova in mezzo al mondo» mentre «il cielo si spalanca» (Aut-Aut). Resta dunque il dialogo impossibile tra il piccolo vagabondo e una Natura immersa nell’alba senza sole né luna, come sospesa in un’aura senza tempo. Il poeta dell’infinito e il pastore errante si ritrovano qui fusi in un’unica immagine, tant’è che un pittore contemporaneo vivente ha potuto osservare: «Si tratta sempre del dialogo del singolo con l’incommensurabilità dell’universo, un dialogo che invano attende una risposta da Dio»6. Ecco dunque la scena del nichilismo albeggiante, squadernata davanti allo sguardo di un minuscolo viandante dell’esistenza sperduto sul ciglio di un livido mare nordico che sembra gravido di morte (di certo non paragonabile a quel mare in cui sarà «dolce» naufragare al nostro Leopardi!). Il dipinto, senza primi piani, mostra simbolicamente l’uomo sperduto in una Natura senza centro, senza confini e senza Dio, pressoché sottratta alla rappresentazione7. Non restano che sfumature del Nulla in blocchi di colore chiari e scuri che rendono quasi indecifrabile il crepuscolo. È stato notato che il «momento storico» nel quale Leopardi visse «è come avvolto da una luce crepuscolare», tramonto o alba che voglia chiamarsi questo «periodo di crisi»8. E non sarà un caso che gli ultimissimi versi del nostro poeta alludano a un’alba che sorge, ma subito dopo anche all’incombere di una nuova notte, fantasma di una giovinezza che più non si colora. Tramonta la luna e con lei un’epoca del mondo. Tornando alla nostra tela, la luce che rischiara il termine della notte (o del giorno?) appare quasi come un presagio. Sbalzato di un secolo e catapultato da un quadro già informale e astratto9 su una piazza metafisica di De Chirico, il piccolo monaco assorto10 sarà destinato a mutarsi in una figura enigmatica e non meno malinconica: l’uomo del Novecento11.

*** Affermare oggi che viviamo in un’età di crisi e di dissolvenza nichilistica dei valori è quasi un’ovvietà. Meno banale è associare un fenomeno così peculiare del nostro tempo al pensiero e all’opera di Leopardi, tanto che un simile accostamento ha suscitato un vivace dibattito che si protrae già da alcuni decenni con la partecipazione appassionata di intere schiere di filosofi e di critici letterari.

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Vedremo quanto il pensiero leopardiano sia capace di illuminare la genesi del nostro mondo. In questa prospettiva inedita, il grande Recanatese potrà apparirci non solo come un precursore della «morte di Dio» profetizzata da Nietzsche, ma anche come il primo genealogista del nichilismo europeo e l’inatteso divinatore di tutte le cifre che hanno presagito da lontano la soglia della nostra contemporaneità. Il presente lavoro non pretende di essere un’enciclopedia del nichilismo ad uso dei leopardisti né una summa leopardiana a vantaggio dei filosofi, per quanto – a tratti – possa averne un po’ l’aria. Quello che viene illustrato in questi capitoli di storia delle idee è piuttosto – lo ripetiamo – il quadro stratificato, il palinsesto della nascita di un’epoca nello specchio di un pensatore-poeta che è stato un grande visionario del futuro come pure del passato. Per accostarsi a Leopardi è pertanto necessario abbandonare in partenza la logica esclusivista dell’aut aut (poeta o filosofo? moralista o metafisico? e via di questo passo) a favore di una meno angusta ermeneutica dell’et et. Solo così si potrà sperare di cogliere il respiro di un genio poliedrico che non per caso venne subito avvertito come «sommo filologo, sommo poeta, sommo filosofo»12, ma che nondimeno può apparire a noi oggi anche in numerose altre vesti: come teorico della scienza, del linguaggio, e così via. Per tale motivo, non avrebbe molto senso pretendere di racchiudere una figura così complessa in una semplice etichetta, qualunque essa sia13. In fondo, è lo stesso Leopardi ad offrirci una chiara quanto preziosa traccia in una pagina dello Zibaldone dove accenna ai più grandi filosofi moderni – da Cartesio a Kant – quali esempi di «pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell’uomo, e in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d’ogni genere, nella filologia, nell’antiquaria, nell’erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata»14. Indubbiamente Leopardi intendeva muoversi sulla scia di tali «pensatori di tutti i generi» e lo faceva peraltro con la consapevolezza metodologica di una «storia filosoficamente considerata» (la genealogia!), quale poteva essere, alle sue spalle, quella di un Vico e quale sarà, dopo di lui, quella di un Nietzsche. Veniamo quindi alla struttura del presente volume. Nella prima parte di esso predisponiamo i registri metodologici della nostra indagine, focalizzando l’attenzione sull’ambiguità del nichilismo su un piano più teorico che storico. Quindi introduciamo le chiavi di let-

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tura dei due primi importanti filosofi interpreti di Leopardi che si sono confrontati con la tematica del nichilismo nel Novecento: Cesare Luporini15 ed Alberto Caracciolo16. Come vedremo in Appendice, la controversia ermeneutica sarà rilanciata sul volgere del secolo grazie ai contributi di numerosi filosofi17 e leopardisti18. Per quanto la discussione sembri essersi un po’ affievolita negli ultimi tempi, essa appare comunque ben lungi dal poter essere liquidata alla stregua di una moda passeggera19. La seconda e la terza parte del presente lavoro sono dedicate, rispettivamente, alla genealogia e alla fenomenologia del nichilismo. In esse emergerà come, in anticipo sulla Volontà di potenza di Nietzsche20, Leopardi sia stato in grado non solo di cogliere la provenienza e la portata epocale del nichilismo europeo21, ma anche di osservarne la più variegata fenomenologia, a partire dalle primitive forme grecoebraiche (alle quali si è accostato con dolente adesione) per giungere alle figure e alle movenze più moderne (alle quali ha invece reagito in maniera energica quanto mordace). Leopardi si rivela un formidabile archeologo della modernità, un lucido «profeta rivolto all’indietro»22, un sottile genealogista, un sensibile sismografo e una profonda coscienza critica della «nostra epoca»23. È quanto traspare, ad esempio, dalla sua impietosa requisitoria nei confronti della ragione moderna, accusata di essere «madre e cagione del nulla»24, nonché la promotrice di quell’apparato tecnoscientifico che uniforma («agguaglia»25) il mondo, riducendolo «in breve carta»26: l’attuale villaggio globale. Il doppio sguardo leopardiano-nietzscheano (cui si sovrappone inevitabilmente anche il nostro) ci consentirà di registrare le condizioni storico-teoriche che aprono la strada al «nichilismo europeo»27: rivolgimento antiantropocentrico, tramonto dei fini, crisi della teodicea, sino a quel controargomento ontologico che, sovvertendo il primato dell’essenza, dischiude un varco alle forme più peculiari del nascente pensiero contemporaneo28. Nella quarta sezione accediamo finalmente a quella soglia contemporanea in cui torna a svolgere un ruolo decisivo la figura di Leopardi come impensata cerniera fra nichilismo sette-ottocentesco e nichilismo novecentesco. Notoriamente, il termine «nichilismo» comincia a circolare nel dibattito filosofico tedesco a cavallo fra Sette e Ottocento. Al sacro terrore per il nichilismo destato dal critico postkantiano Jacobi sul volgere del secolo (nella sua famosa Lettera a Fichte)29 avrebbero reagito in toni più rassicuranti lo stesso Fichte con la Destinazio-

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ne dell’uomo (1800) ed Hegel con Fede e sapere (1802). Lo spettro del nichilismo agitato da Jacobi – e in seguito anche da Jean Paul – era quindi destinato a venire riassorbito da quello stesso movimento idealistico che l’aveva suscitato. Se si tiene conto dell’isolamento culturale del Recanatese nei confronti della filosofia tedesca a lui coeva, potrebbe sembrare azzardato ogni tentativo di accostamento alle figure del preromanticismo tedesco. Eppure non mancano appigli in tal senso. Ad esempio, l’incubo di un mondo senza Dio presagito da Jean Paul non poteva rimanere ignoto a Leopardi che, nel compulsare (fin dal 1820-21) un testo base del romanticismo europeo come De l’Allemagne di M.me de Staël, dev’essersi imbattuto nel famoso Discorso di Jean Paul sul «Cristo morto»30. Si tratta di un cupo preludio del nichilismo in cui, per la prima volta nella letteratura europea, viene allegoricamente annunciata la morte di Dio31. L’inquietante allucinazione riporta alla mente la fosca atmosfera evocata da Leopardi nel Federico Ruysch, dove pure si vedono i morti destarsi dalle tombe allo scoccare della mezzanotte per contemplare l’arcano dell’esistenza. La curvatura esistenziale del nichilismo, larvatamente prefigurata in Jacobi e in Jean Paul, diviene dunque preponderante in Leopardi, che rilancia in maniera drammatica il problema del senso della vita32. Vedremo come la nascita del nichilismo coinvolga tutta una galleria di personaggi che si sono variamente confrontati con i problemi lasciati aperti dal kantismo: da Jacobi e Jean Paul ad Hegel. Come già accennato, il dibattito sul nichilismo viene ufficialmente inaugurato dalla Lettera a Fichte (1799) sulla scia della disputa sorta intorno al presunto ateismo della dottrina fichtiana. Il nichilismo moderno sembrerebbe provenire quindi da un contesto prettamente gnoseologicoontologico maturato sullo sfondo della problematica postkantiana della «rappresentazione» e della «cosa in sé»33. È tuttavia a partire da un simile retroterra che comincia a serpeggiare, già in Jacobi34, quella dimensione assiologico-esistenziale destinata a divenire preponderante in Leopardi come pure in Nietzsche. Per quanto estraneo a tutto il dibattito, Leopardi non ne rimane ugualmente immune. Infatti, egli poteva attingere alla questione del nichilismo in un certo senso ‘alla fonte’, vista l’ipotesi di un mondo sdivinizzato prospettata per la prima volta da Pascal35 e destinata a riaffiorare in certe pagine allucinate di Jean Paul che il Nostro difficilmente poteva ignorare.

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Il carattere esistenziale del nichilismo comincia ad assumere un certo rilievo nella letteratura tedesca dell’età della Romantik36. La questione gnoseologica sbiadisce per lasciar spazio ad una sorta di nullismo metafisico, venato qua e là di un vago assurdismo. Malgrado tali presagi letterari, è solo a partire da Leopardi che la cifra del nulla riesce ad assurgere a spia dell’assurdo di un’epoca. L’opera del Nostro si pone in tal modo come cerniera sulla soglia del nichilismo contemporaneo (l’unico, a rigore, degno di tale nome), motivo per cui utilizzeremo la parola perlopiù fra virgolette: «nichilismo» (antico) salomonicosilenico, «nichilismo» (moderno) della ragione, e così via. È l’impero del «vero», con tutta la metafisica razionalistica che lo sostiene, a rivelarsi, agli occhi di Leopardi, la tendenza fondamentale dell’Occidente. Oltre a smascherare le forme del «nichilismo» platonico-cristiano37, la genealogia del Recanatese riesce a gettare lumi su tutta l’epoca moderna dominata dalla ragione e dalla fine delle illusioni38. L’epoca delle illusioni perdute: potrebbe essere questo il sottotitolo del “romanzo del nichilismo” che andiamo a raccontare. Leopardi ha indicato i precedenti della propria «filosofia dolorosa»39 in «Salomone e Omero», ovvero nel ‘protonihilismo’ ebraico, come nella sapienza negativa del Sileno. Ciò non basta tuttavia a fare di lui un nichilista nel moderno senso del termine: né la vanità universale predicata nell’Ecclesiaste né il me phynai («meglio non esser nati») dei Greci si pongono, infatti, all’altezza di un orizzonte propriamente nichilista. Del resto, la crisi della natura «provvidente» non è riducibile né al pessimismo antico di «Salomone e Omero» né a quelle figure altamente “leopardizzate” di Teofrasto e di Bruto40 che segnano la fine dell’età dell’immaginazione. Simili modelli di pessimismo classico sorgevano certo da una crisi dei valori tradizionali, ma la sfiducia che circondava la vita e la virtù non arrivava a toccare la questione del senso. Gli antichi non si erano posti un simile problema, né potevano farlo, sorretti com’erano dalla «persuasione che le cose sieno cose»41, «cose e non ombre»42. L’idea dell’assurdo, intesa come ciò che nel mondo resiste ad ogni umana aspettativa di senso, emerge come una conquista teorica tutta moderna il cui frutto ancora acerbo viene colto proprio da Leopardi. Basti, al riguardo, ricordare due frasi dello Zibaldone: «l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare»43. «Questo sistema, benché urti le nostre idee…»44. L’assurdo si

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manifesta come urto e dissonanza: Rensi non cesserà di ribadirlo sull’onda di Leopardi45 e lo stesso farà Camus muovendosi, magari senza saperlo, sulla stessa linea di Rensi. Alla problematica moderna del senso46 Leopardi aggiunge un’inedita inquietudine metafisica, radicalizzando l’interrogazione esistenziale e rendendola disperatamente viva. Come ha osservato Nietzsche, «il nichilismo appare ora perché si trova diffidenza a vedere un “senso” nel male e nella stessa esistenza»47. Esso si manifesta quindi nelle fessure del senso infranto e per converso la questione esistenziale si rende sensibile solo all’alba del nichilismo. La «domanda fondamentale» nasce dall’incrocio tra due diverse forme di nihilismo: quello antico, pressoché ignaro della questione del senso e quello moderno (o postnietzscheano) che la fa emergere proprio nell’impatto col nonsenso del mondo. Se è così, allora, a dispetto di tutte le pretese fonti straniere (tedesche, russe e francesi)48, con Leopardi la matrice italiana si rivela l’anello di congiunzione più rimosso del «nichilismo europeo». La costruzione (così come la decostruzione) del senso implica un processo storico ben più lento e laborioso di quanto generalmente non si immagini. Basti pensare alle domande d’ascendenza gnostica che riecheggiano nel pascaliano «discorso del libertino» o alla «destinazione» di cui parla Fichte nella Missione dell’uomo. Tanto il «quesito di Schopenhauer»49 quanto l’interrogazione del «pastore errante» o dell’«Islandese» leopardiani si collocano certamente su un’onda più lunga del domandare, lasciando trasparire una più profonda comprensione esistenziale del problema del senso50. L’opera leopardiana rappresenta dunque una lente privilegiata per ripercorrere le tappe che hanno contrassegnato il sorgere della nostra epoca. La stessa ‘svolta’ nichilista del Recanatese si rivela come uno specchio capace di riflettere l’intera parabola del «nichilismo europeo». Una ben precisa sequenza di «a priori storici» si è stratificata nel lento processo di decostruzione del senso e di parallela incubazione dell’orizzonte contemporaneo del nichilismo. I grandi storici delle idee del Novecento non faranno altro che confermare, nella sostanza, tale intuizione che era stata di Leopardi, ben prima che di Nietzsche51. Ricostruire in una prospettiva genealogica le condizioni di possibilità52 del nichilismo ci consentirà pertanto di illuminare quel grande «movimento»53 epocale, quell’«orizzonte» che nel 188754 Nietzsche vide aprirsi con la profezia di Pascal sul mondo sdivinizzato55 e con il «quesito di Schopenhauer» sul «senso dell’esistenza»56. Il profeta della «morte di Dio» arriverà a di...


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