Letteratura latina - Origini - Livio Andronico PDF

Title Letteratura latina - Origini - Livio Andronico
Course Letteratura latina
Institution Università degli Studi di Perugia
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Appunti lezione letteratura latina Livio Andronico...


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Livio Andronico La nascita della letteratura latina è per convenzione collocata in una data specifica e in correlazione ad eventi specifici. La data specifica e convenzionale è il 240 a.C., anno nel quale viene messa in scena una fabula, ovvero una rappresentazione drammatica in occasione dei ludi scaenici, ludi Romani, di quell’anno a firma dell’autore con il quale si aprono le storie letterarie, cioè Livio Andronico; ma l’aspetto avvincente ancora ai giorni nostri, proprio in ragione della situazione attuale, è che questa fabula viene ricordata da Tito Livio in correlazione a un evento di pestilenza, quasi che quella letteratura che investe più di ogni altra sul carmen , ovvero sul canto (parola latina che ha nella radice il verbo “cano”; le prime espressioni di letteratura latina furono proprio carmina, cioè canti), nascesse da un evento doloroso, da una pestilenza e Tito Livio, nei suoi libri Ab Urbe condita, specificatamente nel libro VII, cap. II, riferendosi alla pestilenza dell’anno 364 a.C., aprendo un discorso nel quale poi colloca gli eventi successivi al 240 a.C., si esprime come ora vado a leggere: - questa pestilenza si protrasse per due anni; sotto i consoli Caio Sulpicio Petico e Caio Licinio Stolone vi fu una pestilenza “pestilentia fuit” - nulla si fece degno di ricordo se non che, per impetrare la pace degli dei, per la terza volta dopo la fondazione dell’Urbe si tenne un lectisternium, cioè furono portati fuori dai templi i letti sui quali venivano adagiate le divinità e si organizzava una sorta di convivio attorno al quale, adagiate su questi letti triclinari, partecipavano le divinità: era una forma propiziatoria con la quale si sperava di porre fine alla pestilenza - la violenza del morbo non si riusciva a mitigare né con umana avvedutezza, né con divinito aiuto e si diceva che, vinti gli animi dagli superstizioni, oltre ad altri mezzi, si istituissero anche ludi scaenici - l’arte drammatica, teatrale, l’arte cui si collega la prima fabula di Livio Andronico del 240 a.C. nasce come conseguenza di questo evento dolorosissimo e luttuoso - una novità per il popolo bellicoso dei Romani, infatti fino ad allora si erano susseguiti solo spettacoli del circo, ma era una novità di scarsa importanza, come sempre succede a principio, e per di più di importazione straniera: danzatori fatti venire dall’Etruria, senza alcun testo elaborato, senza gesticolazione che mimasse un testo, danzando in accordo con i ritmi del flautista, eseguivano movimenti abbastanza eleganti, secondo il costume etrusco - i giovani iniziarono ad imitare ciò e a lanciarsi lazzi in rozzi versi - i movimenti in accordo con la voce - la novità fu accolta, ripetuta e prese voga - gli artisti locali, poiché in etrusco il danzatore si chiama hyster, furono chiamati histrioni - non come prima, si scagliavano a turno versi rozzi, improvvisati senz’arte, simili ai Fescennini, bensì organizzavano ora con cura spettacoli assai ricchi di musica, svolgendosi il canto in pieno accordo col flautista e i movimenti armoniosamente coordinati - dopo alquanti anni Livio Andronico (si giunge ora all’anno 240 a.C.), che per primo osò, partendo dalle Saturae, mettere insieme uno spettacolo regolare con la sua trama, era anche, come facevano tutti allora, attore dei suoi drammi - ora si dice che, avendo quasi perso la voce, perché richiamato sulla scena più volte, collocasse davanti al flautista un ragazzo perché cantasse e così egli poté danzare

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più agevolmente il cantico, perché non più impacciato dalla necessità di cantare da allora si cominciò a cantare accordando il canto al gestire degli attori e alla voce degli attori furono riservati solo i dialoghi, dopo di che, essendo gli spettacoli così organizzati, non si trattava più solo di far ridere senza regola e lo spettacolo a poco a poco si trasformava in arte i giovani, lasciata agli attori di professione la rappresentazione degli spettacoli regolari, cominciarono, secondo l’antico costume a lanciarsi lazzi in versi

Ecco come nasce, da quale episodio, in letteratura latina il dramma, la rappresentazione scenica e come nel resoconto di Tito Livio, Livio Andronico ne debba essere considerato il primo autore. Livio Andronico nasce grossomodo nel 280 a.C. e nasce in ambiente magnogreco, a Taranto. Roma si confrontò con questa città in un conflitto bellico e si concluse nell’anno 272 a.C., quindi quando Livio Andronico era un bimbo ed è presumibile che in età molto giovane dunque Livio Andronico sia giunto a Roma grazie alla mediazione di Livio Salinatore che al conflitto con Taranto aveva partecipato. Livio Salinatore portò Andronico a Roma come precettore dei suoi figli, lo affrancò e quindi gli dette la possibilità di essere incluso nella sua gens, motivo per cui si chiamò Livio Andronico, assumendo cioè il gentilizio della gens Livia. Ogni romano ha tria nomina: il praenomen, il gentilizio o nomen e il cognomen, di natura equivalente a un soprannome. Nel 240 a.C., in occasione dei ludi Romani, sappiamo che Livio Andronico mise in scena una sua fabula e lo sappiamo grazie alla testimonianza di Cicerone che ne parla nel Brutus, cap. 18, 72. Cicerone nel Brutus così si esprime: “Livio Andronico, per primo, sotto il consolato di Caio Claudio e di Marco Tuditano docuit = perché c’è l’idea di insegnare al coro la fabula, il dramma che si deve rappresentare, mise in scena una fabula, una rappresentazione drammatica proprio nello stesso anno, un anno prima che nascesse Ennio.” Secondo questa abitudine che hanno i Romani, appresa dai Greci, di stabilire delle sincronie, delle concordanze nella datazione, noi riusciamo a ricavare l’anno della prima rappresentazione. Questa testimonianza di Cicerone viene confermata anche da Quintiliano, il quale scrive forse davvero la prima storia della letteratura latino fino ai suoi tempi, nel decimo libro dell’Institutio oratoria; al cap. II, par. VII, Quintiliano conferma quanto appena desunto dalla testimonianza del Brutus, dicendo: “Nihil in poetis supram Livium Andronicum” In poesia, fra i poeti, non ci fu niente prima di Livio Andronico. Ovviamente non si considerava poesia regulata e litterata tutta quella produzione che la manualistica bolla come preletteraria perché troppo nettamente vincolata all’uso che è per esempio costruita dai carmina religiosi, come il Carmen saliare, il Carme dei fratrum Arvalium o i carmina convivalia o elogia funebri; queste non vengono riconosciute dalla testimonianza di Quintiliano, ma neanche di Cicerone, come forme letterarie autonome, svincolate dall’uso e regulatae, quindi non vengono incluse nella consapevolezza di storia letteraria.

Un’altra conferma noi la possiamo anche trovare nella testimonianza di Aulo Gellio, Noctes Atticae, 17, 21: “circa l’anno 490 dalla fondazione di Roma (cioè il 240 a.C.), essendo così Appio Claudio, soprannominato Caudex, fratello del famoso Appio Claudio Cieco e Marco Fulvio Flacco, ebbe inizio la guerra contro i Cartaginesi [...] a poco più di vent’anni sotto i consoli Caio Claudio Centone e Appio Cieco, figlio Appio Cieco e Marco Sempronio Tuditano, il poeta Lucio Livio per primo fece conoscere le rappresentazioni teatrali a Roma.” C’è dunque convergenza. Sappiamo inoltre che dal 218 al 201 a.C., in correlazione con la seconda guerra punica, Livio Andronico fu autore di un inno a Giunone regina, perché a Giunone regina? Giunone è la divinità collegata con la città di Cartagine, nume tutelare della città di Cartagine (lo dice anche Virgilio nel I Libro dell’Eneide: “posthabita coluisse Samo” = addirittura Giunone poneva Samo, la sua patria di elezione, in un rango inferiore rispetto a Cartagine). Per evocare a Roma Giunone e guadagnare il favore che Giunone da sempre riservava a Cartagine, venne scritto questo inno e fu incaricato della stesura Livio Andronico. Noi abbiamo questa informazione da Tito Livio (27, 37, 7), il quale ci dice che i pontefici avevano stabilito che 27 vergini cantassero questo inno andando in giro per la città. Quindi un inno intonato da 27 vergini, un dato che può sembrare un dettaglio inutile, ma che è invece indicativo sul piano della storia dei generi letterari, perché il fatto che questo inno fosse cantato da 27 fanciulle ci dà l’informazione che si configurava come un canto corale e che quindi era sentito come appartenente alla lirica corale che si oppone alla lirica monodica intonata da un unico cantore ed era ascrivibile al genere del partenio, cioè del canto intonato da un coro di fanciulle. Noi possediamo una delineazione canonica dei generi della lirica per la produzione greca, ma valida anche per la latina, che la eredita dalla greca, piuttosto tarda, perché ci viene fornito questo assetto dei generi lirici da Fozio, in età bizantina, codice 258 della sua biblioteca; questo codice riassume la produzione di Proclo , il punto di vista di Proclo sui generi della lirica e lì vedete che, oltre alla suddivisione fra lirica corale e lirica monodica, c’è anche una piena consapevolezza sui sottogeneri della lirica: l’inno, il poeana, il partenio, etc. Per cui, quando Livio Andronico comporrà questo inno, lo farà secondo una codificazione di genere che egli ha appreso dalla sua formazione magnogreca ed ellenistica; noi non dobbiamo dimenticare che egli opera nella metà del III sec. a.C., quel medesimo secolo in quale fiorisce l’ellenismo callimacheo nella letteratura greca, per cui compone questo inno in latino, ma lo fa attraverso una codificazione di genere di matrice schiettamente greca, dato importantissimo per la storia della letteratura latina e il suo rapporto con quella greca. In onore di Livio Andronico venne individuato un luogo e venne istituito un collegio, sull’Aventino, il tempio di Minerva, come sede del collegium scribarum histrionumque, ma per quanto questo gesto possa essere inteso come onorifico, ai nostri occhi questo evento diventa interessante sul piano del posizionamento del letterato nella storia nella consapevolezza dei suoi contemporanei. Non dobbiamo dimenticare che Minerva è la dea delle arti e dei mestieri e che gli istrioni sono accomunati agli scribi nella misura in cui sono rispettivamente gli artigiani del dramma gli uni e gli artigiani della scrittura gli altri e il fatto che fossero compresi in un collegio corrobora e conferma questo ruolo artigianale che il letterato riveste nella compagine sociale dell’età arcaica. Il poeta (poiètes) è un artigiano della letteratura.

Di Livio Andronico conserviamo poco e tutto ciò che conserviamo lo conosciamo tramite la tradizione indiretta, cioè non possediamo un’opera che per copie successive dall’autore sia giunta a noi, cosa che costituisce la tradizione diretta, ma per tradizione indiretta, cioè attraverso citazioni di grammatici o di autori di varia natura che hanno ricordato per loro scopi compositivi del tutto indipendenti, delle parti alcuni versi, alcuni titoli del nostro autore. Quindi noi possediamo titoli di tragedie, pochissimi titoli di commedie composte da Livio Andronico e poi più di 30 frammenti della sua opera più nota, che è la traduzione latina della Odissea di omero, la Odusìa. I titoli di tragedie: Achilles Aegisthus Aiax mastigophorus (“portatore di frusta”) Equos troianus Hermiona (Ermìone) Andromeda Danae Tereus (Tèreo) Al di là dei titoli specifici, quello che importa è che si tratta di titoli tutti chiaramente ispirati alla mitologia greca e a soggetti mitologici affrontati da Sofocle ed Euripide in particolare, ma anche da Eschilo, anche se in maniera minore, e anche si tratta di argomenti propri del ciclo troiano. Tra le commedie, ricordiamo soltanto 3 titoli: Gladiolus, la piccola spada Ludius, il burlone Verpus, il circonciso Ma non abbiamo ulteriori informazioni, sia a proposito delle tragedia e ancora meno a proposito della commedie, abbiamo invece qualche frammento dell’Aegisthus. Certamente l’opera più importante perché più documentata è l’Odusia, che viene tradotta dal greco utilizzando un verso autoctono, che è il verso saturnio, un verso nel quale trova espressione la resa latina concepita per fini scolastici che questo maestro, questo era Livio Andronico, precettore dei figli di Livio Salinatore, ha realizzato per i suoi allievi. Rimane famosissimo il primo verso dell’Odusia di Livio Andronico, che è traduzione letterale del primo verso dell’Odissea: andra moienne pemusa poliutropon diventa, nel latino di Livio: “virum mihi camena insece versutum” Questo è un verso saturnio ed è probabilmente un verso che, pur ponendo prodromi accentuativi, poi è traducibile in un sistema quantitativo costituito da un dimetro giambico catalettico e un dimetro trocaico virùm mihì camèna ìnsecè versùtum

Questo frammento, dovendolo indicare, secondo un sistema di citazione di riferimento, corrisponde al frammento 1 Morel. La raccolta più aggiornata dei frammenti dei poeti latini è stata pubblicata dal 2011 nella II edizione di Blendsdorf. Questo primo verso è tutto un programma (si consiglia l’analisi di Mariotti) e ha un peso enorme. La corrispondenza fra “virum” e “andra”, a indicare l’eroe Ulisse protagonista, che è assonante rispetto all’aggettivo “versutum” (virum/versutum), che si poneva nella parte diametralmente opposta del verso, a costituire un iperbato nella concordanza e l’assonanza è un espediente tipico della versificazione latina arcaica. Questo aggettivo “versutum” è un aggettivo che è tutto un programma, è l’aggettivo che in una parola connota non solo l’eroe protagonista, astuto, polytropos, capace in volgersi in molteplici direzioni, “trepo” che corrisponde al verbo “verso” latino, ma è l’aggettivo che in una parola riassume l’intera operazione del “vertere” della Odusia di Livio Andronico. Questa operazione di versione/trasposizione non è solo una traduzione, ma trasposizione culturale e trasformazione, per cui è una lettura di quello che era sentito come il poema più interessante e principe della letteratura greca, secondo la lingua e sensibilità della romanità. Se io dovessi così per metafora stabilire un nume tutelare all’operazione compiuta da Livio Andronico, lo troverei in Vertumno, la divinità romana della trasformazione, perché egli trasformò un poema importante e connotativo della letteratura greca in una operazione culturale latina. La seconda elegia del IV Libro di Properzio è dedicata interamente al dio Vertumno, dio della trasformazione. Vertumno parla in prima persona. “Perché guardare con meraviglia tanti miei aspetti in un solo corpo, considera le caratteristiche paterne del dio Vertumno Io Etrusco nasco da Etruschi, né mi pento di aver lasciato durante le guerre i fuochi di Volsena Amo questa folla, non mi rallegro per un tempio d’avorio: è sufficiente poter vedere il Foro Romano Un tempo il Tevere qua si apriva il cammino e dicono si sentivano i rumori dei remi attraverso i guadi percossi: ma dopo che quello concesse tanto ai suoi figli, sarò chiamato dio Vertumno dal fiume deviato oppure, poiché prendiamo il frutto dell’anno che scorre, si credette che di nuovo ci fosse il culto di Vertumno Per me la prima uva si trasforma in grappoli violacei, e la chioma della spiga si gonfia di frutto lattescente; qui vedi dolci ciliegie, qui prugne autunnali e rosseggiare le more nei giorni estivi; questo innestatore scioglie i voti con corone di frutti quando il pero dal tronco riluttante produsse i frutti [...]”. Queste metafore di colui che pratica innesti, che trasforma, sono metafore dell’operazione di traduttore di Livio Andronico, il primo della letteratura latina. Vediamo come questa trasformazione avviene: Camena che traduce Musa: le Camene sono le divinità collegate al canto, ma sono anche divinità che, attraverso Carmenta e le dee Ilizie, che si collegano a Mater Matuta (dea del mattino e dell’Aurora, protettrice della nascita degli uomini e delle cose), sono collegate al potere generativo, alle dimensioni aurorali e quindi la Camena è la divinità che presiede

alla poesia come atto generativo. Pensate che nella cultura arcaica romana le dee Ilizie, Prorsa e Prosverta, presiedevano ai parti e venivano così chiamate perché una tutelava il parto a buon fine e una il parto podalico. C’è questa concretezza culturale dietro alcune divinità romane. La poesia è vista come atto generativo e atto aurorale; la Camena si distingue dalla Musa, divinità della musikaé e la divinità figlia di Mnemosine, dunque figlia della memoria. Questo è un grosso indizio della trasformazione che Livio Andronico attua nella sua traduzione per nulla letterale. Insece è un arcaismo già dall’epoca di Livio Andronico, è un imperativo. Si tratta di un verbo che riproduce in latino la stessa radice in latino in -ep- di ennepe greco, che qui è -sec-, che è lo stesso radicale del verbo “sequor”; per cui la narrazione viene intesa come metafora odologica, è un cammino attraverso le parole, un cammino che il poeta persegue, accompagnato dal suo nume tutelare. Ma perché Livio Andronico sceglie l’Odissea? Perché non l’Iliade? L’Odissea costituiva per la romanità della sua epoca un poema più interessante. La risposta più importante è che l’Odissea parla del mare e parla del mare in quell’età delle guerre puniche, nella quale i Romani per la prima volta, loro che avevano sempre combattuto per terra, devono fronteggiare il mare e questo confronto con il mare è per loro uno spauracchio enorme, non a caso inventano i rostri che cercano di trasformare la battaglia navale in una battaglia per terra creando ponti tra le tolde delle navi. Quel mare è il mare della battaglia di Milazzo (260), di Ecnomo (256), delle Egadi (241). Il mare per Roma in quegli anni significa un confronto con la morte e l’eroe che è riuscito a vincere sul mare, a attraversare il mare, a superare il naufragio, cioè Ulisse, è un eroe importante per la romanità contemporanea a Livio Andronico e voglio ricordarvi, per darvi il sentore dell’orrore che il mare suscita per i Romani, come Livio Andronico nel frammento 20 Morel della sua Odusia ci parla del mare. “importunae undae” Si tratta delle acque che non consentono di giungere in porto, sta qui il dramma: le acque non sempre consentono di giungere sani e salvi in portoChe significa questo frammento? “poiché nessun peggior malanno macera l’uomo che il male selvaggio, crudele anche chi ha grande vigore [...]” cuoi = cui = dativo di possesso Quindi anche chi ha grande vigore presto lo spezzeranno le onde avverse, che non consentiranno di giungere in porto. Il mare è capace di spezzare (“confringent”; c’è “frango” dietro), spezza l’uomo così come spazza in un colpo l’imbarcazione. Se noi andiamo a confrontare questa con il modello greco, il modello di Odissea, 8, 138sgg., vediamo la potenza orrifica che Livio Andronico riesce a riversare ed esprimere attraverso questa traduzione. Nell’odissea si tratta semplicemente dell’episodio in cui Laodamante, figlio di Alcinoo, si rivolge a Odisseo, che è giunto dopo il naufragio, nelle isole dei Feaci, accolto da Nausicaa; Laodamante lo vorrebbe invitare a un gioco di abilità atletica, notando quanto Odisseo è ben messo fisicamente, robusto; allora Laodamante gli

dice: “e io dico che il mare è un grande male, il più grande dei mali e riuscirebbe ad abbattere anche chi fosse ben piazzato ma vedo che tu sei ben piazzato, saprai fronteggiare il mare e i giochi atletici” Si tratta di una situazione relativamente tranquilla, è ricordo en passant del mare. Quello di Livio Andronico chiaramente è un frammento, il frammento potenzia la forza, ma è molto più forte quel “mare saevum”, che si duplica nelle “importunae undae”. Livio Andronico sceglie di tradurre l’Odissea perché è il poema del mare e perché è il poema più adatto per quanto riguarda la situazione storico-politica e militare del periodo nel quale l’opera è stata composta. Ma altre risposte sono state fornite accanto a questa che io prediligo e queste risposte recuperano ad esempio la storia antiquaria di Roma e quindi si ricorda che ad esempio in alcune versioni remote e peregrine sulle origini dell’antico Lazio, Ulisse in quanto padre in queste versioni minoritarie del mito, di Agrio Silvio, di Latino e di Telegono, sarebbe stato padre di mitici fondatori di alcune città del Lazio e quindi in un certo senso sarebbe stata una figura anticipatoria della missione di fondazione di città che poi si risolverà nella fondazione di Roma...


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