Linguistica italiana - Giuseppe Sergio 2020/21 PDF

Title Linguistica italiana - Giuseppe Sergio 2020/21
Author Alessio Cudia
Course Mediazione Lingiustica
Institution Università degli Studi di Milano
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Summary

Linguistica = studio linguaggio italiano in tutte le sue manifestazioniLinguistica sincronica = studio della lingua che la considera in un preciso momento storico EX. Lingua italiana nel fine del 700 a milanoLinguistica diacronica = studio dell’evoluzione della lingua nel tempoDiacronìa: carattere d...


Description

Linguistica = studio linguaggio italiano in tutte le sue manifestazioni Linguistica sincronica = studio della lingua che la considera in un preciso momento storico EX. Lingua italiana nel fine del 700 a milano Linguistica diacronica = studio dell’evoluzione della lingua nel tempo Diacronìa: carattere dei fatti linguistici osservati dal punto di vista della loro evoluzione nel tempo (prima apparizione 1942 secondo il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana), derivante dal francese diachronie, attraverso l’unione di dìa e kronos (attraverso il tempo). Lo Zingarelli, aggiornato al 2021, invece, sostiene che il termine “diacronia” sarebbe stato avvistato già dal 1919. Ad avere ragione chiaramente è lo Zingarelli poiché più recente, ma non possiede l’assoluta verità: è possibile comunque che il termine sia comparso già in tempi più datati, ma non ancora scoperti. Linguistica interna: studia la lingua considerata come sistema, indipendentemente da chi la usa (fonologia, morfologia, sintassi). Linguisica esterna: studia l’influsso del mondo esterno (società, storia) sulla lingua. I fattori esterni che incidono sono fondamentalmente 3: - Fattori extraculturali, che si concretano per esempio nella configurazione geografica in cui una lingua è parlata o scritta. Questa influenza si percepisce soprattutto nei toponimi, ossia i nomi dei luoghi. Ad esempio: il nome della città di Subiaco deriva dal latino sublacueum, che ci suggerisce dunque che in tempi antichi in quel luogo si trovava un lago. - Fenomeni economici, demografici o eventi storico-militari: ad esempio, nella punta più meridionale dello Stivale, e cioè la Calabria, il dialetto parlato è molto simile al siciliano, fatto dovuto principalmente alla condivisione da parte delle due regioni della dominazione normanna. - Fattori culturali: alfabetismo, scolarizzazione, invenzione della stampa, fattori che hanno influito pesantemente sulla società al fine di modificare e migliorare la lingua. La lingua stessa, d’altra parte, può influenzare il mondo. Quando scriviamo o parliamo, nel nostro piccolo, modifichiamo ciò che ci ruota attorno. L’esempio più lampante sono i politici, che tramite l’uso dei massmedia, può influenzare pesantemente sulla scelta politica della popolazione. Diversi studi dimostrano come i politici impieghino la lingua in modo coscientamente sbagliato (non ingenuo) finalizzato al determinato obiettivo di creare scalpore e pubblicità attorno alla propria figura: parlare in modo errato crea nella mente del popolo: “Politico X parla nel mio stesso modo, utilizza i miei stessi termini, mi rivedo di conseguenza nel suo pensiero e nelle sue scelte”. Da tutto ciò, è nato il termine “gentese”, ossia il modo di fare di un personaggio pubblico che si avvicina più che mai proprio alla “gente” per guadagnare consensi e popolarità. Dire lingua italiana può voler dire tante cose, ci sono molte varietà linguistiche: per esempio il “giovanilese” o “italiano dei giovani”, il “burocratese”, l’”italiano digitato”, o l’italiano “degli stranieri”. Per orientarci nelle varietà di italiano, faremo perno sui principali parametri di variazione della lingua. Questi parametri sono fattori extralinguistici con cui è correlata la variazione della lingua: qualcosa che sta al di fuori della lingua, ma che la fa cambiare. Per esempio, nel “giovanilese”, il parametro che porta alla variazione della lingua è l’età in determinati contesti o situazioni.

La lingua italiana possiede diverse assi di variazione. Queste assi sono: -diacronìa -diatopia -diastratia -diafasia -diamesia Le assi si chiamano in questo modo perché sono intese come una linea continua che unisce due varietà contrapposte: se prendiamo ad esempio l’asse diafasico, su quest’asse (linea immaginaria) avremo un polo basso nel quale collocheremo l’italiano informale, trascurato, mentre al polo più alto collocheremo l’italiano formale. Fra il polo basso e il polo alto vi è un continuum, ossia una continuità tra le varietà che possiamo collocare su quest’asse, le quali sfumano impercettibilmente l’una nell’altra. Questo continuum viene definito da Verruti come un “continuum con addensamenti”, ossia delle gamme di varietà talmente simili tra di loro da non permettere l’esistenza di confini. Quindi, per poter essere individuata, la varietà deve possedere dei tratti diagnostici, esclusivi.

ASSE DIACRONICO La storia dell’italiano si può fare arretrare al latino volgare, che è un’evoluzione del latino classico. Il latino volgare indica un tipo di lingua parlata nella latinità, più colloquiale e vicina alle esigenze della comunicazione popolare, che si discosta quindi dal latino letterario. Cicerone, a tal proposito, si riferiva ad un “plebeius sermo”, una lingua usata dalla plebe, proprio per indicare quei costrutti e quegli usi lessicali che lui usava nelle lettere (uso informale) ma che bandiva nell’uso letterario. Il latino volgare, quindi, indica un registro informale. Esso veniva utilizzato in ambito epistolare (lettere informali) oppure in romanzi il cui intento era quello di mimare il linguaggio popolare. L’esempio più lampante è il Satyricon di Petronio. Altri esempi sono i trattati tecnici, oppure nelle scritture degli autori cristiani, i quali avevano a cuore l’evangelizzazione delle masse. I primi esempi di latino volgare si possono trovare anche nelle Grammatiche, o meglio nelle censure delle Grammatiche (ad esempio le Appendix Probi), delle specie di dizionari che facevano elenchi di parole da evitare (censurare). Nell’Appendix Probi (risalente al 3° o 4° secolo D.C), è possibile notare già un avvicinamento, seppur minimo, all’italiano odierno: parole come speclum piuttosto che speculum (specchio), virdis piuttosto che viridis (verde), sono una prova di come il latino volgare sia stato il registro linguistico che per primo ha fatto da ponte verso il linguaggio odierno. Un altro importante fattore di variazione del latino volgare, oltre che quello diafasico [contesto in cui viene utilizzato un certo registro linguistico (epistolare)] e quello diastratico [situazione del parlante (età, sesso, livello di istruzione)], è quello diatopico, che indica quindi le diverse aree geografiche dell’Impero in cui il latino volgare veniva parlato. In un Impero tanto grande quanto quello Romano, è ovvio che ci fossero diverse varietà di latino volgare, in quanto impossibile che in un’area geografica vasta quanto l’Impero, venisse parlata un’unica lingua. Le lingue sorelle (italiano, portoghese, francese, catalano, occitano, franco provenzale) sono infatti semplicemente delle derivazioni del latino volgare nate durante gli anni dell’Impero Romano. Ad esempio, dal latino “fumu (m)” (fumo), si può giungere all’italiano “fumo”, al francese “fumèe”, allo spagnolo “humo” e così via. D’altra parte, però, a seconda degli eventi storici avvenuti nel corso del tempo, è possibile che si abbiano degli esiti completamente diversi. Infatti, se nel latino letterario la parola “comeder” veniva tradotta nell’italiano odierno come “mangiare”, nel latino volgare, tale verbo era invece “manducare”. Nello spagnolo e nel portoghese, ad esempio, che hanno seguito il latino letterario, la parola “mangiare” viene ad oggi tradotta con “comer”, mentre nell’italiano o nel francese, come “mangiare” o “manger”, partendo

dunque da “manducare”. Lo stesso avviene per l’aggettivo “bello”. Nella penisola iberica, ad esempio, si è partiti dalla parola “formosus”, e da qui lo spagnolo “hermoso”. Nella penisola italiana o in Francia, invece, si è partiti dalla parola “bellus”, e da qui l’italiano “bello” o il francese “bel”. Queste conversioni sono studiate da una branca della linguistica chiamata “grammatica storica”, che ha il compito di mettere a confronto diversi esiti romanzi, anche di periodi storici diversi, per chiarire l’evoluzione delle regole e dei meccanismi che comportano il passaggio dal latino volgare alle lingue romanze. Un esempio di studio della grammatica storica, è il modo in cui vengono costruite certe parole. Una delle regole più importanti è la presenza (in latino) di un nesso consonante +L. In tal caso, inevitabilmente, nell’italiano odierno, la L si trasformerà in una I. Da ciò, dunque, la parola florem diventa fiore, la parola planum diventerà piano, e così via. La lingua italiana non è nata da un momento all’altro, chiaramente, ma è frutto di un periodo di incubazione piuttosto lungo, uno stadio in cui il latino volgare e l’italiano hanno convissuto. Questo stadio si è concretato in una serie di testi intermedi che sono emersi in particolare tra la fine dell’800 e il 900 d.C., nell’Alto Medioevo. Si tratta prevalentemente di scritture d’occasione, ad esempio graffiti. Un esempio tra i più celebri è il Graffito nella Catacomba di Commodilla risalente al IX sec. d.C. E’ un esempio di testo intermedio perché presenta sia tratti di latino volgare sia tratti simili a quello che sarà poi l’italiano odierno. In questo graffito, che recita “NON DICERE ILLE SECRITA ABBOCE”, un tratto italiano è l’imperativo negativo “NON DICERE”, costruito con negazione + infinito, ben diverso da quello che invece volevano i canoni latini (negazione + congiuntivo imperfetto, “NO DICEAS”). Un’altra evoluzione è data dall’aggettivo “SECRITA”, passando quindi dalla E lunga di “SECRETA” alla I di “SECRITA”. Infine, in “ABBOCE” si hanno due fenomeni: il betacismo, ossia il passaggio dalla V alla B, e il secondo è invece il tentativo da parte dello scrittore di rendere più “vocale” l’interpretazione della scritta “A VOCE”, con il raddoppiamento fonosintattico della B. Secondo gli studiosi, la nascita dell’italiano si può fissare al 960 d.C., anno in cui è stato redatto il Placito Capuano. Il Placito Capuano è un documento notarile ritrovato a Capua in cui si cercava di redimere una questione legale legata alla proprietà di un’abbazia nel quale compaiono quattro testimonianze in volgare. Come si legge nel documento, è presente un dialogo in cui diversi termini sono molto simili all’italiano. «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte s(an)c(t)i Benedicti». Sono interessanti diversi fenomeni circa questa frase, come ad esempio l’uso del verbo “Sao”, che diventerà “sapio” e poi “saccio” soprattutto nelle variazioni meridionali e nei dialetti odierni, oltre che l’utilizzo della K per indicare un suono duro. Il “ch” arriverà solo in un secondo momento”. Un fenomeno molto interessante è invece la dislocazione a sinistra, che consiste nell’anticipare sintatticamente il tema del discorso e poi riprenderlo tramite un’anafora. Il tema del discorso, in questo caso, è “le terre”, che poi viene ripreso attraverso il pronome anaforico “le”. Un altro caso interessante è la parte finale della frase, ossia “sancti Benedicti”, in cui le “c” tenderanno, col passare del tempo, ad un’assimilazione regressiva (Santo Benedetto). Oltre a ciò, l’uso del genitivo “sancti Benedicti” è a sua volta importante, perché ricalca un fenomeno che tutt’oggi si verifica in italiano. Questo documento è considerato l’atto di nascita dell’italiano è perché viene considerato un testo bilingue, un testo in cui la parte ufficiale è redatta in latino, mentre ad un certo punto del documento vi è un passaggio in cui subentra questa nuova varietà, ossia il momento in cui il notaio cede la parola ai testimoni, cambiando quindi registro linguistico e codice, riportando le esatte parole di essi. Il volgare evolve fino ad approdare nei testi letterari. A tal proposito si può accennare all’esperienza che fiorisce nella Scuola Siciliana, un’esperienza fondamentale (inizio 1200), anche se all’epoca in Italia circolavano già delle prove letterarie in lingue romanze (francese e provenzale in particolare). Ad influenzare la Scuola Siciliana sono i poeti provenzali, che sono ospiti di importanti famiglie italiane, oltre che i poeti italiani che scrivono versi in provenzale. I poeti siciliani stessi fecero qualcosa del genere, imitando i poeti provenzali e prendendoli a modello sostituendo però la lingua “straniera” con il loro volgare siciliano. I poeti siciliani, però, non scrivevano in volgare popolare o erano spinti da una volgarità popolare, anzi. I poeti

scelsero il siciliano dotandolo di un altissimo livello formale. Partendo da una base siciliana, essi la innestavano con termini provenzali. Ad esempio, le forme che finivano in “aggio” o “anza”, tipicamente non siciliane, venivano utilizzate. Le opere dei poeti siciliani, in gran parte, ci sono state tramandate tramite le trascrizioni dei copisti toscani, perchè con il passaggio degli Svevi e con le varie invasioni, molti manoscritti sono andati distrutti o persi. I copisti, nel momento in cui trascrivevano, toscanizzavano tali scritti. Per questo motivo, per diversi secoli, gli studiosi hanno letto tali opere pensando che fossero scritte in siciliano, quando in realtà i copisti li avevano modificati, toscanizzati. Più recentemente, diversi filologi, tra cui ad esempio Barbieri, si sono resi conto di tali modifiche e sono riusciti a rendere in siciliano i testi toscanizzati. Un esempio è dato dal “S’eo trovasse pietanza”, che in un Codice Vaticano è reso in toscano, e che poi è stato riesumato nella sua forma originale da Barbieri. La poesia siciliana risale tutto lo Stivale facendo da modello agli Stilnovisti, e da qui ci si ricollega a Dante. Dante è riconosciuto unanimamemente per i suoi meriti letterari come il padre della lingua italiana, ma anche per la sua attività di teorico, poiché a lui si fa risalire il primo trattato di storia della lingua italiana. Dante si pone alla scrittura del suo trattato, il De Vulgari Eloquentia scritto intorno all’inizio del 300. In tale opera, Dante, profondamente religioso, fa partire la storia della lingua italiana da un episodio biblico, iniziano dalla Creazione di Adamo. A tal proposito, Dante afferma che l’uomo è l’unica specie con la capacità del linguaggio, ed è proprio ciò che caratterizza l’uomo in quanto tale dalle altre creature. L’origine del linguaggio viene ripercorsa sempre attraverso episodi biblici, e in particolare è centrale l’episodio della Torre di Babele. Secondo Dante, la storia delle lingue inizia qui, poiché originariamente, secondo la tradizione divina, gli uomini erano stati condannati a non capirsi reciprocamente. Il latino è un’invenzione successiva a questa maledizione babelica ed è finalizzata a far comunicare gli uomini gli uni con gli altri. Dunque, mentre gli studiosi seguono una via più “pagana” in cui a partire dal latino si giunge alle lingue romanze, Dante preferisce seguire la via religiosa e biblica, in cui a partire dalla dispersione babelica si giunge al latino. Chiaramente, la convinzione dantesca era erronea, ma, su diverse cose Dante ci aveva visto lungo. Ad esempio, il poeta toscano aveva notato la parentela tra lingue come provenzale, francese, italiana, oppure possedeva il gusto per l’osservazione concreta delle lingue. Egli stesso fece una rassegna ad “imbuto” che partiva dall’Europa fino al nostro Paese, in cui riconosceva una serie di dialetti diversi. All’inizio del 1300, quindi, Dante era riuscito a suddividere i dialetti in aree geografiche e a riconoscerne le differenze. Oltre al gusto di osservare le differenze tra i vari dialetti, Dante si pose l’obiettivo di individuare il dialetto migliore, il dialetto per eccellenza che sarebbe potuto diventare in seguito una lingua unica per tutto il territorio italiano. Un dialetto illustre, poiché avrebbe dovuto dare lustro a chi lo parlava e lo scriveva, aulico e curiale perché doveva essere degno di essere parlato in un’aula di tribunale, in una corte e infine cardinale, perché doveva essere il cardine, il fulcro attorno al quale devono ruotare le altre parlate. Dante aveva questo duplice scopo, descrittivo dei vari dialetti e finalizzato a individuare il dialetto con i migliori tratti. Il verdetto è negativo: esaminando le varie parlate, Dante le elimina sistematicamente tutte, poiché indegne di essere considerate illustri, auliche, curiali e cardinali. Meno peggio degli altri risultano il volgare siciliano e il volgare bolognese: non quelli informali, ma di alto livello, propugnati dalla Scuola di Federico II di Svevia e da Guinizzelli. A tal proposito, è importante ricordare che Dante non lesse le opere siciliane nel dialetto siciliano, bensì nella loro forma toscanizzata, e proprio per questo riteneva che si trattasse di un linguaggio più elegante e adatto. Emerge da qui la considerazione secondo la quale la nobilitazione del volgare dovesse avvenire attraverso la letteratura: non ci può essere una lingua senza una letteratura di supporto. Questa esigenza di una letteratura porterà Dante, nel Convivio, a modificare la sua opinione ritendendo il latino comunque superiore al volgare, poiché utilizzato per scopi d’arte. Rimane in ogni caso della fiducia nel volgare, definito “il nuovo Sole” poiché destinato a splendere insieme al latino, in quanto è comunque possibile raggiungere la creazione di una letteratura volgare. Secondo gli studiosi, Dante ha lasciato il De Vulgari Eloquentia incompiuto proprio per tale motivo: Dante pensava ad un’esigenza di stilizzazione dell’italiano volgare, e nella sua testa, in quel periodo, stava cominciando a defilarsi una nuova idea di letteratura, ossia l’idea della Commedia. In tal modo Dante si contraddice, poiché la Commedia è

caratterizzata da un fortissimo plurilinguismo e pluristilismo, in cui a più lingue e stili corrisponde una sola letteratura. Nella Commedia viene impiegato un vasto uso di risorse stilistiche e linguistiche. D’altra parte, Dante scrive quest’opera in esilio e non a Firenze, e pertanto apre anche al parlato settentrionale oltre che al dialetto toscano, istituendo un connubio tra Nord e Centro. Oltre a ciò, vi è un’inedita ricchezza tematica, e questo fatto implicitamente dimostrava che l’italiano aveva delle potenzialità illimitate: poteva essere impiegato per parlare di tutto. La Commedia ha da subito un successo enorme, si diffonde moltissimo e non si esagera nel dire che fu il vero e proprio Cavallo di Troia della lingua italiana. La lingua italiana utilizzata da Dante nell’opera sarà proprio la lingua che si diffonderà a livello nazionale. Ovviamente non fu la sola Commedia a rendere così importante la nostra lingua, ma fu uno dei tanti fattori determinanti. Firenze, infatti, potè contare pochi anni dopo su altre due opere per la diffusione dell’italiano: il Canzoniere e il Decameron. E’ proprio per questo motivo che l’italiano odierno è un italiano di base fiorentina: fortuitamente tutti e 3 i poeti più importanti della nostra letteratura furono fiorentini. L’influenza che la letteratura ebbe sulla lingua fu talmente tanto importante che l’italiano è ad oggi una delle pochissime lingue ad essere definita “letteraria”, poiché fondata sulla propria letteratura. Oltre a questi fattori, ce ne furono altri che portarono Firenze ad una supremazia economico-sociale. In quel periodo, il fiorentino era espressione di una società molto vivace, ricca e che aveva rapporti commerciali con tutta Italia e gran parte dell’Europa. Inoltre, il dialetto fiorentino era, dal punto di vista strutturale mediano: non aveva delle particolarità fonetiche e morfologiche molto evidenti e che la differenziavano dagli altri, ma fungeva quasi da ponte, possedendo diverse varietà e sfumature di molti dialetti. L’ultimo fattore è la sua vicinanza strutturale al latino. In confronto ad altri dialetti, il fiorentino era piuttosto vicino al latino stesso: i passaggi della grammatica storica dal latino al fiorentino erano meno evidenti e “duri” rispetto a quelli degli altri dialetti. La Commedia ebbe talmente tanto successo che furono trovati più di 600 manoscritti in giro per l’Italia. Chiaramente, un numero così alto di manoscritti lascia intendere che è possibile che coloro che hanno trascritto la Commedia potrebbero avere, consapevolmente o meno, modificato in alcuni punti il testo. Ad oggi, non possedendo la copia originale di Dante, non possiamo sapere con esattezza qual è il testo originale. Nell’edizione critica del Petrocchi, già dai primi versi, è possibile notare questo particolare. La prima terzina “Nel mezzo del cammin” così come la conosciamo è molto probabilmente la stessa scritta da Dante. Non possiamo comunque averne la certezza, dato che, come si può nota...


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