Partigiane, tutte le donne della resistenza. Marina Addis Saba. PDF

Title Partigiane, tutte le donne della resistenza. Marina Addis Saba.
Author Elisa Alfonso
Course STORIA CONTEMPORANEA
Institution Università degli Studi di Sassari
Pages 4
File Size 87.5 KB
File Type PDF
Total Views 156

Summary

Riassunto del libro "Partigiane, tutte le donne della Resistenza" di Marina Addis Saba. Varie testimonianze di partigiane che lottarono per la liberazione della loro patria....


Description

Le donne sono spesso coinvolte nella Resistenza perché parenti di perseguitati, per la loro formazione, cultura o per mille altri motivi, che portano tutte ad opporsi strenuamente al fascismo. I nomi di di queste donne sono vari e vari motivi per cui decidono di partecipare al movimento: Bianca Ceva, dopo essere stata arrestata perché non aveva la tessera fascista, incontra due soldati fuggiaschi e li cura e li conforta, e da lì inizia tutto. Riesca a scampare alla cattura ma verrà denunciata da due contadine e incarcerata. Le donne partigiane erano solite vestire abiti molti femminili, per ingannare i fascisti ed essere utili alla lotta, mentre al contrario i partigiani uomini indossavano una divisa per celebrare in modo simbolico la loro scelta. Queste donne resistevano, affrontando ogni genere di rischio e sofferenza e anche il carcere. Proprio questo è il teatro delle più interessanti testimonianze; nel carcere si incontravano donne di varie estrazioni sociali, politiche e prostitute. Donne che in altri momenti non si sarebbero potute mai incontrare, lì divennero compagne, si sostennero e studiarono assieme. Proprio la prigionia contribuisce a rendere più forte la resistenza. Nasce inoltre, in quel periodo, il fenomeno delle “donne ostaggio”, che venivano imprigionate al posto del figlio o di qualche altro parente dissertore. Suore e parenti cercano spesso di dissuadere le partigiane dal continuare la Resistenza, accusandole di aver abbandonato i loro figli; a volte invece queste donne trovano dalla loro parte degli aiutanti inaspettati. Non solo le loro famiglie, che organizzano nelle loro case piccole basi in cui i resistenti possono trovare accoglienza, ma anche persone come la moglie del tenente Finestra, che riesce a salvare una partigiana, oppure il maresciallo Maugeri, che avverte del pericolo Cesira Fiori e il suo compagno, i quali riescono a scappare dopo che le loro conversazioni sono state intercettate dal comando tedesco di zona. Nonostante tutto l’orrore visto e vissuto, molte di queste donne ricordano con nostalgia il tempo della Resistenza, un periodo in cui tutti divennero migliori, generosi e altruisti. " Il fascismo ridicolizzava ogni forma di femminismo e, nelle loro file, vi erano donne entusiaste, donne plasmate dalla propaganda. Nelle altre schiere, le donne (madri, mogli, fidanzate) attendono i loro uomini e odiano la guerra, sempre di più. Poi bombardamenti, sfollamenti; la guerra mette tutti uno contro l’altro, trasforma anche il più altruista in un egoista. Vi è un punto fermo nella presa di coscienza che porta le donne ad aderire alla Resistenza: abbandonano la passività e partecipano al moto in mille modi, costituendo la colonna portante, la spina dorsale. Alcune, come la partigiana Trottolina, presero le armi contro i tedeschi, altre lavorano all’anagrafe, confezionano il vestiario per i partigiani, fanno da staffette e accolgono nelle loro case i dissidenti. Di solito queste donne non esaltano le loro gesta e la sdrammatizzano o minimizzano; per loro era semplice vita quotidiana. Per le partigiane è anche più facile, libere da schemi mentali riguardanti l’onore e concetti militari, andare contro il fascismo e il potere costituito. Esse non furono meno importanti degli uomini, la loro dipendenza da questi era bilanciata da una totale dipendenza degli uomini dalla cura femminile. All’armistizio, le donne si costituiscono subito in gruppi operativi di lavoro, raccolte di vestiti, cibi, medicinali, ecc. sin dai primi giorni dopo l’occupazione tedesca. Nel novembre ’43 a Milano si trovano dirigenti dei partiti CNL (confederazione nazionale del lavoro), comuniste, socialiste e creano un’organizzazione femminile di massa denominata Gruppi di Difesa della Donna e di assistenza ai combattenti. Vogliono diffondere la resistenza civile alle donne comuni, digiune di politica dopo 20 anni di dittatura fascista. Queste donne vengono coinvolte nel riscatto della patria in vari modi. I gruppi si formano soprattutto al centro-nord, dove le donne hanno già raggiunto un grado di emancipazione e consapevolezza molto più alto rispetto alle sorelle meridionali. Molte testimonianze ci raccontano inoltre dello stretto legame fra GDD e partito comunista, per esempio la compagna Tessieri era responsabile politica del partito ma anche del GDD ed è lo stesso partito comunista a dare il nome a quest’ultimo. Molte organizzazioni si oppongono, ritenendo che non ci fosse bisogno di un’organizzazione femminile, essendo sempre stato il ruolo delle donne subordinato a quello degli uomini anche all’interno della Resistenza. Inoltre, in seguito varie opposizioni nasceranno per la paura (soprattutto di democristiani e liberali) che questi gruppi fossero egemonizzati dalla sinistra, essendo la maggior parte delle partigiane legate a partiti di estrema sinistra. Non risultano però tentativi da parte di queste donne di catechizzare le altre partigiane apartitiche. Anche per questa credenza diffusa, cioè che i GDD fossero schierati verso una determinata ala politica, molte donne decisero di non entrare nelle organizzazioni. Questo è facilmente spiegabile se pensiamo al fatto che le donne, da sempre e forse ancora oggi, non hanno le stesse possibilità di entrare attivamente nella politica come gli uomini. Molte donne invece avevano ben chiaro il loro obiettivo, che era anche quello di prendere dimestichezza con la lotta armata. A Torino i GDD si organizzano soprattutto nelle fabbriche (anche nella Fiat Mirafiori) in gruppo di 8-9 operaie. Della formazione e delle molteplici attività del GDD abbiamo testimonianza da Ada Gobetti, all’inizio incerta se entrare nel gruppo o

no. Qui incontrerà Rosetta, comunista, e insieme contestano la denominazione e preferiscono quella di “donne volontarie”. Non vogliono limitare il loro ruolo all’assistenzialismo e richiedono la parità. Crearono una sorta di manifesto per il partito ma non lo fondarono finché non troveranno una socialista, una liberale e una demo-cristiana. Entrano nei racconti così altre donne, come Irma la liberale. Stampano manifesti da distribuire nelle scuole superiori quando la repubblica di Salò minaccia la pena di morte per i renitenti, per incitarli a non presentarsi. Alle origini il gruppo si riuniva nelle case e venivano messe in piedi vere e proprie lezioni di svariate materie: sabotaggio in fabbrica, corsi di cucito e dattilografia, ecc. Non solo donne laiche diedero il loro sostegno, ma anche suore; un gruppo di Torino, visto il grande numero di partecipanti, dovette trasferirsi nella sagrestia della cappella, dove suor Serafina faceva la guardia. Si mostra così l’alleanza con donne al di sopra dei partiti, con donne cattoliche e suore e la scaltra vigilanza delle donne. Ma da queste donne, nonostante tutto, ci si aspetta sempre e solo ruoli di cura, anche se sono in molte a rifiutare i consueti ruoli femminili e a voler combattere. La regione in cui i GDD sono più forti è sicuramente l’Emilia Romagna, alle Alfonsine delle partigiane ottengono la scarcerazione di un’intera famiglia tenuta in ostaggio dai tedeschi. Difficile dire quanto siano state davvero le partigiane: le cifre ufficiali parlano di 35.000 combattenti, 20.000 patriote e 70.000 appartenenti ai GDD. In questi gruppi inoltre non vi era una gerarchia, perché venivano rifiutate strutture di stampo partitico o militare. Questi gruppi erano caratterizzati da una sola cosa, l’unione. Le donne assunsero vari ruoli all’interno della lotta, fra cui quello tipicamente femminile dell’assistenza sanitaria. Infermieri e medici (suore e crocerossine) aiutano partigiani a guarire, consapevoli di doverli poi nascondere. I questurini della repubblica di Salò aspettano la guarigione per prelevarli, ma questi vengono nascosti nei posti più assurdi: armadi, porta vivande, autoclavi, un giovane addirittura vestito da infermiera. Durante la breve resistenza di Roma, le donne aiutano i combattenti e sono vittima loro stesse delle battaglie; ne moriranno 28. I racconti di queste donne sono asciutti ma ricchi di particolari. Una di queste, per esempio, racconta di come ha reperito vari farmaci per poter curare i partigiani, ma anche di come rifiutò le avance di uno di essi e mai accettò di essere trattata come una cuoca e una domestica. Lei era lì per fare l’infermiera e prendere le armi quando sarebbe stato necessario, non per essere ancora una volta relegata ad angelo del focolare. Molte furono anche le infermiere improvvisate che accolgono nelle loro case ma curano anche in ospedale. Al Niguarda di Milano, ad esempio, lavorò la caposuora Giovanna Mosna. Un’altra incombenza specifica destinata alle donne è la composizione dei cadaveri martoriati, la disposizione della sepoltura e il funerale. A questo compito era legato quello di dover comunicare ai parenti le morti dei loro cari, talvolta di riportare loro una qualche reliquia del caduto. Le donne si occupavano del mercato nero, esercitando quell’arte tipicamente casalinga di trasformare i soldi guadagnati dal marito in ogni sorta di bene utile alla famiglia. Comprano, vendono o barattano cibi che nei negozi non erano più reperibili e molto spesso occorre ricercarli. Molto spesso, trasportando cibo, finiscono per iniziare a contrabbandare anche armi e stampa clandestina. Il più caratteristico fra i ruoli femminili delle partigiane è, però, sicuramente quello della staffetta. Non è un ruolo legato allo stereotipo tradizione femminile ma nemmeno si può dire che sia una vera e propria partecipazione alla banda armata. Le staffette camminano anche chilometri per permettere i contatti fra le bande e trasportando ogni genere di cosa necessaria dalle armi, alle medicine, ai giornali. Le donne ora sono davvero libere, libere di andare per le vie da sole in sella alle loro biciclette (il mezzo più utilizzato dalle staffette), di ammirare i paesaggi e anche di passare, spavalde ma piene di paura, i posti di blocco nazifascisti. Nascondono tutto in grandi borse, pancere, giarrettiere, reggiseni. Sono pronte a tutto e ben consapevoli di tutti i rischi in cui possono incappare. Uno di questi, era quello di perdere una delle cose che per una donna, all’epoca, era una delle più importanti: la reputazione. Venivano spesso viste in compagnia di uomini e, per questo, considerate delle poco di buono. I rapporti con la popolazione erano comunque sempre di grande apprezzamento e spesso le donne più mature offrivano alloggio e cibo caldo alle staffette. Il loro numero è altissimo e anche incalcolabile, a Firenze per esempio se ne stimano almeno 400. Sono le uniche ad avere sia una qualifica sia a comparire nella letteratura partigiana. Queste donne sono giovani, a volte bambine, come nel caso di Oriana Fallaci, che già a 13 anni era una staffetta. Ci furono anche staffette mamme, che lasciavano i loro figli a casa per dare un contributo alla resistenza. Molte di esse (mamme e non) sentivano il desiderio di rimanere con la banda partigiana ma spesso per la loro condizione non possono. Non hanno dimestichezza con le armi, nemmeno da bambine ricevevano armi giocattolo ma solo bambole. Infine, un ruolo ben testimoniato è quello delle fattorine, le donne che organizzano e diffondono le stampe clandestine. Nacquero numerosi giornali femminili, il cui titolo più gettonato era “noi donne”, accompagnato da altri come: “donne in lotta”, “la nostra voce”, ecc. a questi giornali si aggiunsero anche volantini, circolari, lettere aperte stampate da partiti nelle zone partigiane, ecc.

Le donne non scrivevano mai nei giornali maschili, qualunque fosse lo schieramento politico; fanno eccezione Laura Bianchini e Bianca Ceva. Le ragazze raccolgono i testi, li correggono, li portano in tipografia e li ritirano. Meno pericolosa sembrava invece la distribuzione porta a porta. Ad aiutarle in questo compito erano le portinaie, onnipresenti e onniscienti. Alcune, come la portinaia di Ada Gobetti, non volle sapere nulla per paura di “cantare”, ma fece del suo meglio per aiutare la causa. Le fattorine trovano complici non solo nelle portinaie ma anche in guardie di fabbrica, autisti di autobus, parroci e persino carabinieri. " Le donne raramente ebbero il diritto di difendere la patria con le armi e furono a loro negati privilegi riservati al genere maschile, come la gestione dell’apparato industriale e militare e alcuni mestieri. Nel percorso di presa di coscienza femminile, l’uso delle armi ha un significato simbolico: quello di voler partecipare alla ricostruzione della propria patria in ogni modo possibile. Questo è il sentimento che serpeggia fra le donne di molti paesi, dall’Italia, alla Francia, all’Ucraina. La presenza femminile genererà non poche reazioni negative da parte dei loro commilitoni uomini, che non riuscivano ancora a mettere da parte lo stereotipo secondo cui armi e guerra non sarebbero cose da donne. Molto più spesso però accade che i partigiani vogliano usare le donne all’interno del loro gruppo, aspettandosi da loro quello che più si addiceva, secondo loro, al genere femminile: la cura. Nonostante vedano le loro compagne pulire gli armamenti, fare i turni di vedetta e combattere fianco a fianco con loro, non smettono mai di vederle come donne. Imparano però un nuovo modo di rapportarsi ad esse, sicuramente più rispettoso e amichevole. Nacquero, ovviamente, tanti amori nella Resistenza; i partigiani potevano essere degli spiriti liberi ma la loro morale era rigida. Le donne compagne si amano, si rispettano e, alla fine, si sposano. Per le donne quella di entrare nella lotta era una scelta difficile. Questa spesso comportava la rottura con la famiglie d’origine, che non vedevano di buon occhio la scelta delle figlie di vivere assieme a tanti uomini. Molte scelgono di abbracciare le armi per piena adesione alla resistenza, altre perché obbligate per necessità di difesa sia personale, sia dei parenti. Ma qualunque sia il motivo, tutte prendono coscienza di non dover più essere per gli altri, che a dare senso alla loro vita non deve essere per forza la cura per i loro cari. Combattendo davano un senso alla loro esistenza, al loro essere donne nella Resistenza. Una cosa che desta molto curiosità è la scelta dei nomi da partigiane; queste donne in realtà non scelsero ma subirono la scelta “dall’alto”. Colpisce anche il fatto che i loro nomi siano molto differenti da quelli maschili, più scanzonati come Trottolina, o comuni come Maria, riecheggianti un ricordo letterario o in omaggio agli alleati russi. I più particolari sono sicuramente quelli di Ada Gobetti, chiamata Ulisse, e quello di Bianca Ceva che si firma Nadir. La lotta armata delle donne sarà cruciale in molte giornate di insurrezione, come quella di Napoli di settembre/ottobre ’43 e quella dei castelli romani. Dai primi di settembre del ’43 fino al 4 giugno ’44, Roma rimase in balia di tedeschi e fascisti. Gli Italiani comprendono che la guerra è ben lontana dall’essere finita. Si creano i primi nuclei di Resistenza, famiglie legate al mondo del cinema e dell’arte in generale, insegnanti e studenti, che a loro volta creeranno l’USI e l’AIDI. All’interno di questi partiti, molte sono donne, e collaborano con esse dirigenti comuniste. Ragazze e donne mature, unite di nuovo dopo la frattura generazionale portata avanti dal fascismo. Ma ora anche la popolazione è dalla parte dei partigiani e delle partigiane, diventa essa stessa partigiana per combattere i nazifascisti. Roma diventa in quel momento città delle donne, visto che tutti gli uomini dovettero lasciare la città, dopo che i bandi della repubblica di Salò obbligarono al lavoro coatto gli uomini maturi, alla leva quelli giovani. Viene indetto il coprifuoco, vietato camminare in certe strade, telefonare e telegrafare. Alla violenza nazifascista si risponde con attentati in pieno giorno, bombe, raffiche di mitra. Non mancavano però momenti di leggera quotidianità; spesso alla domenica si riunivano per pranzare tutti assieme, a chiacchierare, cantare e divertirsi. “Così riuscivamo ad essere felici, o quasi”. Molto spesso questa placida serenità era deturpata dal pensiero che, nonostante tutto, quegli stessi soldati tedeschi o fascisti che trucidavano di giorno, alla fine erano ragazzi come loro. Con una famiglia, un amore, alcuni dei figli. Obbligati dal loro stato o da uno stupido senso dell’onore a combattere contro i loro coetanei. Forse anche per questo ad alcuni di loro risulta più facile uccidere un fascista, traditore, piuttosto che un tedesco. " Dopo l’armistizio l’Italia è messa a ferro e a fuoco dall’esercito tedesco per punire i traditori italiani. Le stragi dovrebbero servire da monito alla popolazione per non collaborare mai con i partigiani ma ottengono, in realtà, l’effetto opposto. La più afferrata tra le stragi commessa dall’esercito tedesco è sicuramente quella di Civitella in Val di Chiana. Gli uomini vengono uccisi, sventrati, i loro cadaveri dati alle fiamme. Le donne scapparono e tornarono solo dopo alcuni giorni, per dare ai caduti degna sepoltura. "

Un momento molto importante furono anche gli scioperi del ’43, nati soprattutto per impedire che la manodopera venisse trasferita in Germania a produrre per i nazisti. Molte donne vengono convinte da militanti comuniste e antifasciste a partecipare agli scioperi e per questo alcune sono riluttanti a partecipare, perché vedono questi scioperi politicamente schierati. Mentre gli scioperi sono organizzati dagli uomini, molte manifestazioni tra il ’43 e il ’45 nascono da iniziativa femminile. Per citarne alcune, abbiamo quella di Roma dove le donne assaltano i forni, a Borgo Pio svuotano i camion tedeschi. La più grande e significativa è quella organizzata a Torino nel ’45 per i funerali delle sorelle Arduino. Arriva poi la liberazione, che però per le donne ha un sapore dolce amaro. Dopo aver difeso, in vari modi, la propria patria, le partigiane sono costrette a vedere gli uomini prendersi la gloria di tutto, a stare ai lati della sfilata, ad applaudire ai compagni con cui hanno condiviso tante lotte. Come se il loro contributo non valesse niente. Solo poche donne sfilano insieme ai partigiani e queste sono vittime dei giudizi più impietosi. Quei momenti di resistenza, il loro coraggio, la loro astuzia e il loro ardore rimane solo nei loro ricordi e smettono anche di parlarne. Un altro argomento sempre e solo sfiorato nei racconti delle partigiane è quello delle violenze sessuali. Molto spesso non se ne fa neanche menzione, nonostante si sappia che gli stupri non furono per niente casi isolati....


Similar Free PDFs