Title | Riassunto \"Attesi imprevisti\" del prof. Paolo Perticari |
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Course | Migrazioni e sperimentazioni linguistiche e culturali nei servizi per l'infanzia e per le famiglie |
Institution | Università degli Studi di Bergamo |
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Riassunto "Attesi imprevisti" del prof. Paolo Perticari...
ATTESI IMPREVISTI- PERTICARI Fino a qualche tempo fa presso il ceto buro-pedagogico che governa la vita della scuola imperava un cognitivismo hard di matrice comportamentista, che disegnava il processo di apprendimento come percorso lineare, scandito in tappe predeterminate attraverso le quali far passare ogni studente, verificando passo passo l'acquisizione di ogni singola "abilità". Negli ultimi anni si è diffusa la consapevolezza della "complessità" dei processi di insegnamento/apprendimento. Dal primato della sfera cognitiva si è passati all'attenzione per la sfera etica, psicologica, relazionale; dai percorsi standardizzati all'individualizzazione; dalla linearità alla modularità, all'elaborazione di mappe cognitive, "strutture ipertestuali"
e
via
dicendo.
Ma il riconoscimento della straordinaria complessità dell'insegnare e dell'imparare non ha prodotto un atteggiamento di umiltà, di consapevolezza del limite, di apertura all'imprevisto; è accresciuta la mania del controllo .sono un esempio gli ultimi strumenti di valutazione, volti a isolare e a misurare, uno per uno, "tutti" i fattori che interverrebbero nel processo di apprendimento di bambini e bambine: abilità cognitive, atteggiamenti etici, caratteristiche intrapsichiche come l'autostima o la conoscenza di sé. Sullo sfondo resta un'idea dell'insegnamento come trasmissione unilaterale di saperi e valori, basata sulla presunzione che i modi di funzionamento delle menti dei "discenti" siano conoscibili, controllabili, plasmabili
e
misurabili
dall'esterno.
Il libro di Paolo Perticari può essere letto prima di tutto come un buon antidoto contro l'intrusività della pedagogia ufficiale, minacciosamente puntata contro la privacy, e l'infinita varietà degli stili cognitivi dei ragazzi e delle ragazze.Dal punto di vista concettuale il discorso poggia sui capisaldi delle epistemologie costruttivistiche nelle loro componenti cibernetiche, biologiche, antropologiche (da Bateson a von Förster, da Varela a Maturana a Gordon Pask), attorno ai quali l'autore intesse una divagante e idiosincratica trama di suggestioni, citazioni e spunti tratti da poeti, narratori, filosofi, teologi, educatori, pensatori
canonici
e
irregolari.
Da qui scaturisce una visione dell'insegnamento/apprendimento che si avvicina all'esperienza concreta di un insegnante assai più delle algebriche costruzioni della pedagogia dominante: un incontro imprevedibile, avventuroso, spiazzante, tra persone di generazioni diverse, nel corso del quale ciascuna può apprendere verità sorprendenti dall'altra, a patto che l'attenzione non sia centrata su un futuro predeterminato ma sulla qualità dell'esperienza presente, e che la scuola non sia vista come un ingranaggio per far meglio funzionare il sistema economico e ideologico circostante ma come una zona franca
che
ha
al
suo
centro
la
libertà
e
lo
stupore
della
relazione.
Questa consonanza fra teoria ed esperienza ha un solido fondamento nella parte più narrativa dell'esposizione, affidata a Marisa Brighi e Gabriella Giornelli, insegnanti di italiano e di matematica in una scuola media, che si possono considerare a pieno titolo coautrici del libro per la rievocazione di incontri, conversazioni, esperimenti didattici, vissuti nella concreta realtà di una classe, che fanno da controcanto
all'argomentare
diPerticari.
Fra la parte teorica del libro e le esperienze narrate da Brighi e Giornelli non c'è una relazione gerarchica ma un dialogo alla pari: il mestiere dell'insegnante, come si delinea nelle pagine del libro, non consiste nel trasmettere unilateralmente un sapere dato ma nel favorire la costruzione cooperativa di un sapere nuovo, che nasce dai modelli di mondo delle persone adulte e bambine che si incontrano quel giorno in quella classe: la progettazione si coniuga con l'improvvisazione, l'insegnare si intreccia con l'imparare, le strategie didattiche si modellano di momento in momento sugli sviluppi della conversazione, in un processo le cui modalità e i cui esiti non sono conoscibili all'inizio del percorso ma solo alla sua conclusione. Anche per questo Perticari ribadisce più volte che la sua intenzione non è di elaborare una nuova pedagogia, nuovi modelli o ricette didattiche, ma di proporre un diverso sguardo su ciò che avviene
1
quotidianamente nelle scuole: qualcosa che, grazie a Dio, non si può imporre per legge, tradurre in circolari ministeriali, formalizzare in griglie o tassonomie. Così l'organizzazione del discorso non segue un ordine sequenziale, ma procede per anticipazioni, riprese e ridondanze, ritornando rapsodicamente attorno ad alcune idee-guida (la pluralità delle intelligenze; il coinvolgimento dell'osservatore nel sistema osservato; la valorizzazione delle "domande legittime", dell'imprevisto, dell'errore, del conflitto; l'attenzione agli elementi locali, contestuali, occasionali dell'esperienza scolastica), riproposte di volta in volta
da
diversi
angoli
di
visuale.
All'ideologia produttivistica ed efficientistica dominante - che, per un paradosso molto italiano, si risolve concretamente in una crescente burocratizzazione della vita scolastica - Perticari contrappone l'invito a un "esodo dal clima pedagogico che si respira a scuola" verso "una scuola nella scuola", dove l'"artigianato educativo" degli insegnanti possa sprigionare pienamente le sue potenzialità. Mi piace leggere questa indicazione come un riconoscimento che, di fronte alle catastrofi della politica pedagogico-sindacal-burocratica, l'unica speranza per la scuola risiede nell'iniziativa, necessariamente conflittuale, di chi continua, nonostante tutto, a insegnare con serietà, con passione, e persino con gioia. Il testo ci insegna, oltre alla filosofia pedagogica che lo caratterizza, a guardare con introspezione alla nostra vita, per trovare a nostra volta quell'atteso imprevisto capace di cambiarla, di farla nuova...e nell'errore, per chi sa osservare attraverso le fessure, si può così scorgere la via e la verità, senza fallimento, senza arrendersi. Spesso nella scuola ad una ricchezza educativa diffusa si è accompagnata una fragilità teorica, dove "teoria" riprende qui il suo primitivo senso legato al "vedere", al "saper vedere". Molti commentatori e storici della scuola hanno messo in luce, la presenza di processi educativi di qualità e una vivace ricerca pedagogica e didattica che hanno caratterizzato la scuola italiana dal '45 ad
oggi.
Basti pensare sia alle realtà di un associazionismo insegnante incisivo ed impegnato : il lavoro decisivo del Movimento di Cooperazione Educativa, il CIDI, i Giscel, le dieci tesi per un'educazione linguistica democratica, sia dall'impegno creativo e professionale profuso da molti /e docenti individualmente ed anche
attraverso
l'esperienza
delle
sperimentazioni.
Eppure questa incessante ricerca di un senso civile e culturale alto da dare al proprio lavoro, proprio in questi ultimi anni si è appannata. C'è stata come una perdita di lucidità sui temi generali e un ripiegare sulla propria associazione, spesso in senso corporativo. Cedendo alla seduzione pericolosa di un "approccio riduzionista", venivano così siglate negli ultimi anni, importanti convenzioni con il ministero della P.I.: per esempio ne esiste una della Società delle Storiche, cui appartengo. Ma ce ne sono molte altre. E' stata una corsa da parte di gran parte del mondo associativo, che, pur di acquisire ruolo e visibilità istituzionale
rinunciava
alla
formulazione
di
analisi
più
complessive
e
di
critiche
di
fondo.
Questi "protocolli d'intesa" stabilivano per la nuova scuola l'imprescindibilità di alcune linee tematiche e didattiche, ma evitavano accuratamente di interrogarsi su che cosa sia e possa essere la scuola oggi, per la società e per chi la abita e in quali sensi andassero i diffusi desideri di cambiamento. Bisognerebbe invece tornare a riflettere sui grandi temi: "in quale mondo siano chiamati ad esercitare il nostro mestiere?"
.
Alla stessa necessità di pensare la scuola, a fronte anche degli imponenti processi migratori da cui il nostro paese è investito, che certo non possono essere rappresentati dalla retorica dei valori d'impresa. Questi auspici non sembrano essersi inverati: la vita della scuola "vera", ciò che avviene nelle nostre aule, insegnare e studiare non sembra avere avuto la forza di penetrare nel discorso pubblico in positivo. Se ne parla solo per fare aggiunte a qualcosa che manca, per denunciare carenze, come se l'unica cosa che emergesse di duecento nostri giorni di scuola fosse un grande vuoto che in molti si affannassero a riempire. Beninteso esistono dei bei libri e delle riflessioni sui processi educativi viventi. Ci hanno fatto sperare e respirare.
2
La concretezza delle viventi relazioni educative che a scuola si instaurano è rimasta muta nel linguaggio della
politica
scolastica
e
muta
nelle
riforme
in
atto.
Sono rimaste mute le cose importanti.La loro caratteristica comune epistemologica è che se ne può parlare, Non
ma si
danno
non
ricette
nel
si
nostro
lavoro,
possono semmai
codificare.
narrazioni
a
posteriori.
E' "impensabile continuare a credere -quando ci si occupa di progettazione sociale o educativa- che esista
un
modello
certo
e
lineare".
Bisogna cominciare a considerare davvero un grande "merito professionale e condizione di ogni possibile successo il rendersi vulnerabili al dubbio, il restare in attesa", riconoscendo a una parte non piccola del nostro
lavoro
"un
perpetuo
e
creativo
aggiustamento"
.
Occorre un nuovo pensiero che sappia vedere e far valere linguaggi e quadri concettuali più aderenti alla complessità
della
relazione
educativa.
"Non basta al nostro lavoro il castello ben disegnato che partendo dall'analisi dello stato di partenza, o d'ingresso, -attraverso gli obiettivi- riesce a concludersi nelle modalità di verifica e di valutazione verte. Questo castello di progettazione tradizionale, implicito anche nelle griglie di valutazione di ottimi, oltre che una
visione unilaterale del
tempo
e deterministica dell'azione,
esprime una
concezione
sostanzialmente meccanicistica della progettazione in cui si sottolineano i caratteri di prevedibilità, di regolarità e di stabilità tipici di una macchina, che male ammette modificazioni interne e configura progetti
di
crescita
solo
per
.
addizioni"
Tra le cose importanti che avvengono nello stare a scuola, è rimasta muta la dimensione centrale del parlato. Il parlato a scuola è e resta non solo "veicolo di trasmissione di conoscenza", ma "il più straordinario rivelatore di atteggiamenti, caratteri, credenze individuali" , idioletti, culture altre dalla nostra, di adulti e adulte in relazione stabile con un'altra generazione. Come nella psicoanalisi, nell'amicizia, nei rapporti di coppia, il parlato a scuola, con l'ascolto reciproco che comporta e il relativo sviluppo dell' "arte di ascoltare",
crea
civiltà,
realizza
interazione
educativa.
Nell'analisi e nella catalogazione dei destini delle forme di sparìere del nostro tempo, il parlare a scuola è considerato dal linguista Raffaele Simone "una autentica porta per accedere alla conoscenza, specialmente
a
quella
parte
profonda
delle
persone"
.
Codificare questo tipo di parlato, in una sorta di delirio istituzionale di normazione, sarebbe solo un danno perché ne danneggerebbe la condizione essenziale: la libertà di esprimersi. Inoltre ciò non servirebbe a nulla, nemmeno nella forma di dargli un'ora e un luogo, un setting, come dicono gli psicoanalisti. Viceversa che nelle sedute di psicoanalisi, il parlato scolastico, il suo valore e il suo farsi, è costituito solo in parte da uno spazio-tempo codificato e formalizzato: l'ora di lezione e le altre occasioni istituzionali,
consigli
di
classe,
ricevimento
degli
studenti,
ecc.
Esistono invece -quando le relazioni educative funzionano- altre occasioni di "parlato", informali e casuali in ampia varietà, di cui molti e molte di noi hanno imparato a fare tesoro, come un'arte necessaria del nostro
lavoro.
Sarebbe difficile negare che il parlato, il sapersi parlare tra diversi -perché è questo che accade a scuola-, quando c'è buona scuola, non rappresenti una manifestazione di competenza relazionale ed anche
di
professionalità.
Si può promuoverla, la competenza relazionale, con sapienti attenzioni. Ma sarebbe invece vano pretenderla
a
priori
o
programmarla.
E' questo un mestiere, proprio per la sua natura squisitamente comunicativa, molto legato non solo a quello che ciascuno sa, ma a quello che ciascuno è: con le proprie credenze, i propri sistemi di valori, i propri vissuti di socialità, la propria curiosità e disponibilità ad incontrare altri ed altre, a conoscere altre culture. Tanto più in un ambiente educativo le relazioni sono buone nell'insieme, tanto più, come in un circolo
3
virtuoso, possono realizzarsi crescite culturali ed agio per grandi e piccoli. Ma vale anche il contrario naturalmente. E' quello che si può chiamare "il programma ombra di un istituto", più implicito che esplicito, ma anche più
influente
di
quanto
di
solito
si
voglia
ammettere.
"Il clima sociale di un istituto dipende da tutta una serie di fattori difficilmente identificabili: lo stile educativo, la personalità del preside, le relazioni fra gli operatori, l'organizzazione interna". Inoltre come è facilmente intuibile appena si mette piede in una scuola, questo "programma ombra", cioè la socialità esistente in ogni scuola, ha anche incidenza sul successo scolastico, "senza però che si riesca
a
dare
un'accurata
descrizione
ed
interpretazione
di
tali
interferenze".
Queste "interferenze" costituiscono appunto le molte variabili di un sistema relazionale complesso, come è la scuola. La competenza relazionale non si apprende. E' insegnabile? Non nel senso etimologico della parola: non può essere "impressa nella mente", ma può essere mostrata, indicata. E poi si può attendere con pazienza che la forza dell'esempio venga riconosciuta e assunta. Si può auspicare un procedere per contagio
di
virtù,
non
molto
di
più.
Codificare è vano e un po' stupido, come certe "griglie" che sono diventate di moda e in cui l'esistente, sulla scia del più vieto comportamentismo, è notomizzato in parti sempre più piccole. Mentre guardiamo queste disiecta membra, sappiamo che ogni singolo segmento può anche essere vero, ma da solo è irrilevante e intanto l'insieme -che è l'essenziale- sfugge, perché la sostanza relazionale è sì decisiva, ma non
segmentabile.
Quanto di importante è contenuto nelle relazioni pedagogiche viene tanto meglio colto, quanto più aumenta la complessità dei linguaggi per indicarlo: nelle narrazioni, per esempio, non certo nei prontuari. Nelle (belle) narrazioni, i diversi piani di consapevolezza dell'autore-insegnante che riflette e racconta insieme, offrono un intreccio non indigesto che alterna interpretazioni a sequenze narrative e che popola di
volti
la
pagina.
E' quello che accade nei grandi racconti pedagogici del secondo novecento italiano: da Lettera a una professoressa, alle memorie di scuola di Mario Lodi (Un paese sbagliato e Insieme), fino a certi libri di Domenico Starnone (Ex cathedra, Solo se interrogato), di Gianni Rodari o di Ersilia Zamponi e altri. In questi testi c'è un pensiero sulle relazioni educative: emerge una teoria dalla concretezza narrata del quotidiano. Se non si sa scrivere -così come non tutti gli psicoanalisti possono arrivare al vigore stilistico di Freud- si può fare il proprio mestiere e basta. Almeno non si pretenda di ingabbiare ciò che si vive in rappresentazioni
asfittiche
e
mortificanti.
Ci si possono appuntare propositi, tenere un taccuino. Si possono scrivere lettere al collegio e, perché no, ai propri alunni. Si scrivono verbali, progetti, piani di lavoro, domande, schede, relazioni di ogni genere
a
scuola.
Ma si dovrebbe evitare di pensare che certi strumenti assomiglino alla parte importante del nostro lavoro.
Anzi
spesso
lo
snaturano
e
lo
rendono
arido.
La produzione di inutili cartacce è uno dei nostri più inascoltati lamenti. Svuotiamone almeno l'importanza.
Non
servono
a
nulla
e
non
cambiano
nulla.
Si dovrebbe invece imparare ad accettare la natura complessa e labile della nostra esperienza di lavoro. La
vita
vera
a
scuola
è
molto
più
della
sua
burocrazia.
E' il luogo di un incontro non estemporaneo fra generi, generazioni e culture. Può giovarsi di una ricchezza straordinaria, solo a patto di assumere come centrale il piano delle relazioni educative, e di non considerarne residuale né la varietà, né la imprevedibilità, né la dimensione necessariamente legata alla
soggettività.
Per fare questo bisogna rinunciare all'ansia omologatrice, che pervade tutta la normativa scolastica, tanto
più
quella
recente.
4
Il cuore della scuola è un concreto processo vivente. La sua natura è dialogica intersoggettiva. L'incontro è fra mondi, culture e lingue diverse. Occorre accettare il rischio e la fatica di quest'avventura, una navigazione a vista, incentrata sulla triangolazione fra gli esseri umani adulti, i giovani e il sapere. Insegnare in questo contesto diventa un complicato work in progress, un'opera aperta, fatta di un continuo immaginare un itinerario e un continuo saggiarne, nel contatto vitale con le giovani generazioni,
lo
statuto
provvisorio,
delicato,
necessariamente
in
cambiamento.
Stare lì con quei ragazzi e quelle ragazze tutti i giorni, mettere in comune con loro ciò che si sa, ciò che si è e ciò che si pensa, crea legame sociale e cultura comune. Quando ci riusciamo è un'opera civ...