Riassunto L\'Africa tra mito e realtà di G. Tomasello, cap 5 - Letterature comparate contemporanee PDF

Title Riassunto L\'Africa tra mito e realtà di G. Tomasello, cap 5 - Letterature comparate contemporanee
Author Elena Basile
Course Letterature comparate contemporanee
Institution Università degli Studi di Palermo
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Summary

Riassunto 5 capitolo di "L'Africa tra mito e realtà - storia della letteratura coloniale italiana" di Giovanna Tomasello. (comprende soltanto i paragrafi 1 e 2)...


Description

5) Il romanzo dei protagonisti indigeni e i tentativi di una narrativa realista. Cipolla e Zuccoli. 1. Un’imperatrice d’Etiopia. Arnaldo Cipolla alla corte di Menelik All’inizio degli anni ’20, emergevano nella letteratura coloniale italiana diversi tentativi di elaborare un’immagine dell’Africa colta attraverso le vicende dei popoli indigeni. Si trattava di storie narrate nell’ottica del colonizzatore e costantemente percorse del tema dell’irrompere del mondo occidentale nella vita delle comunità africane. Ma l’interesse del racconto sembrava spostarsi in quanto non si focalizzava più sul modo in cui l’incontro dell’Africa con la civiltà europea veniva percepito e vissuto dal bianco (superuomo di D’Annunzio, valoroso soldato pascoliano umile e buono), ma riguardava invece la maniera in cui i personaggi indigeni vivevano la loro vita, i loro usi e costumi e come, attraverso la loro caratteristica mentalità percepivano la presenza dell’Occidente che si insinuava invadendo il loro mondo. Al personaggio indigeno, quindi, veniva attribuita una percezione della propria realtà e dei suoi rapporti con la nuova cultura proveniente dall’esterno, conforme ai canoni della visione dell’Africa diffusa presso il pubblico occidentale. Istituire un personaggio “nero” come protagonista del racconto significava riproporre questa stessa visione, confermata non solo dalle convinzioni del conquistatore ma anche dello stesso conquistato. Dunque i personaggi indigeni venivano ritratti con oggettività e tutto il racconto appariva puntualmente riferito a vicende storiche reali e verificabili, ed era nutrito da una diretta esperienza del mondo coloniale maturata dall’autore sul campo. ➣ Cipolla poteva vantarsi di una lunga esperienza sul campo. ! Egli fu giornalista, narratore e conferenziere che aveva a lungo soggiornato in Africa dove era arrivato come mercenario inviato dal Belgio nella colonia del Congo (1924) e dove vi stette per tre anni. In questa veste aveva seguito le operazioni delle truppe inglesi e italiane in Somalia, la campagna in Libia, compiuto una doppia traversata dall’Etiopia raccogliendo le proprie corrispondenze in un volume: L’impero di Menelik (1911) e partecipò come volontario alla Prima Guerra Mondiale. All’inizio degli anni ’20, Cipolla era uno tra i più conosciuti corrispondenti giornalistici italiani e proseguiva un’intensa attività di conferenziere e di inviato in terre esotiche, mentre si affermava presso il pubblico popolare come narratore. Cipolla riteneva che i caratteri propri della letteratura coloniale dovessero essere: - La “sincerità”; - Il sentimento di profonda simpatia verso i popoli cosiddetti inferiori; - La loro completa “comprensione”. Uno dei suoi romanzi più importanti La cometa sulla mummia (1921)[o Un’imperatrice d’Etiopia], era esclusivamente dedicato alle vicende dei personaggi africani. Cipolla lo considerava il suo capolavoro e sottolineava i riconoscimenti che aveva ottenuto anche dalla stampa straniera, proponendolo come modello per la nostra letteratura coloniale. Nel 1910 Cipolla era in Etiopia impegnato, come affermava nelle pagine de L’impero di Menelik, a risolvere per i lettori del Corriere della Sera, il mistero della scomparsa dell’imperatore Menelik, che si mormorava fosse morto e l’imperatrice ne avesse nascosto la scomparsa in questo detenendo il potere e proclamarsi autocrate dell’impero. In effetti Menelik, dopo aver designato come erede al trono il nipote Ligg Jasu, era rimasto paralizzato e privo della facoltà di parlare in seguito a un ictus celebrale e non era più

apparso in pubblico. Così anche per i corrispondenti dei giornali si era diffusa la convinzione che l’imperatore fosse ormai deceduto e che la figura che talvolta si poteva scorgere da lontano fosse un manichino o addirittura il suo cadavere mummificato. Ma in realtà Menelik morì quattro anni dopo (nel 1913) e la sua successione doveva favorire l’evolversi di tensioni interne al regime (mentre la Germania e l’Austria allo scoppio della guerra mondiale, giovandosi dell’alleanza della Turchia, ritenevano di poter trovare nell’Etiopia un possibile alleato contro l’Intesa) che nel 1916 sfociarono in una rivolta che segnarono la fine del potere di Ligg Jasu mentre veniva proclamata imperatrice Zaudit, altra figlia di Menelik. E proprio all’interno di queste vicende legate alle successione di Menelik, Cipolla collocava il suo romanzo Un’imperatrice d’Etiopia, sviluppando una storia che, anche se avesse dimensioni fantastiche, rappresentava una rielaborazione letteraria di una precisa situazione storia che l’autore aveva osservato da vicino una decina di anni prima. La trama del racconto ruota intorno alla figura di Melograno d’oro, una bellissima principessa diciassettenne, che non solo è “bella come la regina di Saba”, ma è anche “la più bianca fanciulla d’Etiopia”. La sua nascita, però, porta con sé un terribile presagio: ogni 500 anni, spiega la madre, “nasce una fanciulla bianca tra noi bruni, che abbiamo commesso il peccato di mescolare il nostro sangue con quello degli schiavi…”. La ragazza è promessa sposa ad Amadiè, figlio del negus Mikael, ma l’imperatrice Sole, ormai padrona della volontà di Menelik, decide di farla sposare a Ligg Jasu, a sua volta figlio di Menelik e fratellastro di Amadiè. La fanciulla parte quindi dal suo paese natale per giungere alla corte di Menelik. Qui viene accolta con tutti gli onori e incontra Amadiè. Tuttavia si sta preparando una rivolta che minaccia di travolgere l’unità dell’impero. Nessuno riesce a vedere il vecchio monarca in faccia e di diffondo le voci della sua more, che verrebbe mantenuta in segreto da Sole. Così Vorcù, braccio destro dell’imperatrice e richiamato per sedare i fermenti, mentre Melograno d’oro viene resa prigioniera. Vorcù e Tesamma (tutore di Ligg Jasu) riescono a placare il pericolo della rivolta. Quest’ultimo però si accorge che Menelik è effettivamente morto e Sole ne ha occultato il cadavere decisa di rivelare la sua scomparse solo quando Melograno avrà sposato Ligg Jasu e avrà preso il potere. Sole è convinta che Melograno sia “la sola imperatrice” che “può continuare il mio faticoso lavoro” e salvare l’Etiopia “dagli artigli” delle potenze occidentali. Grazie all’amore di Amadiè, Melograno d’oro riesce a fuggire dalla prigionia e dopo infinite peripezie giunge alla reggia di Menelik dove l’imperatrice, dopo aver mostrato la mummia di Menelik in modo da farlo apparire ancora vivo, presenta Melograno d’oro come nuova imperatrice d’Etiopia. Il matrimonio con Ligg Jasu si rivela però un fallimento. Melograno d’oro vede il marito circondarsi dalle potenze occidentali e temi che si lasci convincere ad entrare nel conflitto e in più chiede l’aiuto di Amadiè. Ma alla fine capisce che Ligg Jasu finge solo di interessarsi alle proposte straniere senza lasciarsi influenzare. Così quando Amediè attiva con il suo esercito, Melograno d’oro resta a fianco di suo marito, e dopo la battaglia vinta da Amediè con l’inganno e con la morte di Ligg Jasu sul campo, Melograno d’oro muore a sua volta mentre fugge stremata nel deserto. La straziante storia d’amore e di morte di Melograno d’oro è la scusante per disegnare la complicata rete di tensioni che percorrono l’impero etiopico, predisponendone la fine. Sulle terre di Menelik, secondo Cipolla, infatti, incombe una minaccia inesorabile, che è fantasticamente evocata dalla prodigiosa e infausta nascita di una bellissima creatura dalla pelle bianca, ma è molto più concretamente costituita dalla penetrazione e della conquista europea.

2. Zuccoli, gli arabi e l’evocazione all’obbedienza Un’operazione simile a quella compiuta da Cipolla, che si era servito della sua esperienza diretta alla corte di Menelik, veniva poco dopo tentata anche da Zuccoli, dedicandosi alla narrativa con una cospicua produzione di romanzi che gli avevano procurato successo. - L’abilità riconosciuta di Zuccoli era di saper analizzare la psicologia dei personaggi, soprattutto femminili o adolescenziali. Verso la fine del ’22, l’autore compì in lungo viaggio in Libia, dove seguì le operazioni militari delle truppe italiane impegnate in una lunga campagna nelle regioni interne per reprimere le rivolte locali che, fin dalla conclusione della guerra con la Turchia, non avevano mai consentito all’amministrazione italiana di esercitare un effettivo controllo sul territorio. Dall’esperienza del viaggio nasceva un romanzo “Kif tebbi” (1923). Nella prefazione, Zuccoli abbozza una sorta di poetica della narrativa coloniale, che ritiene debba essere profondamente modificata. Infatti, dichiara che anche i massimi autore hanno inteso il romanzo coloniale come “lo studio della nostra psicologia esotica; un tessuto di avventure di cui è centro o molla d’azione un personaggio occidentale”. Ma in questo modo il romanzo coloniale rimane “soggettivo” in quanto “la vita dell’indigeno passa attraverso il temperamento del narratore europeo”, e al lettore interessa invece conoscere “diretti e precisi” gli indigeni, lo loro passioni, i loro costumi e i “giorni del loro dramma”. Così Zuccoli spiega di aver compiuto il suo viaggio in Libia “non per desiderio di impensate avventure” ma per condurre “uno studio onesto e paziente dell’anima araba”. Per Zuccoli sono tre i parametri che devono orientare la letteratura coloniale: ! 1) l’esperienza diretta delle genti, dei luoghi e degli ambienti;! 2) uno sguardo realista, privo da pregiudizi, e quindi in grado di condurre un’osservazione “scientifica” della realtà;! 3) la capacità di narrare le vicende attraverso la prospettiva psicologica dell’indigeno, senza interferenze causate dalla presenza o dalla centralità di personaggi occidentali. Quindi, in questa proposta teorica si intrecciano le istanza di un realismo ancora concepito secondo il modello di un’oggettività “scientifica” di influsso naturalista, con l’interesse per l’indagine psicologica propria del grande romanzo ottocentesco, il tutto diretto per redimere una letteratura coloniale dalle tentazioni evasive dell’esotismo, che impedisce un’autentica percezione dell’Africa ricorrendo a storie, personaggi e avventure immaginarie costruite solo per suggestionare il lettore allontanandolo dalle esperienze consuete senza far apparire l’effettiva visione di mondi diversi, ma autentici e reali. In Kif tebbi si ritrovano, all’interno di una vicenda in parte immaginaria, scene e figure che Zuccoli osserva in modo diretto durante il suo viaggio: sono il solito arabo “infantile e feroce”, il tumulto dei mercati, la “sposa stupenda di sedici anni comprata per duemila lire”, la negra “professionista della danza del ventre”, le cerimonie indigene coi “martoriamenti spietati della carne”, e così via… Ma l’orientamento realistico della scrittura non si limita al “fedele” trasferimento sulla pagina scritta di scene effettivamente osservate durante il viaggio, ma si prolunga fino all’utilizzo dei reperti (indicazioni, oggetti e nomi) individuati dall’autore. TRAMA: L’azione del racconto si svolge in Libia, nel momento in cui, nel 1911, gli italiani sbarcarono a Tripoli e si apprestano a conquistare il paese, ma gli italiani non compaiono mai nel corso della vicenda: restano una realtà distante. I protagonisti, dunque, sono il ricco e influente arabo Ajàd, uomo giusto e pio, fedele alla religione del profeta, e suo figlio Ismail, che contro la volontà del padre ha compiuto un

lungo viaggio in Europa dove ha gustato “il vino, il gioco e le donne” restandone ammaliato, ed è ritornato a casa in una condizione di estremo disagio. Così, tra il padre e il figlio nasce un amaro contrasto: uno racchiude nell’anima l’Oriente e l’altro l’Occidente (esotismo alla rovescia). Tuttavia Ismail finisce per innamorarsi di Mne, una giovanissima fanciulla accolta e protetta nella casa paterna, e per lei uccide in un agguato il maturo e feroce Rassim che vuole rapirla. Rassim era però amico dei turchi e con loro aveva progettato un sinistro inganno contro i militari italiani. A capo di una banda di arabi si sarebbe finto amico degli invasori per attirare in trappola le loro truppe e sterminarle. Così i turchi che sospettano di Ismail in quanto conoscono i sentimenti filo europei, gli attribuiscono la colpa dell’omicidio e lo giustiziano, mentre Mne tornerà con la propria madre. La triste storia d’amore non è altro che una traccia che permette a Zuccoli di raffigurare la realtà della guerra coloniale nella visione della popolazione araba. È una visione che mostra, innanzitutto la brutalità degli dominatori turchi, che allo scoppio del conflitto si lanciano in spiegare requisizioni, saccheggiando villaggi e carovane e costringendo gli uomini ad arruolarsi. Uccidono chiunque si opponga nel tentativo di salvare i propri averi. E muoiono così, il padre e il fidanzato di Mne, mentre la violenza si espande anche nel villaggio di Ismail. Eppure gli arabi non si ribellano. Innanzitutto li lega ai turchi la comune fede islamica, che li spinge a mantenersi federi, e anzi a continuare a combattere anche quando la guerra non può essere vinta. Il fanatismo religioso, del resto, non viene solo alimentato dalle menzogne della propaganda turca ma anche da cerimonie compiute dai marabutti, che battono su dei tamburi, gridando. E anche quando la propaganda turca di rivela falsa, Ajàd si rende conto che gli uomini italiani rispettano la relazione degli arabi e che eserciteranno un dominio “assai più dolce e ragionevole” di quello dei turchi: la sua opinione di pio e saggio musulmano non muta. Anche lo stesso Ismail non si ribella ed è disposto a combattere con i turchi, seppur li odi. Ma quando nel suo animo il quale, dopo il viaggio non è né più arabo né più europeo, finisce inevitabilmente con l’adottare gli antichi atteggiamenti della sua stirpe; e quando riceve l’ordine di andare alla fortezza dove sa che l’attende la morte, pur potendo fuggire, obbedisce. La chiave dell’intera storia è racchiusa in una frase “kif tebbi” che significa “come vuoi”: frase dell’assenso e dell’obbedienza passiva, con cui l’arabo risponde alle domande che lo lasciano incerto, così come gli ordini e alle frustate di chi lo comanda. E quindi Zuccoli, dopo la spedizione militare che tenta di sottomettere gli arabi dall’interno, vuole svolgere “uno studio paziente ed onesto dell’anima araba”, osservando con occhio “oggettivo” ambienti e situazioni locali per poi descriverli senza alcuna intrusione della “psicologia occidentale” in una storia vissuta esclusivamente da personaggi indigeni, attraverso i loro comportamenti “genuini”, i loro stati d’animo, riflessioni di Ajàd, Ismail e Mne....


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