4. Le ricordanze (parafrasi, figure retoriche) PDF

Title 4. Le ricordanze (parafrasi, figure retoriche)
Course Letteratura italiana contemporanea
Institution Università degli Studi di Catania
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Le ricordanze

Per l’analisi mi sono avvalso di questo schema sequenziale: 1. 1-6 Di nuovo, dopo anni, un colloquio meditativo con le stelle. 2. 7-13 Le stelle suscitavano allora in Giacomo immaginazioni e fantasie. 3. 14-19 Le immagini e i ricordi cominciano ad affollarsi nella memoria. 4. 19-27 “Pensieri immensi, dolci sogni”. 5. 28-37 “Il natio borgo selvaggio”. 6. 38-43 Gli anni passano, tristissimi. 7. 43-49 “Senza una gioia ti perdo, cara giovinezza” 8. 50-55 Il suono delle ore, i ricordi. Ritorno al passato. 9. 55-60 Passato e presente si intrecciano. 10. 61-67 La fantasia trasfigurava la realtà. Era un “possente errore”. 11. 67-76 Illusorietà della vita vagheggiata nella fanciullezza. 12. 77-87 “Ora so la verità ma non so dimenticare le belle illusioni”. 13. 87-94 “Mi sento stringere il cuore, non so consolarmi del mio destino”. 14. 95-103 “Però di voi, speranze antiche, certamente mi ricorderò”. 15. 104-109 Gioie, angosce, desideri adolescenziali. 16. 109-118 Lamento poetico nel silenzio della notte. 17. 119-130 Si torna ai giorni bellissimi dell’adolescenza. 18. 131-135 “Giorni che sono fuggiti con la velocità del lampo”. 19. 136-140 Nerina, io qui di te trovo solo il ricordo. 20. 140-148 I luoghi in cui ti vedevo sono abbandonati. 21. 148-157 La giovinezza danzava nella tua vita. 22. 157-165 Ora sei morta, non vedi più la primavera. 23. 166-173 A me resta solo il doloroso ricordo.

1. 1-6 Belle incantevoli e lontane stelle dell’Orsa Maggiore, io non credevo dopo tanto tempo di ritrovare la consuetudine di contemplarvi con ammirazione –come un tempo- scintillanti sul giardino paterno e di tornare a parlare e fantasticare con voi dalle finestre di questa casa dove ho passato la mia fanciullezza e dove ho visto la fine delle mie speranze e illusioni nel futuro. Il poeta comincia, rifacendo il corso della memoria, a rievocare gli anni e i ricordi della giovinezza, le adolescenziali estatiche contemplazioni notturne del cielo, le sue consuetudini e disposizioni fantastiche, i suoi abbandoni a parlare con la natura con nostalgia e malinconia. Ben tre verbi all’infinito contrassegnano questo meraviglioso inizio, uno dei più belli di tutta la poesia italiana: “tornare (parola-chiave, la ritroveremo al v. 79), contemplarvi, ragionar”. Essi si accompagnano alla posizione speciale del participio “scintillanti” alla fine del terzo verso, quasi a riscontro musicale di “Vaghe stelle dell’Orsa”, poste al principio del primo verso. Il cielo stellato è suggestivo per le idee di vastità e di lontananza che esso suscita, che evocano l’idea dell’infinito, ma anche per la vista della moltitudine innumerevole delle stelle (nelle pagine dello Zibaldone dedicate alla teoria dell’infinito-indefinito si legge “è piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle…”). Giacomo era tornato da poco a Recanati, non erano mutati i luoghi e gli oggetti della sua infanzia e giovinezza. Dall’anno 1819, l’anno della tentata fuga erano passati anni, anni cruciali nei quali egli aveva lucidamente scoperto la verità crudele del mondo, l’inganno della vita; eppure quei luoghi erano tornati a parlargli il loro antico linguaggio di sentimenti e desideri, di speranze, di illusioni e gli avevano risvegliato emozioni dimenticate, sovrapponendo il passato al presente.

2. 7-13 Quante immaginazioni e quante fantasie mi creò tanto tempo fa la vista vostra e delle stelle vostre compagne! Quando, seduto sull’erba verde del prato, assorto e in silenzio, io ero solito passare gran parte delle sere contemplando il cielo ed ascoltando il gracidio della rana lontana e sperduta in mezzo alla campagna. Alcune notazioni di stile in questa che è la prima ricordanza, la fantasticheria del passato più lontano, quando non c’era ancora il presentimento dell’infelicità futura: nel v. 7 la determinazione temporale, un tempo, racchiusa tra i due termini della dittologia, immagini e fole, con l’intensità della ripetizione, quante, assume un tono di favola e contribuisce a creare quell’aria di infinito che è ripresa nei versi successivi con l’affiorare lento delle parole. I due gerundi del v. 12, mirando ed ascoltando, quasi per miracolo – come se fossero sensazioni fuori del tempo- rievocano la suggestione della contemplazione mentale dell’Infinito, e si legano alla voce della rana, capace anch’essa di evocare l’indefinito e il tempo remoto, con l’armonia della rima, dell’assonanza in “a” (rana alla campagna), che del canto è un’eco vaga e suggestiva, degli incontri sapientissimi delle vocali e delle consonanti, prevalentemente “l” e “r”, dell’allitterazione fonosimbolica (rana rimota). In pochi versi ritornano aggettivi e verbi tipici della lingua leopardiana ( vaghe, mirando, rimota). Nota la critica che in questo canto ci sono solo endecasillabi, a differenza della tessitura di endecasillabi e settenari propria degli altri grandi idilli. Ma in realtà anche qui vi è tutta una serie di più agili settenari contenuti entro gli endecasillabi, che creano una modulazione musicale dissimulata, più fluida e varia. Ecco nel primo verso: il settenario ne è la prima parte, prima della cesura (Vaghe stelle dell’Orsa / io non credea); v. 7, Quante immagini un tempo, / e quante fole; oppure invertendo, v. 12, mirando il cielo / ed ascoltando il canto. E ancora una volta Giacomo dimostra di seguire le teorie del sensismo, facendo derivare dalle sensazioni visive o sonore (mirando il cielo ed ascoltando il canto, v. 12) i sentimenti e i pensieri. Nella lettera alla sorella Paolina, scritta da Pisa il 25 febbraio 1828, egli annotava: “Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze; là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d’immaginazioni mi par di essere tornato al mio buon tempo antico”. E il nostro poeta aveva già scritto nello Zibaldone il 7 ottobre 1821: “La rimembranza quanto più è lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta l’anima, e fa più viva, energica, profonda, sensibile e fruttuosa impressione, perché essendo più lontana, è più sottoposta all’illusione”. Sul “tacito” del v. 10, aggettivo che si conviene allo spirito leopardiano, si può citare un passo di una lettera al Viesseux del 4 marzo 1826: “La mia vita, prima per necessità di circostanza e contro mia voglia, poi per l’inclinazione nata dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più “absent” di quel che sarebbe un cieco e sordo”. E in una pagina dello Zibaldone (I, 1484) aveva confermato: “Ho contratto (l’abito) di dimorar quasi sempre meco stesso, e di tacere quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uomini come isolatamente e in solitudine”.

3. 14-19 E la lucciola vagabondava presso le siepi e sulle aiuole, mentre a causa del vento i viali profumati del giardino e i cipressi lontani nel bosco sussurravano; e nella casa paterna risuonavano tante voci familiari intrecciate e i rumori delle occupazioni domestiche della servitù. Ora il ricordo si fa racconto diffuso e comincia una serie di frasi introdotte dalla “e”: il polisindeto ci rivela che le immagini, tutte suggestioni indefinite, si affollano nella memoria. Riemergono le sensazioni di un tempo e il poeta sembra abbandonarsi all’io di una volta, con una vena di affettuoso rimpianto (l’indugio sull’imperfetto); però si avverte una distanza irrimediabile, c’è la coscienza ferma della loro irrimediabile vanità. Parlando della poesia che possono ispirare i ricordi Leopardi, ancora nello Zibaldone, commentava: “Tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della poesia ecc. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto” (I, 1182). E ancora: “A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare (…) lo stormire del vento (…) quando freme confusamente in una foresta”.

4. 19-27 E che pensieri immensi, che dolci sogni suscitò nel mio animo la vista di quel mare lontano, di quei monti azzurri che da qua io intravedo e che un giorno io pensavo di attraversare, mondi ignoti e misteriosi, felicità sconosciuta immaginando per la mia vita futura! Ignoravo il mio destino, non potendo prevedere quante volte avrei cambiato con la morte senza rimpianti questa mia vita desolata e priva di piaceri. Il vasto polisindeto (ben otto e) continua la sua marcia e prolunga sensazioni e pensieri: per ben tre volte, ai vv. 19, 22, 25, accompagnato dalle quattro ripetizioni di “ che”, gioca in contrappunto e accompagna la visione sognata e lo sfogo amaro del poeta. Il ricordo del passato e la sensazione viva e presente si mescolano: quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro. Tutto concorre: il chiasmo dei vv. 19-20 (pensieri immensi / dolci sogni), la dittologia dei vv. 23-24 (arcani mondi / arcana felicità) con l’enjambement che rimarca un’attesa smisurata e inattingibile, il fingendo del v. 24 che riprende il verbo de “ L’Infinito” (io nel pensier mi fingo…), la contrapposizione creata con gli aggettivi dimostrativi, (quel mar, quei monti del v. 21; questa mia vita del v. 26). L’aggettivo ignaro (v. 25) e il gerundio fingendo (v. 24) sottintendono l’inganno teso a Giacomo dalla natura. Il 1° gennaio 1829, pochi mesi prima di questa composizione, Leopardi aveva scritto nello Zibaldone: “Il piacere che ci dà la poesia, dico la poesia antica e d’immagini, tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che ci è destata da tal poesia. La qual rimembranza è, fra tutte, la più grata e la più poetica, e ciò, principalmente forse, perché essa è più rimembranza che le altre, cioè a dire, perché è la più lontana e più vaga”. Un’ultima notazione: al termine di questa prima strofa, tutta tesa a rievocare le fantasie fanciullesche, il poeta propone già il motivo negativo della vita “dolorosa e nuda” che sarà dominante nella strofa successiva.

5. 28-37 Né il cuore mi diceva allora che sarei stato condannato a sciupare la mia giovinezza in questo mio nativo borgo incivile, tra una gente rozza, meschina e grossolana; per la quale cultura e sapere sono nomi strani, cose bizzarre, causa di risate e argomento di futile chiacchiericcio; gente che mi odia e mi evita, non certo per invidia, poiché non mi ritiene superiore a sé, ma perché pensa che tale io mi consideri dentro di me, per quanto io mi guardi bene dal manifestare apertamente questa opinione o dal confidarla a qualcuno. In questi versi, sparito il velo nostalgico dei ricordi, si rivela la realtà miserrima nella quale il poeta credeva di vivere, l’assoluta incomunicabilità sua con la società di Recanati. Nella carta 83 dello Zibaldone Leopardi scriveva: “Quei tali piccoli spiriti (che madama di Stael descrive nel libro 14 della Corinna) non hanno mai considerato il genio e l’entusiasmo come una superiorità, anzi come una pazzia, come fuoco giovanile, difetto di prudenza, di esperienza, di senno ec. e si stimano molto più essi, onde non possono provare invidia, perché nessuno invidia la follia degli altri, bensì compassione, o disprezzo, e anche malvolenza, come a persone che non vogliono pensare come voi, e come credete che si debba pensare. Del resto credono che ancor esse fatte più mature si ravvedranno, tanto sono lontane dall’invidiarle. E così precisamente porta l’esperienza che ho fatta e fo”. Quanto all’insofferenza per Recanati, per l’orrenda notte di Recanati, questa era una “dolce e penosa ossessione del nostro poeta, che è indice al tempo stesso di amore esasperato per quella sua terra, che egli ha immortalato con versi tra i più belli e più grandi che abbia la letteratura d’ogni paese”. Si noti l’efficacia parodistica di borgo tra natio e selvaggio; la forza della dittologia, riso/trastullo, dottrina/saper, con un’aggettivazione convulsa, zotica, vil. E’ interessante la sua ripresa di un passo dell’Invito a Lesbia Cidonia del poeta settecentesco L. Mascheroni, antologizzato nella “Crestomazia”: “le morbide fragranze americane / argomento di studio e di diletto”; annota a questo proposito il critico Bandini: “i passaggi prosastici, anche nella loro inconfondibile individualità sentimentale (originalità), trovano spesso in Leopardi riscontro e legittimità nel linguaggio didattico e satirico della poesia settecentesca”. La fredda lucida contemplazione del vero, col suo linguaggio spoglio- è mossa da increspature patetiche o da vibrazioni di sdegno: il poeta piange il trascorrere vano di quel che resta della sua giovinezza.

6. 38-43 In questo luogo trascorro i miei anni abbandonato a me stesso, in una vita oscura, senza passioni e senza alcuno stimolo all’azione, avvilito; e mio malgrado finisco per diventare intrattabile per reazione a tanta malevolenza: qui smarrisco ogni affetto e gentilezza, ogni inclinazione virtuosa e divento scorbutico e misantropo a causa del gregge umano che mi circonda. È la drammatica constatazione della tristezza e dell’infelicità della sua vita, dopo il disinganno e la morte delle speranze. La sua situazione ora è diversissima da quella degli idilli giovanili: non c’è più la poesia sentimentale, è sparito il mito dell’infanzia, invece è la stagione della giovinezza che diventa mito. Ora il bene più grande, scrive un critico, “gli appare quella capacità di illudersi, di credere negli “errori” che era andata perduta. Riuscire a rievocare la giovinezza è ritrovare quell’unico, fragile, precario e pur grandissimo bene, vissuto anni prima senza consapevolezza”. Continuano gli esempi prima citati: senz’amor/senza vita; abbandonato, occulto; la ripetizione del qui a inizio dei vv. 38 e 42; rilevo la forza di mi spoglio tra di pietà e di virtudi. Quanto allo sprezzator degli uomini mi rendo” del v. 42 è determinante ricordare un passo dello Zibaldone, scritto il 2 gennaio 1829, pochi mesi dopo la stesura del Canto: “La mia filosofia di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio (…) che tanti e tanti (…) portano cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi”. Questa precisazione leopardiana sottolinea ancor più la sua condanna verso il gretto mondo di Recanati. Voglio annotare, a questo proposito, che fin dal 5 dicembre 1817 –Giacomo aveva 19 anni- egli scriveva al Giordani: “In Recanati poi io son tenuto quello che sono, un vero e pretto ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, d’eremita e che so io”. In una lettera al fratello Carlo del 25 novembre 1822 aveva scritto: “Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita”. E poi, il 18 maggio 1830, mandando un suo ritratto a Paolina, scriveva: “è bruttissimo; nondimeno fatelo girare costì, acciocché i Recanatesi vedano con gli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il “gobbo de Leopardi” è contato per qualche cosa nel mondo, dove Recanati non è conosciuto pur di nome”.

7. 43-49 E intanto vola il caro tempo della giovinezza; più caro che la gloria poetica e la fama, più della pura luce del giorno e del respiro della vita: senza una gioia, inutilmente, in questo soggiorno indegno dell’uomo, tra le angosce, io ti perdo, unica cosa bella di questa vita infelice. Lo stacco tra lo spettacolo tristissimo degli uomini e la fuga della giovinezza è modellato, sembra chiaro, sull’emistichio del sonetto Alla sera di Foscolo: “… e intanto fugge / questo reo tempo”. Insisterei ancora sulla malinconia di tempo circondato da caro e giovanil, sulla ripetizione di caro e di più ai versi 44 e 45, sull’improvviso e doloroso passaggio alla seconda persona del v. 46, quel ti perdo in un’apostrofe diretta alla giovinezza, quasi per improvvisa commozione. Con l’ intanto vola del v. 43 –accentuato dall’enjambement- il poeta introduce il tema del fluire inarrestabile del tempo, tanto più veloce quanto meno se ne può godere, quante più intense erano state le illusioni e le speranze. Quanto al soggiorno disumano del v. 48 (ancora Recanati) si legga quello che Leopardi scriveva al Giordani il 21 marzo 1817: “Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’Odio della patria, per la quale se Codro non fu “timidus mori” io sarei “timidissimus vivere”. Ma mia patria è l’Italia per la quale ardo d’amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto Italiano”. E all’amico Puccinotti in una lettera del 19 maggio 1820: “ Ma infine trova un momento da venire; che, dopo sei mesi, io oda per la prima volta una voce d’uomo e d’amico. Non so se mi conoscerai più: non mi riconosco io stesso: non son più io: la mala salute e la tristezza di questo soggiorno orrendo mi hanno finito”. E ancora più tardi, in tempi vicini alla composizione di questo canto: “Quanto a Recanati, vi rispondo ch’io ne partirò, ne scapperò, ne fuggirò subito ch’io possa; ma quando potrò?… Intanto siate certa che la mia intenzione non è di star qui, dove non veggo altri che i miei di casa, e dove morrei di rabbia, di noia e di malinconia, se di questi mali si morisse” (ad A. Maestri, 31 dicembre 1828). “Io non posso più dare alla mia famiglia questo carico di mantenermi fuori di casa. Da altra parte non posso neanche vivere in questo infame paese, sepoltura di vivi” (a G. Tommasini, 30 gennaio 1829). E addirittura negli stessi giorni della composizione di questo canto: “Condannato per mancanza di mezzi a quest’orribile e detestata dimora, e già morto a ogni godimento e ad ogni speranza, non vivo che per patire, e non invoco che il riposo del sepolcro” (al Bunsen il 5 settembre 1829).

8. 50-55. Dalla torre del borgo (la torre della piazza principale di Recanati) , portati dal vento, giungono i rintocchi delle campane che suonano le ore (è un richiamo al presente e uno stimolo ulteriore ai ricordi). Questi rintocchi erano motivo di conforto, mi ricordo, durante le mie notti insonni, quando ancora bambino, al buio nella mia stanza, io restavo insonne, a causa di paure ricorrenti, aspettando con ansia le luci dell’alba. Nell’atto stesso del lamento (gli anni della giovinezza consumati a Recanati) il vento gli porta all’orecchio il battito notturno dell’ora e per un istante egli si concentra solo su quel suono: si perdono gli accenti polemici, i lamenti amari della strofa precedente. Per un istante quel battito suona nella profondità della sua anima e rinnova i ricordi della fanciullezza, come nei primi versi era avvenuto per le stelle dell’Orsa. Ci sembra di ascoltare l’eco medesimo dei rintocchi e la quiete altissima della notte recanatese. Negli “Appunti e ricordi” del 1819 il poeta ricorda le angosce dell’infanzia: “Mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridere delle ventarole, consolato dall’orologio della torre”. Dieci anni dopo, questa nota si traduceva in una delle voci più suggestive dei Canti. Anche nello “Zibaldone” Giacomo riprende il tema: “Sento dal mio letto suonare l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio” (p. 36). E qualche tempo dopo, a p. 351, “Nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia ha forza in altra età di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi”. La memoria è capace di trasfigurare il passato e anche di ricrearlo attribuendo a sensazioni e a illusioni antiche una dolcezza, una pienezza e un’autenticità nuove. La realtà è come se fosse sublimata, spogliata della sua banalità e selezionata in dettagli emozionanti che colpivano la fantasia del ragazzo. Secondo U. Dotti, nell’intuizione dell’assoluta libertà...


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