Alcuni sonetti Da jacopo da lentini a dante PDF

Title Alcuni sonetti Da jacopo da lentini a dante
Author Angela Strano
Course Lettere Moderne
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
Pages 14
File Size 125.2 KB
File Type PDF
Total Downloads 31
Total Views 125

Summary

Alcuni dei sonetti da jacopo da lentini a Dante Alighieri...


Description

GIACOMO DA LENTINI “AMOR E’ UN DISIO CHE VEN DAL CORE” 

Questo sonetto fa parte di una tenzone (una discussione in versi: scambio di poesie o di strofe alternate, tra due o più poeti, per confrontarsi su un argomento specifico) con Jacopo Mostacci (con il sonetto Solicitando un poco meo savere) e Pier della Vigna (il suo sonetto s’intitola Però ch’amore non si pò vedere), disputata prima del 1248.Il tema affrontato è la natura dell’amore. L’amore per Jacopo da Lentini nasce dal cuore, il quale riceve però lo stimolo dagli occhi che gli inviano l’immagine di ciò che vedono. Quindi il sentimento amoroso è per Jacopo da Lentini, in base alla filosofia aristotelica, un fatto accidentale provocato dalla vista della bellezza della donna. L’ipotesi che si possa provare amore senza aver visto l’oggetto che lo suscita, tipica della poesia occitanica e sostenuta dal trovatore Jaufrè Rudel, seppure sia possibile, non porta secondo il poeta ad un vero e forte sentimento amoroso. I contenuti del sonetto celebrano l’amore in generale, non legato alla propria esperienza personale, con argomenti perfettamente in linea con le teorie della tradizione lirica cortese dei poeti provenzali, precursori della Scuola Siciliana.

TEST0 

I quattordici versi sono endecasillabi suddivisi in quattro strofe. Schema di rime: ABAB, ABAB, CDE, CDE, rime alternate nelle quartine e replicate nelle terzine.

Amore è uno desi[o] che ven da’ core per abondanza di gran piacimento; e li occhi in prima genera[n] l’amore e lo core li dà nutricamento. Ben è alcuna fiata om amatore senza vedere so ’namoramento, ma quell’amor che stringe con furore da la vista de li occhi ha nas[ci]mento ché li occhi rapresenta[n] a lo core d’onni cosa che veden bono e rio com’è formata natural[e]mente e lo cor, che di zo è concepitore, imagina, e [li] piace quel desio: e questo amore regna fra la gente.

PARAFRASI 

Amore è un desiderio che viene dal cuore per abbondanza di grande piacere (piacere ispirato dalla donna amata); e gli occhi in primo luogo generano l’amore (perché vedono la donna amata) e il cuore gli dà nutrimento. È vero che talvolta l’uomo può innamorarsi senza aver visto la persona di cui è innamorato, ma quell’amore (cioè l’amore vero) che ha la violenza della passione nasce dalla vista della persona amata :perché gli occhi trasmettono al cuore di ogni cosa che vedono il buono e il cattivo, com’è formata secondo la propria natura ;e il cuore, che di ciò percepisce il messaggio, crea in sé l’immagine della bellezza rivelatagli dagli occhi, e prova piacere nel desiderio di essa: questo è l’amore che regna tra gli uomini.

GUIDO GUINIZZELLI “AL COR GENTILE REMPAIRA SEMPRE AMOR” In questo sonetto l’amore per Guinizelli diventa un evento non riservato a tutti ma solo a degli eletti. E’ la concezione aristocratica dell’amore. L’autentico amore è aristocraticamente riservato ad alcuni cuori gentili predestinati dagli influssi celesti. L’amante cortese per la qualità del suo amore non può essere che virtuoso e puro.L’amore è dunque principio di perfezione morale e di elevazione a Dio attraverso la donna-angelo.

TEST0  Canzone composta da sei strofe (stanze) di dieci versi ciascuna (sette endecasillabi e tre settenari). La prima parte contiene quattro endecasillabi a rima alternata (ABAB), la seconda parte è formata da endecasillabi e settenari.

Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: ch’adesso con’ fu ’l sole, sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole; e prende amore in gentilezza loco così propïamente come calore in clarità di foco. Foco d’amore in gentil cor s’aprende

come vertute in petra prezïosa, che da la stella valor no i discende anti che ’l sol la faccia gentil cosa; poi che n’ha tratto fòre per sua forza lo sol ciò che lì è vile, stella li dà valore: così lo cor ch’è fatto da natura

asletto, pur, gentile, donna a guisa di stella lo ’nnamora. 3. Amor per tal ragion sta ’n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su’ diletto, clar, sottile; no li stari’ altra guisa, tant’è fero. Così prava natura recontra amor come fa l’aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco com’adamàs del ferro in la minera. 4. Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno: vile reman, né ’l sol perde calore; dis’ omo alter: "Gentil per sclatta torno"; lui semblo al fango, al sol gentil valore: ché non dé dar om fé che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d’ere’ sed a vertute non ha gentil core, com’aigua porta raggio e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

[5] Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; e con’ segue, al primero, del giusto Deo beato compimento, così dar dovria, al vero, la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende del suo gentil, talento che mai di lei obedir non si disprende. [6] Donna, Deo mi dirà: “Che presomisti?”, sïando l’alma mia a lui davanti. “Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per semblanti: ch’a Me conven le laude e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude”. Dir Li porò: “Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; non me fu fallo, s’in lei posi amanza”.

ANALISI Stanza 1 - versi 1-10 - identità naturale tra amore e cuore nobile – Guinizelli afferma il concetto che amore e cor gentile sono legati da un rapporto istintivo e indissolubile come avviene tra: Un uccello e la vegetazione del bosco (similitudine); Il sole e la luce (analogia); Il fuoco e il calore (similitudine). Stanza 2 - versi 11-20 - L’innamoramento è l’espressione della nobiltà d’animo. Così come il sole purifica la pietra preziosa a cui le stelle trasmettono le qualità, la natura crea il cuore gentile che la donna fa innamorare. Guinizelli basa il suo paragone facendo riferimento alla vertute in petra prezïosa in quanto nel Medioevo si credeva che le stelle infondessero virtù magiche (vertute) alle pietre preziose; tali proprietà/virtù erano descritte nei trattati di mineralogia, chiamati lapidari. Stanza 3 - versi 21-30 - Il contrasto naturale tra l’amore e una natura vile. Un cuor gentile ospita l’amore mentre un cuore vile è contro l’amore:Il cuore gentile e l’amore sono naturalmente compatibili come lo sono il fuoco e la torcia, o il diamante e il ferro. Il parallelismo tra il diamante e

il ferro deriva dal fatto che all’epoca si riteneva che fra le proprietà del diamante vi fosse quella di attirare il ferro e possedesse perciò la stessa forza d’attrazione della calamita. Nel latino medioevale il diamante (adamàs) e la calamita erano considerati sinonimi. Stanza 4 - versi 31-40 - La nobiltà dell’animo è una virtù individuale. La gentilezza non si eredita per nobiltà di nascita ma si realizza per le virtù personali.La nobiltà di nascita non esclude l’avere un animo vile che viene dal poeta paragonato (similitudini con il mondo naturale):Al fango che non viene purificato dai raggi del sole;L’acqua che non trattiene la luce, la riflette ma non si trasforma in fonte luminosa. Stanza 5 - versi 41-50 - Il rapporto uomo-donna come rapporto angelo-Dio. Così come le intelligenze celesti e motrici (Angeli, Arcangeli) obbediscono alla volontà di Dio, determinando il movimento dei cieli e garantendo al creato l’ordine, così fa l’amante rispetto alla donna che attratto dalla bellezza della donna manifesta un desiderio di obbedirle attraverso il quale è predisposto alla virtù e al bene e realizza la pienezza dello spirito. Emerge in questa stanza la figura della donnaangelo. Stanza 6 - versi 51-60 - Le facoltà miracolose della donna-angelo. Il poeta si immagina al cospetto del giudizio di Dio che lo rimprovera per aver posto tutto il suo amore in un oggetto terreno, accostando come termine di paragone il Creatore ad una creatura, ma egli si giustifica affermando che la donna non induce al peccato ed ha l’aspetto di una creatura angelica.Guinizelli non nega dunque il vano amore verso la donna ed anzi conferma che l’aspetto angelico illude che sia una creatura celestiale, ma si tratta di una illusione benefica perché produce amore e effetti benefici nei cuori gentili.

GUIDO CAVALCANTI “PERCHE’ IO NO SPERO DI TORNAR

GIAMMAI”

È la più celebre ballata di Cavalcanti, scritta durante un periodo di allontanamento da Firenze (è incerto se a Nîmes, colto da una malattia in occasione di un pellegrinaggio a S. Giacomo di Compostella o a Sarzana, durante l'esilio) e con il presentimento angoscioso della morte imminente: il poeta si rivolge direttamente alla lirica e la prega di recarsi in Toscana dalla donna amata, per portarle tristi notizie sul suo conto, facendo bene attenzione a non esporsi alle maldicenze dei suoi nemici. Il "topos" della lontananza dall'amata e del timore della morte sarà in seguito ripreso da Petrarca nel "Canzoniere" e qui si esprime con un certo struggimento accorato, che tuttavia ricorre a un tono dimesso ed elegiaco alquanto diverso dagli altri componimenti dell'autore.

TESTO 

Ballata formata da quattro stanze di dieci versi ciascuna (endecasillabi e settenari), con schema della rima ABABBccddx. il linguaggio è semplice e lineare, secondo i dettami del trobar leu abbracciato dagli Stilnovisti.

Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana,

va’ tu, leggera e piana, dritt’a la donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore. Tu porterai novelle di sospiri piene di dogli’ e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri che sia nemica di gentil natura: ché certo per la mia disaventura tu saresti contesa, tanto da lei ripresa che mi sarebbe angoscia; dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore. Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte per quel che ciascun spirito ragiona. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core. Deh, ballatetta, a la tu’ amistate quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate, a quella bella donna a cu’ ti mando. Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’ presente:

«Questa vostra servente vien per istar con voi, partita da colui che fu servo d’Amore». Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta va’ ragionando della strutta mente. Voi troverete una donna piacente, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora. Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore.

ANALISI 

Cavalcanti si rivolge idealmente alla ballata (definita ballatetta, "cara ballata", con un diminutivo-vezzeggiativo frequente nei suoi versi) e la invita a recarsi al suo posto in Toscana, per riferire alla donna amata che lui, prossimo alla morte, non farà più ritorno: il tono è accorato ed è probabile che l'occasione fosse una reale malattia dell'autore, anche se non sappiamo quando il testo sia stato composto (forse a Sarzana, durante l'esilio da cui sarebbe rientrato a Firenze per morire nell'agosto del 1300, o forse in precedenza). La ballata dovrà presentarsi alla donna che l'accoglierà bene in quanto creatura nobile e il testo non dovrà farsi leggere dai nemici del poeta, che lo criticherebbero causandogli dolore (un probabile riferimento ai nemici politici di Cavalcanti?); la descrizione dell'anima distrutta del poeta riprende motivi analoghi delle rime amorose, specie i riferimenti agli spiriti vitali (v. 20), alla persona "distrutta" (v. 21), all'anima "che trema" (v. 28), alla "voce sbigottita e deboletta" (v. 37), il tutto aggravato dalla sensazione di morte incombente. Nell'ultima stanza che funge da congedo la ballata è invitata a unirsi alla voce del poeta e alla sua anima uscita ormai dal corpo, per recarsi dalla donna come un triste "corteo funebre", mentre l'anima dovrà "adorare" la donna in ragione della sua virtù (il termine rimanda al significato religioso che l'amore assume sempre nella poesia di Cavalcanti, forse anche in riferimento alla paura della morte).

CHI E’ QUESTA CHE VEN CHE OGN’OM LA MIRA

Sonetto tra i più celebri di Cavalcanti, in cui la lode della bellezza della donna amata si accompagna alla dichiarazione di impotenza da parte del poeta nel descriverla appieno, data la natura angelica e trascendente della figura femminile e la sproporzione rispetto alle limitate capacità umane dello scrittore. La bellezza della donna-angelo è tale che ogni uomo al solo guardarla rimane ammutolito, mentre la sua virtù più importante è l'umiltà, che la rende paradossalmente superiore a tutte le altre donne. L'amore diventa esperienza religiosa e quasi mistica, anticipando tra l'altro il tema dell'ineffabilità della bellezza che sarà ripreso soprattutto da Dante, tanto nella "Vita nuova" quanto (su un piano più elevato) nel "Paradiso".

TESTO 

IL sonetto con schema della rima regolare (ABBA, ABBA, CDE, EDC), senza la presenza di rime siciliane. La lingua presenta alcuni latinismi e provenzalismi con uno stile alquanto semplice e conforme al trobar leu proprio dello Stilnovo.

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’âre e mena seco Amor, sì che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira? O Deo, che sembra quando li occhi gira! dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare: cotanto d’umiltà donna mi pare, ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira. Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, e la beltate per sua dea la mostra. Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, che propiamente n’aviàn canoscenza.

ANALISI 

Il sonetto celebra la bellezza della donna amata, tuttavia arricchisce il tema con riferimenti religiosi e scritturali secondo il modello di Guinizelli e, soprattutto, sviluppa il motivo dell'ineffabilità della bellezza femminile, espressione della grazia divina e dunque impossibile da cogliere per la mente umana e da esprimere per i limitati mezzi umani del poeta: fin dall'inizio l'atmosfera del componimento è mistica, con l'incipit che ricorda il Cantico dei Cantici. mentre la donna è circonfusa di luce come un'aureola, che fa ammutolire tutti coloro che la guardano; essa è umile più di qualunque altra donna e ciò la rende paradossalmente superiore a tutte, mentre la bellezza la indica come propria dea,

come creatura sovrumana. L'incapacità di cogliere pienamente la bellezza della donna è di tipo filosofico, poiché la mente umana sembra inadeguata a penetrare sino in fondo a un mistero che proviene dalla grazia divina, perciò l'amore diventa un'esperienza affine al misticismo medievale, troppo profonda per essere espressa a parole.

DANTE ALIGHIERI “GUIDO IO VORREI CHE TU, LAPO ED IO” In questo celebre sonetto del periodo stilnovista Dante si rivolge idealmente agli amici Guido Cavalcanti e Lapo Gianni (entrambi membri della "scuola") e manifesta il desiderio di fare un viaggio con loro su un vascello favoloso, lasciandosi trasportare dal vento e dai propri desideri, auspicando inoltre che ai tre si uniscano le rispettive donne (tra cui non è inclusa curiosamente Beatrice) per trascorrere il tempo felicemente nella gioia di stare insieme. Il testo si può ricondurre alla lirica amorosa del Dolce Stil Novo, anche se riprende in parte anche il "plazer" provenzale ed esprime, forse, un desiderio di evasione e fuga dalla realtà mercantile della società comunale.

TESTO 

Metro: sonetto con schema della rima ABBA, ABBA, CDE, EDC. La lingua è il toscano della tradizione letteraria, con uno stile particolarmente piano e facile che riprende il trobar leu ed è conforme al linguaggio dello Stilnovo.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio. E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi.

ANALISI



Dante si rivolge agli amici di "scuola" stilnovista Guido Cavalcanti e Lapo Gianni immaginando che il mago Merlino della tradizione dei romanzi cortesi li metta su un "vasel" pronto ad andare per mare spinto da venti favorevoli, è un desiderio di evasione secondo lo schema del plazer provenzale, forse (come è parso ad alcuni) con una punta di insofferenza per la civiltà mercantile dei Comuni ormai in contrasto con l'ideale aristocratico perseguito dai poeti dello Stilnovo. Il testo si divide in due parti, poiché nelle quartine Dante si augura di poter compiere il viaggio favoloso con i due amici, mentre nelle terzine spera che ai tre si uniscano le rispettive donne.

“TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE” In questo capitolo, il XXVI della “Vita Nova”, è incluso il sonetto più celebre di Dante, nonché il testo tra i più famosi di tutta la poesia lirica delle origini, in cui l'autore semplicemente esprime la lode della bellezza e della virtù di Beatrice e le reazioni di ammirazione che provoca in chi la vede camminare per strada, riprendendo vari motivi propri dello Stilnovo.

TESTO 

Lo schema della rima ABBA, ABBA, CDE, EDC, la lingua presenta alcune forme siciliane, latinismi e da notare la presenza di alcuni vocaboli propri del linguaggio stilnovista, come "gentile" (nobile d'animo), "onesta" (dignitosa nel comportamento esteriore), "piacente" (bella e di piacevole aspetto).

Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta, ch’ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core, che ’ntender no la può chi non la prova: e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d’amore, che va dicendo a l’anima: Sospira.

ANALISI



Questo sonetto costituisce l'esempio più semplice e formalmente perfetto di poesia in lode di Beatrice, che viene elogiata non solo per la sua bellezza ma anche per la sua straordinaria umiltà e per gli effetti che produce in chi la osserva per strada, nonché nelle donne che la accompagnano: questa lirica (forse la più famosa composta da Dante nel periodo stilnovista) riprende molti motivi già presenti in Cavalcanti e descrive l'apparizione della donna quando passa per strada, il cui saluto fa ammutolire tutti e li spinge a guardare in basso, mentre chi la vede afferma che è un miracolo venuto "da cielo in terra" (secondo la più classica formula della "donna-angelo"); la dolcezza che ispira a chi la osserva e che fa sospirare l'anima non può essere descritta a pieno, se non da chi ne ha fatto diretta esperienza.

FRANCESCO PETRARCA CANZONIERE,1 “VOI CHE ASCOLTASTE IN RIME SPARSE IL SUONO” È il sonetto proemiale della raccolta, scritto probabilmente intorno al 1350 e quindi posteriore alla morte di Laura, come dimostra il fatto che l'autore guarda in modo retrospettivo al suo amore infelice: Petrarca lo definisce un "giovenile errore" dal quale si è in parte liberato con la maturità, consapevole di essere venuto meno alla sua dignità di intellettuale e di essersi esposto alle derisioni del mondo, con una concezione classica che rimanda forse al carme 8 di Catullo.

TESTO 

Sonetto con schema della rima ABBA, ABBA, CDE, CDE,

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ’l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono, del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze...


Similar Free PDFs