Alfonso Traina - Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico PDF

Title Alfonso Traina - Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico
Course Metodologia della Ricerca Filologica Italiana
Institution Università degli Studi di Messina
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Riassunto completo del libro...


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ALFONSO TRAINA – IL LATINO DEL PASCOLI POETA DELLA COMPRESENZA Pascoli può essere definito il poeta della contraddizione non solo per il destino stesso della sua opera, sulla quale si sono sempre scontrati l'entusiasmo dei lettori e il riserbo dei critici, ma anche per gli elementi del suo spirito e della sua poesia. Egli fu, ad esempio, un socialista umanitario che approdò al nazionalismo, maledicendo tutte le guerre eccetto quelle del suo paese; fu un verista per l'esigenza di intridere nella parola tutti i colori delle cose, ma simbolista per l'inquieto presagio di una realtà più segreta, che si trova dietro le cose; fu uno scrutatore ugualmente stupito dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, romantico per natura e classico per cultura, sicuramente uno dei primi nostri poeti veramente moderno ed europeo, fratello dei simbolisti francesi specie nella ricerca di tutti i mezzi che portino l'espressione al limite dell'inesprimibile, e forse, infine, l'ultimo degli umanisti, per l'utopia di far rivivere un mondo sepolto. È opportuno precisare, però, che molte di queste contraddizioni si rilevano più apparenti che reali. Pascoli, ad esempio, fu, si, un positivista, ma di un positivismo sentito come invalicabile limite della conoscenza razionale, oltre la quale va la conoscenza intuitiva della poesia; fu un socialista, è vero, ma di un socialismo che rivendica i diritti di tutti i diseredati, un verista che rifugge dal brutto e guarda con attenzione le cose che sono fuori di noi e quelle che sono dentro di noi. Per tutto questo, dunque, più che di poeta della contraddizione è opportuno parlare, riferendoci al Pascoli, di poeta della compresenza, formula di sicuro più precisa per cogliere la più vistosa caratteristica della poesia pascoliana, ossia il suo sfuggente dualismo. Fra le maggiori contraddizioni del Pascoli, ad esempio, figura il suo bilinguismo: compresenza non solo di due lingue, ma di una lingua viva e di una lingua morta. Il nostro poeta, infatti, incolpa la sua lingua materna di non sapere cogliere l'individualità delle cose e scende, prima, al dialetto, e poi arriva fuori dal linguaggio grammaticalizzato, facendo ricorso, ad esempio, alle onomatopee che riflettono l'immediatezza delle sensazioni; questo stesso poeta, inoltre, si rivolge a una lingua muta da secoli, cristallizzata nel lessico e irrigidita nella struttura. Questa, quindi, è una delle maggiori contraddizioni pascoliane, o, meglio, sembra essere una contraddizione; sembra, infatti, ma non lo è, specie se inquadriamo questo carattere all'interno della poetica del poeta romagnolo. LA LINGUA MORTA NELLA POETICA DEL PASCOLI Nel modus poetandi del Pascoli, infatti, coesistono due diverse poetiche: la poetica della memoria e la poetica delle cose, confluite nella poetica del fanciullino; in entrambe, e più esplicitamente nella poetica della memoria, l'uso del latino come lingua poetica trova la sua piena giustificazione. Sappiamo, infatti, che molta della poesia pascoliana nasce dalle memorie della sua infanzia: ma la memoria poetica non si chiude nel giro di un'esistenza, dal momento che la vita che essa rivive è la vita di tutta l'umanità. Nel Pascoli, il ricordo riaffiora dall'intimo, dall'inconscio, come eco trasognata e, spesso, dolente, di una vita remota: questa memoria prenatale non è altro che la dimensione temporale del senso cosmico pascoliano, il panta rei. Il flusso della vita cosmica annulla la distanza tra il presente e il passato, tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo; per questo motivo il tempo si fa trasparente: in ogni ora della storia, infatti, si intravede la vertiginosa prospettiva degli eventi futuri, di cui essa porta i presagi. Il poeta è conscio di questa unità cosmica, spaziale e temporale, al cui limite vi è la zona buia del Mistero, dove forse è Dio o, più probabilmente, il Nulla; da questa zona viene al cosmo pascoliano una perenne inquietudine. Contro la morte, però, che è dietro di noi ed in noi stessi, la poesia fa rivivere nella memoria ciò che era morto in noi e prima di noi: la poesia, dunque, è la vera vittoria dell'uomo contro la morte. Ritorniamo adesso al problema del bilinguismo pascoliano. Due volte il nostro autore ha accennato al problema della lingua morta; nei “Pensieri scolastici” del 1896, ad esempio, egli difese l'istruzione classica, allora minacciata dall'ostilità dell'opinione pubblica e dalle riforme del Ministero. In questo primo intervento, dunque, la lingua morta è vista solo come mezzo di cultura; due anni dopo, però, commemorando il poeta Diego Vitrioli, il primo ad essere stato premiato alle gare latine di Amsterdam, Pascoli immagina di rivolgere a lui una domanda sul perchè avesse

poetato in una lingua morta e, per bocca del vecchio poeta, fornisce un'interessante risposta, dicendo: “...non si lasci spegner nulla di ciò che può dar luce e calore...non si lasci morir nulla di ciò che fu bello e giocondo”. Quindi, contro la morte delle lingue, come contro la morte degli uomini e delle epoche, il poeta si appella alla poetica della memoria. Questa giustificazione, però, è extralinguistica, dal momento che la lingua morta non viene considerata ancora come strumento espressivo, ma come oggetto della poesia, alla stessa stregua, quindi, dei pensieri e delle immagini. Come ha visto bene Contini, il problema della lingua morta s'innesta sul problema della lingua nuova: è la famosa polemica pascoliana contro la lingua grigia e generica, che nasconde le cose invece di svelarle; che tra i mezzi impiegati dal Pascoli per soddisfare questa esigenza ci sia il latino, accanto ad elementi così lontani da esso come l'onomatopea e il dialetto, va spiegato, ancora una volta, con la poetica pascoliana delle cose, che trova nel Fanciullino il suo punto d'incontro con la poetica della memoria: il fanciullino è un occhio che guarda stupito, e scopre nelle cose quel particolare nuovo che i nostri occhi stanchi non sono più capaci di vedere; da questa aderenza alle cose, però, scaturisce la polemica contro la convenzionalità e l'indeterminatezza della diàlectos coinè e, di conseguenza, il bisogno della parola precisa, concreta, corposa, del termine mimetico. La mimesi, infatti, è il punto di partenza della poesia pascoliana; da qui nasce il gusto del particolare erudito, della documentazione archeologica; di qui la traslitterazione dei nomi propri e la rischiosa aderenza delle forme metriche nei tentativi di traduzione; di qui arcaismi, per rendere il colore temporale, e tecnicismi, per rendere il colore locale. Ogni cosa deve parlare quanto più è possibile con la propria voce. Usare il latino, dunque, era per il poeta naturale e necessario, del tutto conforme alla poetica delle cose. Il suo bisogno di libertà linguistica poteva soddisfarsi in una lingua morta perchè era, in realtà, bisogno di concretezza linguistica. IL PROBLEMA DEL BILINGUISMO PASCOLIANO La poetica delle cose porta il Pascoli al plurilinguismo, il cui caso estremo è il bilinguismo: questa coesistenza di due sistemi linguistici, di cui uno uscito dall'uso, è il vero problema del latino pascoliano, sul quale hanno sempre insistito gli studiosi. Di fronte a questo problema, la critica ha assunto due posizioni antitetiche, ma infondo ugualmente aprioristiche: la posizione positivistica e la posizione idealistica. I primi critici partono dal latino come sistema linguistico preesistente all'espressione pascoliana, restando naturalmente impigliati nel pregiudizio della lingua morta, un lingua, quindi, agli antipodi rispetto alla rivoluzione linguistica operata dal Pascoli italiano. I critici idealisti, invece, partono dal lato soggettivo della lingua, che, in italiano e in latino, riflette la stessa personalità poetica: non si pone, dunque, più il problema del diverso mezzo espressivo, e si nega radicalmente la dicotomia estetica di un Pascoli italiano e un Pascoli latino. Questa interpretazione, però, cela un'insidia: se, infatti, ci si limita ad affermare la coincidenza stilistica dei due Pascoli, si salva certamente il Pascoli latino da una condanna aprioristica, legandone le sorti a quelle del Pascoli italiano, ma lo si salva altrettanto aprioristicamente, in nome di un principio estetico che attende di essere convalidato in sede analitica. Nessuno dei due itinerari, dunque, ci sembra condurre alla giusta meta. Non è giusto credere che uno strumento linguistico uscito dall'uso diventi, per ciò stesso, impoetico. Non deve, infatti, trarre in inganno l'equivoco termine di lingua morta. Ogni lingua, infatti, è un fatto storico: una lingua è morta, quindi, quando la sua storicità non corrisponde più alla storicità di nessun parlante. Ciò non toglie, tuttavia, che un parlante possa assumerne la storicità. Come atto linguistico individuale, infatti, ogni lingua può essere viva quando la più o meno perfetta assimilazione del suo sistema e il conseguente rivivere delle associazioni fonetiche, sintattiche e semantiche sollecitino il parlante ad esprimersi in essa. I valori affettivi ed evocativi non sono più diretti come quelli della lingua materna, ma riflessi attraverso le esperienza umane consegnate al patrimonio letterario di quella lingua, legati a situazioni poetiche in cui il parlante si riconosce e che rivivono in lui grazie alla suggestione della poesia. Ma siccome il parlante, pur assumendo la storicità della lingua in cui si esprime con tutte le sue risorse e i suoi limiti, non può spogliarsi della propria, dovremo muoverci sul rischioso filo di una stilistica a più dimensioni, che consideri la lingua individuale del Pascoli latino come la componente di due forze: l'impulso espressivo del poeta, quale si riflette anche nei suoi stilemi italiani, e la pressione del

patrimonio linguistico latino. Così il bilinguismo del Pascoli complica il consueto rapporto tradizione-innovazione, sovrapponendo al confronto verticale tra latino antico e latino pascoliano il confronto orizzontale tra latino pascoliano e italiano pascoliano. APPENDICE I POESIA IN FIERI. DALLE CARTE DEL PASCOLI LATINO Analizziamo, adesso, Catullocalvos, Fanum Vacunae, Pomponia Graecina. Prima, però, di esaminare questi carmina, bisogna sgombrare il terreno dall'illusione di poter sempre ricostruire l'iter della parola pascoliana. Per cominciare, infatti, non possediamo tutti i brogliacci del poeta; poi, i brogliacci di un medesimo carme possono essere distribuiti in varie buste o scatole e addirittura coesistere in uno stesso foglio con brogliacci di altri carmi. Tutto questo dipende in parte dall'ordinamento dell'archivio, in parte dalla maniera di lavorare del Pascoli, che fermava uno spunto o annotava una fonte dovunque gli capitasse, anche mentre attendeva ad altro lavoro. Ma anche quando abbiamo la presunzione di possedere tutto il materiale manoscritto, non possiamo sempre ripercorrere le varie fasi dell'elaborazione pascoliana; certi versi, infatti, sono fatti e rifatti senza sosta e disseminati in tutte le direzioni di quelle cartelle lunghe e strette in cui il Pascoli amava scrivere. La busta del Catullocalvos contiene: 1. una redazione completa copiata a mano in 13 foglietti, non coincidente con quella definitiva; 2. abbozzi di tutte le liriche e dell'introduzione esametrica a partire dal v. 30 La busta del Fanum Vacunae contiene: 1. una redazione completa copiata a mano in 18 foglietti, quasi definitiva, con qualche correzione; 2. una copia dattiloscritta della redazione definitiva in 17 fogli; 3. abbozzi delle singole liriche, molto incompleti La busta di Pomponia Graecina contiene: 1. una redazione più antica, copiata a mano in 7 fogli; 2. una redazione quasi definitiva, copiata a mano in 7 fogli; 3. abbozzi fortemente incompleti. Di ogni carme il Pascoli era solito buttar giù la traccia, prevalentemente italiana, spesso bilingue, talora solo latina. Quando si tratti di brevi liriche, come nel caso del Catullocalvos e del Fanum Vacunae, non di rado la traccia italiana ubbidisce già a un segreto ritmo poetico, come si evince nella traccia di Luna del Catullocalvos, anche se non si deve anteporre la freschezza di questa prima ispirazione alle conquiste formali della redazione definitiva, la cui levità fonica non ha precedenti in latino. Confronti simili possono farsi per molte tracce; ad esempio, spogliata della sua struttura antitetica e anaforica e della splendida metafora finale, la traccia di Amor 2, del Catullocalvos, conserva tuttavia la suggestiva icasticità del suo simbolismo. Altre tracce, invece, come quella delle due ultime strofe di Lucretilis del Fanum Vacunae, presentano solo una tenue trama concettuale comune con la redazione latina. Da tutto questo, però, non si arguisca affrettatamente che l'ispirazione originaria del Pascoli latino era italiana. L'interscambiabilità dei due strumenti linguistici, infatti, è largamente attestata da tracce dove si passa da una lingua all'altra senza soluzione di continuità, bilinguismo che non consiste solo in frasi latine inserite o alternate, ma che scatta anche all'interno della medesima frase, del medesimo sintagma, in cui il termine che è il centro icastico della scena è in latino. All'altro estremo, c'è il latino puro. Come in italiano, anacoluti, paratassi, sospensioni caratterizzano il magma verbale originario. A parte le ovvie correzioni metriche, un primo, nutrito gruppo di varianti ha una motivazione esclusivamente e prevalentemente fonica: com'era da attendersi dall'immaginazione uditiva pascoliana. Macroscopico è il caso del primo verso di Gallicinum, del Fanum Vacunae: Hic, hic, heri qui vesperi greges quoque etc.. Si avverte subito nel canto dei galli l'onomatopea del

chicchiricchi. Negli abbozzi assistiamo alla sua costruzione: kikeriki quid quaeris hinc E in successive approssimazioni: hichic here potes dormire non hic here qui vesperi Nella copia manoscritta le prime quattro parole sono in maiuscolo: HIC HIC, HERI QUI vesperi greges quoque. Prendiamo in considerazione, adesso, il v. 60 del Fanum Vacunae (Ad Vergilium): Suaserunt puero tibi blandos murmure somnos/apes. La sostituzione di murmur al susurrus virgiliano era costata la rinunzia all'allitterazione onomatopeica, ma tale rinunzia fu controbilanciata dal raddoppiamento della /s/ nella forma verbale (suaserunt), che il poeta mise al posto della prima redazione suadebant. Dunque una variante non sintattica, ma fonica. Il v. 79 del Fanum Vacunae (Conticinium) subì una leggerissima variante: da et ros cadit silentio a silentioque ros cadit. Tocco lieve ma efficace, nel quadro della struttura fonosintattica della lirica. Il -que, infatti, uniforma la coordinazione copulativa anaforica del carmen e, grazie all'enclisi, dà rilievo alla notazione negativa del silenzio. Un'altra costante delle varianti pascoliane è l'eliminazione del termine generico o banale a favore del termine più preciso ed espressivo. Ad esempio, in Catullocalvos, 63: O sectumque mala mihi sutumque alite lignum, vediamo negli abbozzi lignum corretto in buxum, cioè il genere nella specie, in ossequio alla poetica delle cose pascoliana. Autentico preziosismo alessandrino, inoltre, si rivela la glossa ravus, che ha cacciato di nido il sinonimo corrente raucus, di eguale espressività fonica, in Fanum Vacunae, 48. Più vitali filoni della poetica pascoliana affiorano nelle varianti: l'interiorizzazione, il senso della lontananza, il simbolismo. A proposito del linguaggio dell'interiorità, osserviamo il v. 95 del Catullocalvos (Alaudae: ex alto videor mihi corde/omnem exaudire malum): l'inerzia del clichè “imo corde”, che tra l'altro si legge nella prima redazione, è evitata con la sostituzione dell'epiteto più raro altus. Negli abbozzi di Pomponia Graecina, il v.73 si legge in questa forma: Excipiunt tacitos fumosis atria ceris/tristia. Il verso fu cambiato in Excipiunt tristes fumosis tristia ceris/atria; a tacitos subentrò tristes in poliptoto con tristia. È un caso di retorica funzionale, perchè il poliptoto, instaurando uno stretto rapporto formale tra la cupezza dell'atrio e la cupezza dei parenti (l'atrio, annerito dal fumo, infatti, accoglie il tribunale di famiglia che deve giudicare Pomponia), prepara quella sintonizzazione tra ambienti e personaggi che è lo sfondo del dramma di Pomponia. Qualche caso fortunato, poi, ci consente di assistere alla nascita dell'immagine. Il v. 173 del Catullocalvos (Circe) così descrive i compagni di Ulisse trasformati in porci: socii ducem foventes calida stabula sues/(...) vident. Ma il punto di partenza era diverso: sociique qui tenent heu gelida stabula sues. Dall'una all'altra forma si arriva attraverso una fase intermedia: socii ducem tenentes calida stabula sues, che elimina la zeppa interiettiva heu e prepara foventes, morfologicamente mediante il participio tenentes che condensa la relativa, semanticamente mediante il rovesciamento dell'epiteto, da gelida a calida. Un ultimo esempio ci è offerto da Catullocalvos, 311 (Amor 2). La prima redazione latina riporta: fragrat et ignota memorem dulcedine temptat. Ma la metafora del profumo, rimasta nella fantasia del poeta, gli suggerisce accanto a temptat la variante suffit (riempie di fumo odoroso), e questa attraverso il rapporto sinonimico suffire/vaporare fa scattare la reminiscenza virgiliana dell'Eneide. Da quanto detto in queste pagine, dunque, emerge che il Pascoli non fu tra i poeti che hanno il parto facile....


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