Appunti di Diritto processuale civile (UniTrento) PDF

Title Appunti di Diritto processuale civile (UniTrento)
Author Francesco Giuriato
Course Diritto processuale civile
Institution Università degli Studi di Trento
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Appunti di Diritto processuale civile (UniTrento) Scritti benissimo...


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DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Il diritto processuale civile è quel complesso di norme che disciplina lo svolgimento del procedimento davanti ad un giudice terzo ed imparziale che è volto all’esercizio della giurisdizione civile per comporre una controversia su un diritto soggettivo, un rapporto giuridico o uno status. PROCEDIMENTO Il procedimento è quella sequenza ordinata e coordinata di atti che mira a produrre quell’effetto giuridico che consiste nell’esercizio della giurisdizione civile. Lo si definisce in questo modo perché tutti gli atti della sequenza procedimentale sono legati da un duplice vincolo: da un lato ciascun atto trova la sua giustificazione nel compimento dell’atto precedente e dall’altro, se un atto è viziato, e non viene sanato attraverso i meccanismi della rinnovazione (che consiste nel compiere nuovamente l’atto) o dell’integrazione (che implica il compimento di una determinata attività), il vizio non si limita ad inficiare quel singolo atto ma si trasmette anche agli atti successivi. Tuttavia, il processo giurisdizionale civile, non è sempre stato configurato come un procedimento: per molto tempo si è posto l’accento sul profilo statico del fenomeno, piuttosto che su quello dinamico e si è seguita l’impostazione di Oskar von Bülow (ancora viva in alcuni ordinamenti), il quale, nel 1868, per attribuire al processo un’autonomia rispetto al diritto sostanziale, propose di considerarlo come un rapporto giuridico intercorrente fra il giudice e le parti. Ma questa concezione è stata messa in crisi sulla base della considerazione che un processo nasce anche se non ce ne sarebbero i presupposti. GIURISDIZIONE Per molto tempo il concetto di giurisdizione è stato definito, sulla base di un criterio soggettivo, come l’attività esercitata da un soggetto che l’ordinamento giuridico individua e disciplina come giudice. Ma questa concezione è stata messa in crisi sulla base della considerazione che per stabilire qual è la natura giuridica di un’attività bisogna vedere quali sono gli effetti che produce sul piano giuridico. Allo Stato moderno, fondato sul divieto di farsi giustizia da sé, si richiede, nell’ipotesi in cui si controverta sull’esistenza di un diritto, di eliminare questa incertezza e di dichiarare qual è in quel caso concreto la generale ed astratta volontà di legge. La giurisdizione dunque è quell’attività che produce questo accertamento. La possibilità di domandare al giudice di accertare se esiste o non

esiste una posizione sostanziale ha carattere atipico, cioè non c’è una norma che espressamente prevede questa possibilità. Questo accertamento è immanente al sistema. Ciò che invece si può fare solo là dove una espressa previsione di legge lo consente è chiedere al giudice di accertare uno o più fatti giuridici, per ragioni di economia processuale.Da questo modo di concepire la giurisdizione discendono 2 importanti conseguenze: 1) Un soggetto individuato e disciplinato dall’ordinamento giuridico come giudice può svolgere anche un’attività non accertativa, ma amministrativa: si tratta della giurisdizione volontaria (ad es. il giudice tutelare deve controllare l’amministratore di sostegno). Questa attività si svolge con un procedimento semplificato in camera di consiglio (vale a dire, senza udienza pubblica), il quale sfocia nella pronuncia non di sentenze, bensì di decreti. Questi provvedimenti sono emessi dal giudice sulla base di una valutazione di opportunità e pertanto possono essere revocati o modificati in ogni tempo; per tale ragione essi hanno un’efficacia meramente costitutiva, poiché diretti ad attuare modificazioni di rapporti sostanziali, ma non anche un contenuto di accertamento dei diritti. 2) Un’attività accertativa può essere svolta anche da un soggetto che l’ordinamento non qualifica come giudice: è il caso dell’arbitrato. Nell’ambito dell’attività giurisdizionale si distinguono 3 tipi di tutela: 1) La tutela di cognizione, con la quale il giudice compone la lite in ordine ad una determinata posizione sostanziale. 2) La tutela cautelare, con la quale la parte che abbia chiesto o che stia per chiedere al giudice una tutela di cognizione può ottenere un provvedimento provvisorio che tuteli temporaneamente il diritto che essa afferma di vantare. 3) La tutela esecutiva, che mira a dare concreta soddisfazione al titolare di un diritto attraverso l’esecuzione coattiva dell’obbligazione che risulti da un provvedimento giudiziale esecutivo o da un documento stragiudiziale contemplato come titolo esecutivo. COSA GIUDICATA L’art. 2909 del Codice civile, la cui rubrica recita “Cosa giudicata”, = “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. In particolare l’ordinamento riconduce alla cosa giudicata 2 effetti: 1) Effetto negativo: il divieto di giudicare nuovamente sulla stessa lite (ne bis in idem). 2) Effetto positivo (o conformativo): se vi è una sentenza passata in giudicato e fra

le stesse parti viene instaurato un processo nel quale si controverte su una posizione sostanziale diversa ma dipendente giuridicamente da quella accertata come esistente o inesistente il giudice si deve uniformare al contenuto della cosa giudicata. E poi c’è il principio per il quale il giudicato copre il dedotto ed il deducibile: le parti di un processo che si è chiuso con una sentenza avente autorità di cosa giudicata non possono rimettere in discussione l’accertamente compiuto producendo in processi successivi circostanze di fatto che avrebbero potuto dedursi nel processo precedente ma non sono state dedotte o circostanze di fatto che nel processo precedente sono state dedotte ma sono state disattese dal giudice. Questo principio dunque non riguarda le circostanze di fatto venute in essere successivamente al formarsi del giudicato. Dall’art. 34 si desume che l’accertamento incontrovertibile non si estende ai motivi della decisione (limiti oggettivi del giudicato). Tuttavia, una parte della dottrina e della giurisprudenza vorrebbe estendere il giudicato anche ai motivi-base della decisione. Normalmente il vincolo del giudicato non si impone ai terzi diversi dagli aventi causa (limiti soggettivi del giudicato). Il giudicato, rispetto alla posizione sostanziale accertata, opera come legge speciale, cioè la fonte che regola quella posizione non è più la norma generale ed astratta ma il giudicato. Ciò fa sì che esso sia insensibile rispetto ad eventuali sopravvenuti mutamenti della normativa. Per quanto riguarda il regime di rilevazione del giudicato, si tratta di capire se la questione possa essere sollevata soltanto dalla parte interessata, con un’eccezione da svolgere nei termini ex art. 167, oppure possa essere anche rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. Fino alla metà degli anni ’90, la Suprema Corte era ferma nell’operare una distinzione fra giudicato interno (cioè, quello formatosi nel processo in corso, per effetto del passaggio in giudicato di un capo della sentenza o di una sentenza non definitiva di merito) e giudicato esterno (cioè, quello formatosi in un precedente giudizio): il secondo dava luogo solo ad un potere di eccezione in senso stretto, in quanto integrava una garanzia privatistica del bene della vita assicurato. Ma la dottrina prevalente (e ormai anche le pronunce più recenti della Suprema Corte) da sempre disconosce questa distinzione e sottolinea l’unitarietà del giudicato. Il contrasto tra giudicati si ha quando il giudice adito per secondo decide sulla domanda senza tenere conto di un precedente giudicato rilevante per la decisione. Esistono 3 tipi di contrasto: 1) Contrasto logico, che si ha quando i due giudicati hanno per oggetto diritti soggettivi diversi, che però hanno in comune dei fatti costitutivi, accertati in modo contrastante. In questo caso il contrasto non rende impossibile la convivenza dei due giudicati, che rimangono entrambi vigenti tra le parti.

2) Contrasto semi-pratico, che si ha quando una questione, che nel primo giudizio era stata conosciuta solo incidenter tantum, nel secondo giudizio sia decisa con efficacia di giudicato in senso opposto. L’ordinamento prevede alcuni strumenti per prevenirlo: ad es. la sospensione per pregiudizialità. Tuttavia, se ciò non avviene, i due giudizi proseguiranno autonomamente, e daranno luogo a due giudicati che dovranno convivere, a meno che non soccorra la revocazione ex art. 395 numero 5. 3) Contrasto pratico, che si ha quando il secondo giudicato ha ad oggetto lo stesso diritto soggettivo che forma l’oggetto del primo, ma ha contenuto diametralmente opposto. Se il giudice del secondo processo non si è avveduto dell’esistenza del precedente giudicato, è ammessa la revocazione ex art. 395 numero 5. La legge, invece, non prevede nulla per il caso in cui il giudice abbia rigettato l’eccezione di giudicato perché, errando, l’abbia ritenuto irrilevante. Secondo alcuni bisognerebbe attribuire prevalenza al giudicato formatosi per secondo, applicando in via analogica il principio che regola la successione delle leggi nel tempo. Altri, invece, propendono per la soluzione opposta, in forza del rilievo secondo il quale il potere decisorio del giudice si sarebbe consumato con il passaggio in giudicato della prima sentenza. Si parla di giudicato implicito con riferimento ad una serie eterogenea di casi in cui dalla sentenza è possibile evincere che una determinata questione, che si pone su un piano logicamente preliminare alla statuizione sul merito della lite, pur non essendo stata espressamente affrontata, non poteva che essere risolta in un dato modo. Questa soluzione non potrebbe più essere rimessa in discussione né dalle parti, in diversi giudizi, né dai giudici del gravame, in assenza di un’apposita censura di parte. Questa epressione, tuttavia, viene utilizzata semplicemente per introdurre pretoriamente preclusioni che il nostro sistema positivo non contempla. Il presupposto per aversi il giudicato è il passaggio in giudicato della sentenza, cioè la sua ininpugnabilità e immutabilità come atto. E per essere non più impugnabile una sentenza non deve essere più soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari. Il legislatore ha introdotto questo meccanismo perché ritiene che un accertamento, per essere incontrovertibile, debba essere il prodotto di un procedimento nel quale più giudicanti hanno esaminato la controversia. In questo modo, infatti, da un punto di vista statistico, è più probabile che l’accertamento sia ponderato, ed inoltre se ci sono stati degli errori nel primo o nel secondo grado possono essere emendati. Questa ininpugnabilità è relativa, perché contro di essa sono proponibili i mezzi di impugnazione straordinari. PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

Il principio del contraddittorio, che si è soliti riassumere nell’antico brocardo audiatur et altera pars, consiste nel fatto che i litiganti si devono trovare, quanto a poteri e oneri, su una posizione di tendenziale e sostanziale parità: quando la legge o il giudice attribuiscono ad uno dei contendenti l’esercizio di un potere processuale, alla controparte ne deve essere attribuito uno uguale e contrario; il procedimento, infatti, ha la funzione di comporre una lite. Questo principio è stabilito esplicitamente da una norma del Codice di procedura civile: si tratta dell’art. d (la cui rubrica recita appunto “Principio del contraddittorio”), il quale prevede che: “Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata citata regolarmente e non è comparsa”. PRINCIPIO DISPOSITIVO In base al principio dispositivo, la prestazione della tutela giurisdizionale è subordinata ad una espressa iniziativa del soggetto interessato. Il principio dispositivo è una proiezione nel campo del processo di ciò che nel Diritto privato è l’autonomia del privato, consistente nel fatto che egli è libero di compiere o meno un atto giuridico. Ma una parte della dottrina ritiene che esso serva anche a preservare l’imparzialità del giudice, cioè la sua equidistanza rispetto alle parti in conflitto. Inoltre, va ricordato che questo principio si traduce anche nell’impossibilità per un soggetto di far iniziare un processo per vedere tutelato un diritto di cui egli non si afferma titolare. CONFESSIONE La confessione è la dichiarazione che una parte fa circa la verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte. Il legislatore ha normato una massima di esperienza per la quale chi dichiara che fatti di questo tipo sono veri di solito non sta mentendo, perché non ne trae nessun giovamento. Lo strumento per demolire l’efficacia di prova legale della confessione è la revoca della confessione: bisogna dimostrare che quella dichiarazione è stata emessa o per errore o per violenza. Ci si chiede se la confessione sia revocabile anche per dolo: se si considera la confessione come un negozio bisogna rispondere di sì, perché valgono i principi generali in materia di volontà negoziale, se si considera come una dichiarazione di scienza, invece, vale l’espressa previsione di legge.

GIURAMENTO Il giuramento è una prova legale ed è quella dichiarazione solenne dalla quale la parte (giuramento decisorio) o il giudice (giuramento suppletorio) fanno dipendere totalmente o parzialmente la decisione di una controversia o dalla quale (giuramento estimatorio) il quale il giudice fa dipendere la determinazione del valore di una cosa controversa, quando quel valore non sia altrimenti determinabile. L’atto con il quale la parte o il giudice invitano uno dei litiganti a giurare è chiamato dal legislatore deferimento. Esso concreta un atto di disposizione della posizione sostanziale, perché si fa dipendere la decisione sull’esistenza o l’inesistenza di esso da una dichiarazione solenne dell’avversario. Nel giuramento decisorio la parte cui il giuramento è deferito può a sua volta decidere di non giurare lei ma di invitare l’avversario a rendere lui il giuramento (riferimento del giuramento). Di solito la parte deferisce il giuramento quando sa non di poter riuscire a provare i fatti e quindi esercita una pressione sull’avversario. Quando una sentenza passata in giudicato risulta basarsi su giuramento decisorio accertato poi come falso alla parte soccombente compete solo un ristoro sul piano risarcitorio non potendo essa chiedere la revocazione della sentenza. Quando è deferito il giuramento suppletorio, il giudice decide la controversia senza applicare la regola dell’onere della prova oggettivamente intesa. Individua la parte a cui deferirlo secondo il criterio della semiplena probatio: ci deve essere una parte che si è avvicinata più dell’altra a dare la prova dei fatti che devono essere provati e gli ha provati al 75%. L’applicazione di questo criterio comporta inevitabilmente un apprezzamento discrezionale piuttosto ampio, del quale il giudice dovrà rendere conto motivando sull’esistenza di questi presupposti. DOMANDA COSTITUTIVA Con la domanda costitutiva si chiede al giudice di costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici (questo effetto si verifica con il passaggio in giudicato formale 2908 -2909 ma ci sono casi speciali, es. sentenza di fallimento, fin dal primo grado). Le domande costitutive sono tipiche. Anche per le sentenze costitutive vale la regola del passaggio in giudicato, salvo i casi eccezionali previsti dalla legge. La sentenza costitutiva viene definita necessaria quando le conseguenze giuridiche che con essa si producono non sono raggiungibili con l’esercizio dell’autonomia privata. La sentenza costitutiva contiene un

accertamento, e la posizione sostanziale accertata viene definita potestativa, perché al titolare spetta nei confronti nel giudice un diritto a che venga costituita, modificata o estinta una determinata posizione sostanziale. SENTENZA DI CONDANNA La sentenza di condanna contiene l’accertamento di un diritto di obbligazione e il suo effetto è quello di attribuire al creditore il potere di azione esecutiva, di procedere in esecuzione forzata. La sentenza di condanna è quindi un titolo esecutivo, il che significa che l’avente diritto è messo dall’ordinamento nelle condizioni di soddisfare la pretesa creditoria oggetto di quel titolo esecutivo coattivamente, cioè indipendentemente dall’adempimento volontario dell’obbligato, attraverso l’esecuzione forzata (se il legislatore dovesse chiamare un certo provvedimento “sentenza di condanna” ma non lo dotasse di efficiacia esecutiva, il nomen iuris non varrebbe = da qui il problema della condanna generica). (Ha altri 2 effetti che però non ne qualificano l’essenza).

GIURISDIZIONE Ha giurisdizione il giudice che appartiene alla branca dell’ordinamento giudiziario cui il legislatore attribuisce il potere di decidere in ordine alla situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio con una determinata domanda nei confronti di un determinato convenuto. Il difetto di giurisdizione può essere relativo, quando manca la giurisdizione del giudice civile, ma ne esiste una diversa, sempre di organi giurisdizionali dello Stato Italiano o assoluto, quando nessun giudice dello Stato Italiano può conoscere della controversia. Il giudice civile ha una giurisdizione residuale: ad esso compete la tutela dei diritti soggettivi che non rientrano in nessun’altra giurisdizione. In forza dell’istituto della translatio iudicii (che comunque riguarda solo gli organi giurisdizionali italiani) il processo pendente davanti ad un giudice carente di giurisdizione può essere riassunto

davanti al giudice cui compete il potere di decidere sulla domanda. E dato che si tratta di una continuazione dello stesso processo, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda inizialmente proposta e le prove raccolte conservano la loro efficacia. La legge, tuttavia, impone che si proceda alla riassunzione entro un termine perentorio, altrimenti il processo si estingue. Tradizionalmente si ritiene che il difetto relativo di giurisdizione possa essere rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Ma recentemente le sezioni unite hanno affermato che questo rilievo officioso è precluso in assenza di un regol. Il difetto assoluto, invece, è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo quando il convenuto è contumace. Se invece il convenuto si è costituito, l’eccezione deve essere sollevata da quest’ultimo, ma solo qualora non abbia precedentemente accettato la giurisdizione italiana espressamente o tacitamente. Per quanto riguarda i criteri in base ai quali va affermata la sussistenza della giurisdizione di un giudice italiano, anziché di quella di un giudice di uno Stato straniero, in materia civile e commerciale, la regola generale è quella per cui il convenuto il cui domicilio o la cui sede si trova nel territorio di uno Stato membro deve essere evocato in giudizio davanti ai giudici dello Stato del proprio domicilio o della propria sede. REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE Il regolamente di giurisdizione è il meccanismo procedurale con cui ciascuna delle parti può affidare alla Corte di cassazione il compito di risolvere la questione di giurisdizione che si è profilata nel corso del processo. Il ricorso per regolamento non postula che il giudice di primo grado si sia già pronunciato sulla questione, può essere proposto anche dalla parte che l’ha vista risolta a suo favore e non è soggetto ad alcun termine di proposizione: ecco perché non si tratta di una impugnazione. Vi è invece un limite temporale mobile: il ricorso è precluso se il giudice di primo grado ha già deciso la causa nel merito, anche con sentenza non definitiva. Il giudice davanti al quale pende la causa può sospenderne il corso se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Se, invece, sceglie di proseguire può trattare e decidere il merito della causa, ma i suoi atti saranno caducati se la Corte giungerà a negarne la giurisdizione. Il giudice davanti al quale la causa viene riassunta in forza dell’istituto della translatio iudicii, se si ritiene a sua volta carente di potere giurisdizionale può declinare la propria giurisdizione e adire la Corte (salvo ovviamente il caso in cui essa si sia già pronunciata sul punto).

COMPETENZA I criteri attributivi della competenza serv...


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