Appunti sull\'Apocalisse PDF

Title Appunti sull\'Apocalisse
Course Letterature comparate
Institution Università degli Studi di Milano
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Appunti di una parte del primo modulo...


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Bibbia di Gerusalemme 1- Occorre contestualizzare rapidamente nel tempo che fu il suo questo libello dal valore capitale. A tal fine occorre connetterlo anzitutto alla letteratura profetica ebraico-cristiana e per altro verso a quella apocalittica giudaica (che si dispiega lungo almeno 5 secoli di storia) e alla sola antecedente apocalisse cristiana. 2.- Dunque, quali furono i caratteri della letteratura profetica, che Ebrei e cristiani hanno in comune? Gli Ebrei e i cristiani recepiscono nello stesso modo la letteratura profetica? 3.- L’apocalittica, della quale nei grandi profeti scrittori più recenti vi sono robuste prefigurazioni, in che cosa si differenzia dalla letteratura profetica? Chi sono gli scrittori apocalittici? Perseguono fini comuni? Beninteso, fini didascalici comuni? La Bibbia abbraccia molti secoli di storia del popolo ebraico: i racconti in essa contenuti sono stati inizialmente tramandati oralmente finchè non sono stati trascritti attorno al periodo immediatamente precedente la caduta di Gerusalemme (587 a.C.). Percezione della possibile perdita di tale patrimonio conoscitivo. Eppure la Bibbia non è stata trascritta dalle figure alle quali sono attribuite le varie scritture: le narrazioni potrebbero basarsi su fonti dirette tramandate dai discepoli dei vari profeti, ma la loro sistematizzazione è successiva (V-VI secolo a.C.). Esegesi delle Sacre Scritture in continua evoluzione.

Ricordo alcuni snodi cruciali della storia di Israele, tra leggenda e fatti accertati, attenendosi alla Bibbia. Israele fu diviso alla fine della età dei patriarchi in 12 tribù, corrispondenti alla discendenza dei 12 figli dell’ultimo grande patriarca, Giacobbe. Ricordo solo alcuni nomi dei 12 figli : Ruben, Simeone, Gad, Levi, Giuseppe, Beniamino. Quando gli Ebrei, il popolo di Dio, divennero sedentari e si stabilirono nella terra di Canaan, dopo la morte di Mosè e sotto la guida di Giosuè, per alcune centinaia di anni furono organizzati in confederazione delle 12 tribù governate da una lunga serie di giudici (governatori: i fatti di questa lunga epoca si leggono nel biblico libro dei Giudici). Poi, dal 1000 a.C circa (un poco prima, in realtà), l’ordinamento politico divenne monarchico. Tutti ricordiamo i primi re: Saul, poi Davide, poi il figlio di questo, Salomone. Durante il regno di Davide, la città già esistente di Gerusalemme divenne la capitale nazionale e spirituale di Israele. Salomone costruì il Primo Tempio sul Monte Moriah di Gerusalemme. Tuttavia le tribù si stavano spaccando politicamente: alla sua morte, una guerra civile scoppiò tra le dieci tribù israelite del nord e le tribù di Giuda (quella di Simeone era stata assorbita da Giuda) e Beniamino a sud. La nazione si divise in Regno di Israele (che includeva la Samaria) a nord e in Regno di Giuda a sud. Nel Sud, molto più piccolo, continuò a regnare la dinastia davidica, Gerusalemme rimase capitale, il tempio fu centro della fede in Yahweh. Nel Nord capitale fu Tirza. Il regno del Nord ebbe un peso politico nell’area mesopotamica assai maggiore del regno del Sud, e fu assai più spesso coinvolto in vicende di guerre, anche molto sanguinose, di espansione, di forzata sottomissione ad altre potenze statuali-nazionali. Nel regno del nord furono attivi diversi profeti: Elia (c.a 850); Eliseo (c.a 800); Amos e Osea (c.a 750).

Anche nel regno del sud furono attivi diversi profeti: Isaia (c.a 750-700); Michea (c.a 750); Naum (c.a 660); Sofonia (c.a 630); Geremia (c.a 626-587); Ezechiele (c.a 593-571). Nell’uno e nell’altro regno vi furono re che cercarono di staccare lo stato dalla legge mosaica e di introdurre il pluralismo religioso. Questo accadde soprattutto nel regno di Israele, ma accadde anche nel regno di Giuda. I profeti lottarono sempre energicamente contro queste tendenze, cioè contro l’idolatria, che equiparavano alla corruzione/prostituzione. Il re di Giuda Giosia, nel 622 intraprese un'importante riforma religiosa in base al ritrovamento nel tempio di un "libro della legge" (verosimilmente il Deuteronomio o parte di esso, composto probabilmente da sacerdoti leviti provenienti dall'inviso nord e per l'accettazione del quale fu inscenato il ritrovamento). Il re babilonese Nabucodonosor mosse contro Giuda e conquistò Gerusalemme il 16 marzo 597. Deportò il re Ioiachin (598-597) e parte della classe dirigente del regno e nominò re Sedecia (597-587). Nonostante il parere contrario del profeta Geremia e di Baruc, che consigliavano realisticamente la sottomissione a Babilonia, Sedecia si ribellò contro Babilonia nel 589. Allora Nabucodonosor tornò in Giudea e conquistò Gerusalemme nel luglio-agosto del 587. Babilonia era sul territorio dell’attuale Siria, a un’ottantina di km dalla Damasco di oggi (Babilonia capitale del regno babilonese). Il tempio fu distrutto e gran parte della classe dirigente e della popolazione esiliata. Questo evento spacca in due la storia degli Ebrei, e lo stesso loro orizzonte religioso conosce mutamenti profondi. Malgrado si parli di cattività (prigionia-schiavitù) babilonese gli Ebrei riuscirono a mantenere la loro cultura e le loro tradizioni, tanto che immigrarono volontariamente a Babilonia parecchi Ebrei del regno del Nord, quello d’Israele. Gli Ebrei di Babilonia usavano due lingue, l’ebraico e l’aramaico; questa seconda fu la lingua ufficiale del regno babilonese. Nel 539 a.C. Ciro, re dei Persiani, conquistò Babilonia. Uno dei primi provvedimenti del re (538) fu quello di permettere il ritorno in patria delle popolazioni forzatamente esiliate dai Babilonesi, tra le quali anche i Giudei. Alcuni tornarono, altri restarono nel territorio babilonese. Attorno al 520-515 fu terminata la ricostruzione del tempio di Gerusalemme. In questo periodo furono attivi i profeti Aggeo, Gioele e Zaccaria che testimoniano la forte speranza messianica di una restaurazione della monarchia nella figura di Zorobabele, speranza poi non adempiuta. Il fatto che questa speranza non ebbe inveramento, non si tradusse in accadimento storico concreto, questo fatto fu una sorta di gocciolina che fece traboccare il vaso. L’era profetica si chiuse per sempre mentre prese a ad affermarsi la letteratura apocalittica, all’interno della quale si collocano le redazioni delle diverse apocalissi, fino al II secolo d.C. Cosa è la letteratura profetica? Ricordo che i profeti più antichi vennero tramandati oralmente e le loro parole furono messe per iscritto nell’era degli scribi. Dopo i più antichi fu la volta dei profeti-scrittori. Questi o scrissero direttamente la parola di Dio da proclamare (non da interpretare!) oppure la parola da loro proclamata fu scritta da seguaci, discepoli ecc. Veniamo ai caratteri distintivi della profezia e del profetismo ebraico: il profeta è presente nella vicenda storica, ne è protagonista, è calato profondamente nella realtà concreta, fattuale. Soprattutto, crede che la soluzione del dramma presente sia intra-storica: promette che in tempo di debolezza politica, di assedio, di paura, di carestia, se si sarà fedeli all'ideale prescritto dalla legge di Mosè, o se si seguiranno gli ordini dati dal profeta, le cose cambieranno in meglio. Egli bacchetta non solo il popolo ma anche il re. I profeti sono un dono

di Dio al popolo. I profeti non detenevano il potere, spesso non erano sacerdoti, e non avevano alcun ruolo ufficiale. Sovente erano impopolari e inascoltati. L’unica eccezione chiara è Giona, che si rivolgeva però a dei non-ebrei, i cittadini di Ninive. Eppure il messaggio dei profeti è diventato uno degli elementi maggiormente caratterizzanti del Tanakh. Tanakh è l'acronimo con cui si designano i testi sacri dell'ebraismo (i cristiani parlano invece di Bibbia ebraica). La loro critica sociale ha un profondo valore ancora oggi. Mentre il potere di un re si esaurisce quando muore, l’influenza del profeta inizia con la sua morte. I profeti non predicevano il futuro anche se ogni tanto qualche predizione non generica viene da loro fatta a una persona determinata. Il mondo antico era popolato da personaggi che predicevano il futuro, ma la Torah, la legge mosaica, vieta questa pratica con veemenza. Non crede in queste pratiche perché crede nella libertà dell’uomo. Il futuro non è “scritto”, dipende dalle nostre scelte. Una previsione che si realizza è una previsione riuscita, ma una profezia che si avvera è un fallimento. Il profeta descrive il futuro che verrà se non percepiamo il pericolo e non ci ravvediamo. I profeti sono stati i primi a vedere Dio nella storia. Vi sono tanti modi di concepire il tempo, quello ciclico, quello lineare, come inesorabile sequenza di causa ed effetto, il tempo come sequenza di eventi; queste concezioni dominano la biologia, la fisica, gli studi storici. I profeti hanno visto nel tempo l’arena dove si svolge il dramma del rapporto fra Dio e l’umanità, in modo particolare il popolo eletto, Israele. Se Israele avesse tenuto fede alla sua alleanza con Dio, sarebbe fiorito, mentre se fosse venuto meno all’impegno, avrebbe patito la sofferenza e l’esilio. Anche l’annunzio di un messia a venire è inteso dai profeti come annunzio di un rettificatore concreto, storico, che opererà eticamente e politicamente. Essi non sviluppano una teologia propria, ma si collocano nell’alveo delle tradizioni religiose d’Israele, che presuppongono, e a cui fanno riferimento. L’aspetto determinante per i profeti, rapportandosi ai destini dell’umanità, non è la forza di Dio, ma la Sua giustizia. L’ultima grande intuizione profetica è quella del primato dell’etica sulla politica. I profeti parlano molto raramente di politica, ma sanno una cosa, che la forza di Israele non dipende da fattori militari o demografici, ma da aspetti morali e spirituali. L’era messianica riceve descrizioni sommarie da parte dei profeti. In ogni caso viene descritta come un’era di pace, mediante immagini efficaci: l’agnello starà accanto al lupo, il cerbiatto accanto al leone. In questo contesto irenico Dio farà sì che tutte le nazioni del mondo vengano sottomesse a Israele, al popolo eletto. Abitualmente si afferma che l'apocalittica si sostituisce alla profezia nel momento in cui viene meno una realistica speranza di dare risposta storica alle promesse dei profeti. Le condizioni della nazione, come s’è anticipato ieri, si facevano sempre più critiche: dopo il crollo di Gerusalemme (586 a. C.) e l'esilio babilonese, avvenuti secondo i profeti per punire la condotta del popolo, i rimpatriati si eran dati premura di ricostruire su basi puramente jahvistiche una nuova nazione. Questa, ammaestrata dalle dolorose esperienze del passato, si sarebbe mantenuta fedele a quel Dio, Jahvè, che nel passato le aveva continuamente promesso, per bocca appunto dei profeti, non solo ogni gloria e prosperità terrena quale premio della sua fedeltà, ma anche e soprattutto il trionfo di quel Messia che sarebbe uscito dal popolo giudaico per trionfare su tutte le nazioni della terra. Tuttavia, nulla di ciò ancora avveniva: la Palestina era passata dall'alto e remoto dominio dei Persiani a quello più vicino dei Tolomei, poi a quello dei Seleucidi fattosi sempre più pesante fino a divenire insopportabile sotto il re Antioco Epifane; infine era venuta la ferrea potenza di Roma. Al di sotto, poi, di queste successive oppressioni non si scorgeva alcun vago preannunzio del Messia liberatore. Ma v'era anche

qualcosa di peggio: col passar degli anni la compattezza etnografica e religiosa della nazione si dissolveva sempre più sotto l'azione dell'ellenismo il sincretismo (mescolanza) culturale creatosi sotto il dominio di Alessandro il Macedone. Alessandro aveva lasciato che la cultura greca, che era stata anche la sua, si “mischiasse” con elementi delle culture asiatiche e mesopotamiche. L’ellenismo dopo aver premuto con limitata efficacia per alcune decine d'anni, era riuscito - verso i tempi dello stesso Antioco - a sfondare gli argini della nazione e ad inondarla. In tali circostanze come spiegare i disegni di Dio? Come spiegare la dilazione del mantenimento delle sue promesse riguardo alla nazione? Insieme con questa sorgeva un'altra angosciosa domanda, ad essa affine e in qualche modo collegata. Non solo l'intera nazione soffriva, in modo apparentemente inspiegabile, ma anche i suoi membri, specialmente i più pii, erano quasi sempre dei giusti tribolati. Di qui il terribile problema dell'origine e giustificazione teologico-morale del dolore angoscioso sperimentato dall'individuo giusto. Anche questo problema, che del resto è così spontaneamente umano, aveva avuto nella precedente letteratura giudaica trattazioni o fugaci (Geremia, varî Salmi, ecc.) o fondamentali (Giobbe); ma esso fu ripreso ai tempi della fioritura apocalittica con nuova passione, e discusso sotto nuova luce: si cercò cioè di spiegare, nel bel mezzo delle circostanze storiche sempre più sfiducianti, di rispondere alla domanda terribile: ma che vantaggio c'è ad essere giusti, se il giusto soffre come e più degli altri? L'apocalittica in un certo senso interviene nel momento in cui l’attesa della risposta storica alle promesse dei profeti ha perso interesse, se non in tutto in parte. La risposta data alla nuova duplice domanda, sociale (ma come spiegare allora i disegni di Dio?) e individuale (perché il dolore, e soprattutto il dolore del giusto?), mentre da una parte confermò le antiche promesse messianiche, ribadendole anzi con molti nuovi argomenti che a qualcuno sembrano artificiosi; dall'altra parte invece, riguardo cioè alla delimitazione del tempo messianico e di quello escatologico, andò a ritroso dalle febbrili attese fino allora alimentate, e proiettò questo doppio avvenimento in un imprecisato futuro. Certamente, dal punto di vista storico, i momenti di produzione letteraria apocalittica sono stati quelli più drammatici e cruciali per la storia d’Israele tutto. Ripetiamolo: l’epoca del post-esilio, successiva cioè alla crisi dell’esilio babilonese; il periodo ellenistico, in particolare gli anni della persecuzione dei Giudei ad opera del sovrano seleucide Antioco IV Epìfane (175-164 a.C.); infine gli anni che seguirono la distruzione del tempio nel 70 d.C. da parte dei Romani. Dal punto di vista letterario, le origini dell’apocalittica possono essere trovate nella profezia veterotestamentaria: l’AT è pertanto il primo ambito in cui rintracciare la presenza dell’apocalittica. La catastrofe dell’esilio babilonese, caratterizzata soprattutto dalla caduta della monarchia, dalla perdita dell’indipendenza politica e dalla distruzione voluta da Nabucodonosor del tempio di Gerusalemme e gli altri duri eventi successivi prima ricordati, hanno comportato, hanno generato, la messa in questione della possibilità di una salvezza all’interno della storia. Nella profezia classica il giudizio divino sui peccati del popolo ha in vista una conversione, un mutamento etico da viversi nella storia, ed è così anche nei profeti Geremia ed Ezechiele, in cui però si acuiscono i toni pessimistici circa la possibilità umana di un mutamento e si formula la speranza di una novità, un novum, certamente ancora intrastorico, ma che Dio stesso opererà: è la «nuova alleanza» che Dio stipulerà (Ger 31, 31-34), è lo “spirito nuovo” che Dio metterà nei cuori dei figli d’Israele (Ez 36, 26). Soprattutto in Ezechiele si fa strada una scrittura che prelude o già sconfina nell’apocalittica: visioni, simboli e immagini pittoresche (Ez 1-3; 37), descrizione visionaria del tempo futuro che esprime la speranza dell’Israele nuovo e ideale (Ez 40-48). Molti temi e simboli che saranno correnti nelle apocalissi successive (anche

nell’Apocalisse giovannea) si trovano nella profezia di Ezechiele: i quattro esseri animati (Ez 1, 4ss.); la figura dalle sembianze umane assisa su un trono di zaffiro, posto su un firmamento simile a cristallo splendente (Ez 1, 26-28); il rotolo scritto su un lato e sull’altro e la sua manducazione (è masticato e inghiottito) da parte del profeta (Ez 2, 8-3, 3); Gog e Magog (Ez 38-39); il tempio e la sua misurazione (Ez 40,1ss); la presenza dell’angelo mediatore che spiega la visione al profeta (Ez 40,3ss.) ecc. La fede nella forza della parola di Dio fa sì che in Israele le profezie antiche, che non si sono ancora storicamente compiute, non vengano abbandonate, ma rilette nelle nuove situazioni storiche, magari da discepoli di quegli stessi profeti che le avevano pronunciate, e vengano proiettate in un futuro ancora più lontano, alla “fine dei giorni”. Ripetiamolo ancora una volta: il 587 a.C., data della caduta di Gerusalemme, costituì un punto di svolta nella storia d’Israele. La nazione giudaita, cioè quella che più intensamente aveva rappresentato la cultura e la religiosità degli Ebrei, aveva ricevuto un colpo terribile da cui sarebbe stato molto difficile risollevarsi. In concreto, si formarono due corpi etnico-culturali, quello degli esiliati a Babilonia (golah) e quello dei rimasti in patria. Dalla data fatidica della caduta di Gerusalemme (il 587 a.c.) la letteratura profetica prende a decadere. La mancanza dei profeti, dei grandi animatori di masse, propugnatori dello schietto antico jahvismo contro le infiltrazioni allogene e sincretistiche, fu sentita profondamente da coloro che rimanevano fedeli alle antiche idee, e nei momenti di maggiore perturbamento sociale cercavano inutilmente dattorno a sé per vedere chi le rappresentasse con l'antica potenza. Durante uno di questi periodi critici, infatti, un pio poeta esclama: "Le nostre insegne noi non vediamo; non c'è più profeta, né c'è tra noi chi sappia fino a quando (ciò perduri)". (Salmo, LXXIV [Vulg., LXXIII], 9; cfr. anche I Maccab., IV, 46; IX, 27; XIV, 41). Ai profeti subentrano gli scribi, una casta sacerdotale priva del carisma. Il profeta, animatore delle masse, era stato una fonte di acqua viva. Lo scriba ordinava e riduceva a sistema il materiale accumulato dall'altro. Parallelamente sorgono le prime manifestazioni della letteratura apocalittica. Essa trae forte impulso dagli scritti del profeta Geremia, considerato precursore forte dell’apocalittica. Mentre i profeti ricevono il messaggio divino in forma di parole e con le parole lo trasmettono al popolo, gli apocalittici hanno (scrivono di avere avuto) rivelazioni molto misteriose che ricevono in sogno o durante un rapimento estatico. Gli antichi profeti predicavano alle persone del loro tempo e i profeti scrittori mettevano per iscritto le loro profezie. Gli apocalittici, invece, compongono un’opera letteraria in cui il messaggio - il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori - non è trasmesso a parole, come nei profeti, ma per mezzo di immagini che sgorgano copiosissime, in modo barocco, se è lecito l’anacronismo attualizzante, che hanno un fortissimo impatto visuale e che devono essere interpretate. L’arco di tempo coperto dai testi apocalittici giudaici copre quasi mezzo millennio: dal V/IV sec. a.C. alla fine del I sec. d.C. La letteratura apocalittica, si badi bene, non si è manifestata solo in ambiente ebraico e in ambiente cristiano (e si tenga presente che alcune non sono state accolte nel canone). Sono esistite anche apocalissi persiane e gnostiche (https://www.cjconroy.net/pr-it/pr6ap-i01a.htm) Tutto quel che siamo venuti dicendo implica che delle Apocalissi possa fornirsi una definizione formale come di macro-genere letterario e una definizione contenutistica, come di testi in cui si trovano nuclei tematici persistenti e ricorrenti nei quali si sostanzia un dato complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori. Ma che vuol dire Apocalisse? “Apocalittica” è termine coniato in Germania agli inizi del XIX sec. per indicare una serie di scritti giudaici che

presentavano somiglianze con l’Apocalisse giovannea (dalla quale pertanto proviene il vocabolo) e che erano ad essa all’incirca coevi. È dunque un vocabolo moderno e sconosciuto agli antichi e agli stessi autori dei libri cosiddetti “apocalittici”. L’ultimo libro del NT, l’Apocalisse fino ad alcuni decenni or sono attribuita erroneamente a Giovanni apostolo si ricollega per genere letterario ad un gruppo di scritti denominati “apocalittici”, alcuni appartenenti all’AT, altri esterni alla Bibbia. Il termine italiano “apocalisse”, proveniente dal latino apocalypsis, a sua volta derivato dal greco apokàlypsis (col solo cambio dell’accento), indica l’atto di “togliere ciò che nasconde”, “scoprire”, “...


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