Beltrani - Gli strumenti della poesia PDF

Title Beltrani - Gli strumenti della poesia
Author Alessia Feola
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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Gli strumenti della poesia...


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P.G. BELTRAMI GLI STRUMENTI DELLA POESIA

I. PERCHE’ STUDIARE LA METRICA: UN’INTRODUZIONE 1. A cosa serve la metrica. La metrica non comunica alcun significato di tipo linguistico: ogni concetto linguisticamente comunicabile potrebbe essere espresso in qualsiasi forma metrica, e anche in prosa. Ma il testo poetico è fatto inestricabilmente di ciò che si dice e di come si dice; è quella forma e non un’altra che ne costituisce la compiutezza e la ricchezza di significato. La metrica è parte fondamentale, anche se non esclusiva, degli aspetti formali. A. Regole metriche e stile dei poeti. Conoscere la metrica nelle diverse situazioni storiche significa conoscere i margini entro i quali il discorso poetico effettivamente si muove, distinguere ciò che si spiega con una regola da ciò che si spiega con lo stile personale di un autore. Significa anche, distinguendo, mettere in relazione i due aspetti: capire che musica suona un poeta tenendo conto dello strumento che ha. B. Metrica e musica. Il rapporto fra metrica e musica nasce storicamente dal fatto che in origine i testi in versi erano tali perché erano testi per musica: si pensi quante volte la poesia è stata detta canto, anche quando non era per musica, e quante volte è stata effettivamente cantata. Le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica; ma la metrica, come la musica, organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni, mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora. C. Metrica e poesia. È bene ricordare che poesia e versificazione non sono la stessa cosa: la versificazione è un fatto tecnico, che riguarda certe caratteristiche formali del discorso; la poesia è invece un concetto culturale molto più complesso, che riguarda il discorso nel suo insieme, si può applicare al discorso anche indipendentemente dalla sua forma, e non si applica necessariamente solo a discorsi. La metrica si occupa dunque della versificazione, cioè di tutti i discorsi in versi, poetici o meno; ma bisogna pur dire che al centro dei suoi interessi sono proprio i testi che appartengono alla storia della poesia. Si può dire allora che la metrica studia la poesia negli aspetti che rendono il discorso in versi differente dal discorso in prosa: definisce le regole che gli autori hanno rispettato più o meno consapevolmente, descrive le strutture formali del discorso in versi, esamina il mutare delle regole e delle forme nella storia, in connessione con gli altri aspetti della storia della cultura letteraria. Sia sotto il profilo descrittivo, sia sotto il profilo storico, si possono indicare due limiti estremi di interesse, fra i quali la metrica si colloca: da un lato lo studio linguistico, dall’altro quello stilistico, nel quale i risultati dell’indagine metrica vengono posti al servizio di una piena comprensione del testo poetico. 2. Le buone maniere dei poeti. Paradossalmente manifestare la propria libertà dalle regole è diventa per il poeta del Novecento una specie di regola, forse l’unica che si può dire davvero codificata. Tra secondo Ottocento e primo Novecento si è compiuto nella poesia occidentale un profondo cambiamento di prospettiva, tale che le forme tradizionali non sono più state riutilizzabili se non in modo critico e sempre con qualche libertà, manifestando il senso di una distanza che si potrebbe cancellare solo per ingenuità. Ciò vale anche per l’uso polemico che della metrica tradizionale si è pure fatto, per es. da parte di Saba nella prima parte della sua produzione, o per l’uso comunque marcato che ancora se ne fa talvolta, come segno di distinzione nei confronti della via maestra della poesia contemporanea. Mentre prima un testo con un endecasillabo o con una rima irregolari sarebbe stato considerato frutto di un’imperizia imperdonabile, nel Novecento un testo in versi con le sillabe ben contate e tutti gli accenti e le rime 1

al loro posto desterebbe un poco di sospetto, se non mostrasse che quella regolarità è frutto della libertà del poeta. Se è vero che un endecasillabo è sempre un endecasillabo, che lo scriva Petrarca, Leopardi o Montale, ben diverso è di volta in volta il suo valore nel contesto in cui esso viene scritto e recepito. Petrarca codifica l’esperienza metrica del Duecento e di Dante, forgiando uno strumento poetico che non tanto nel Trecento, ma nel Quattrocento e soprattutto a partire dal primo Cinquecento verrà assunto come un modello dal quale non ci si deve discostare. Per Leopardi, l’endecasillabo ha regole semplici e precise, l’inosservanza delle quali produrrebbe semplicemente versi sbagliati. Montale, nella cui poesia l’endecasillabo ha un posto di grande rilievo, vive però nel pieno dell’esperienza del verso libero: la forma regolare è per lui una scelta sempre praticabile, ma anche sempre re covabile, ed egli può permettersi, in contesti di endecasillabi, versi che un tempo si sarebbero detti sbagliati; errata sarebbe per lui l’adesione rigorosa alla forma codificata del verso, tanto quanto sarebbe per Leopardi l’inosservanza delle regole. Ecco perché la metrica non può essere studiata al di fuori della storia. 3. Un repertorio terminologico. Nell’esperienza comune studiare la metrica significa anche impadronirsi di una terminologia complessa e non priva di ambiguità, a causa della stratificazione storica dei concetti e delle parole che li designano. Il linguaggio della metrica forma una sorta di griglia per la descrizione dei testi e per la comprensione di ciò che in essi ha rilievo dal punto di vista metrico. A. Che cosa è un verso. Fin quando non si è affermata la versificazione libera, si poteva dire che il verso è un segmento di discorso organizzato secondo determinate regole. Nella versificazione libera, il verso ha sì una sua struttura, che si può descrivere, ma non dipende da un modello, e il lettore non ha un termine di confronto per identificarlo: la disposizione sulla pagina diventa qualcosa di paragonabile ad uno spartito musicale, indispensabile al lettore per identificare il verso e interpretarne la struttura. I due tipi di versificazione possono però essere trattati insieme perché hanno in comune il tratto più generale: il principio secondo il quale il discorso è scandito non solo in segmenti sintattici, cioè in frasi, in unità di senso, ma anche in segmenti non sintattici, cioè in unità non motivate dal significato. In altre parole, il discorso in versi possiede una scansione puramente formale, la cui caratteristica più generale è di essere indipendente dalla struttura sintattica. Si può allora definire il verso come l’unità di base della scansione del discorso in versi, e più precisamente come l’unità minima che può teoricamente costituire da sola un discorso in versi compiuto. In concreto, può trattarsi di una serie di sillabe strutturata secondo determinate regole, come avviene in tutta la versificazione tradizionale; oppure di una serie di sillabe liberamente formata, che viene presentata al lettore come un verso in un contesto culturale nel quale ciò è ammissibile, come avviene nell’epoca della versificazione libera. Nell’assoluta normalità dei casi il verso è veramente tale in una sequenza, nella quale è in rapporto con altri versi; tuttavia, come si è visto, esso è concepibile e analizzabile anche in isolamento. B. Che cos’è una strofa. La sequenza di versi può essere ininterrotta, dall’inizio alla fine del testo, oppure articolarsi in strutture intermedie, alle quali si dà il nome di strofe. La struttura strofica è propria normalmente dei testi in rima: con rima si intende l’identità di suono della parte finale di due versi dall’ultima vocale tonica compresa. Le forme strofiche della tradizione sono per lo più strutture di versi con un determinato schema di rime: - il distico, 2 versi, rimato AA BB CC …; - la terzina, di 3 versi, rimata ABA BCB CDC …; - la quartina, di 4 versi, rimata ABAB o ABBA, o AAAA; - la sestina, rimata ABABCC; - l’ottava, rimata ABABABCC. 2

Una strofa può essere senza rima, ma essere identificata dalla successione regolare di più tipi di versi, per es. 3 endecasillabi e un quinario nella forma della strofa saffica. Può anche consistere di versi tutti uguali, per es. 4 endecasillabi sdruccioli, in una delle forme usate da Carducci per imitare la strofa asclepiadea latina. Anche i testi di struttura libera si dividono frequentemente in strofe, che in questo caso sono sezioni del discorso segnalate dal poeta al lettore con la divisione grafica. A rigore, sarebbe preferibile definire forma strofica solo quella in strofe dello stesso numero di versi, composte degli stessi tipi di versi nello stesso ordine, e, se rimate, con lo stesso schema di rime, e in cui la strofa è un’unità di discorso autonoma. In questo caso si direbbero forme strofiche, per es., la canzone, la ballata pluristrofica, l’ottava rima. Nell’uso comune, si dicono però forme strofiche tutte quelle che sono analizzabili in strofe secondo una struttura regolare. C. Metro e ritmo. Il ritmo, nel senso più generale, è il disporsi nel tempo di elementi riconoscibili e significativi, che nel caso della metrica italiana sono sillabe toniche e atone, suoni uguali, misure sillabiche, o configurazioni di tutti questi elementi, che si dispongono nel tempo reale della dizione o nel tempo virtuale della lettura mentale. Il metro è la norma entro la quale il ritmo si realizza. Nella poesia regolare, è l’insieme degli elementi e delle regole che definiscono un modello. Nella poesia libera non opera un modello definito, ma un progetto individuale per ogni testo, e perciò in senso stretto il metro si riduce al fatto che il discorso si articola in versi; però anche in essa si possono in genere riconoscere regolarità metriche, che spesso consistono nella libera rielaborazione di forme metriche tradizionali. D. Prosodia. I fatti metrici sono essenzialmente di due tipi, e si possono vedere distribuiti su due livelli: da un lato le strutture testuali, o forme metriche, e le regole che in ogni epoca presiedono alla loro composizione; dall’altro, tutto ciò che riguarda gli elementi di suono che formano il verso e lo mettono in relazione con altri versi, cioè le regole della versificazione riconducibili alla fonetica. A questo secondo livello si può dare il nome di prosodia. Nella metrica classica, prosodia designa l’insieme delle regole riguardanti la quantità delle sillabe e la combinazione delle sillabe lunghe e brevi in piedi, metri, versi. E. Un catalogo di forme. Al livello superiore, la metrica può essere vista come un catalogo di forme che nelle varie epoche sono disponibili ai poeti. Mettere ordine in questo catalogo è una necessità ricorrente. Un utile criterio formale è quello avanzato da Bembo nelle Prose della volgar lingua, edite nel 1525; egli distingue le rime in: - regolate, cioè di struttura fissa (cita la terza rima, l’ottava rima, la sestina lirica); - libere, cioè di struttura liberamente variabile (il madrigale, nella forma che si impose nel Cinquecento); - mescolate, cioè sottoposte ad alcune regole, osservate le quali la struttura è variabile (il sonetto, la canzone e la ballata). a. Forme regolate. Una prima categoria di forme è costituita da quelle per cui valgono precise regole strutturali, che lasciano però un margine più o meno ampio di libertà all’autore che le adotta. Nella canzone petrarchesca e nella ballata le strofe hanno una struttura determinata e devono corrispondere tutte allo stesso schema, ma osservando le regole si possono costruire strofe molto diverse fra loro e il numero delle strofe di un testo è variabile. Anche l’endecasillabo sciolto, cioè l’endecasillabo in serie continua senza rima, va catalogato con queste forme, perché il fatto che i versi siano tutti senza rima è d’obbligo, come pure che siano tutti endecasillabi. b. Forme fisse. 3

In nessuna forma metrica l’autore resta totalmente privo di qualche margine di libertà, ma alcune presentano uno schema molto vincolante, nel quale è preordinata la dimensione totale del testo. Assumendo questo criterio, forma fissa per eccellenza nella metrica italiana è il sonetto, nel tipo normale di 14 versi con una scansione interna in due parti di 8 e di 6, e normalmente in due quartine e due terzine. Si può anche adottare un diverso concetto di forma fissa, dando meno peso alla dimensione fissa del testo, e considerando piuttosto il fatto che lo schema sia precostituito e assunto dall’autore perché gode di prestigio. In questo diverso senso si possono considerare forme fisse non solo la terzina dantesca e l’ottava rima, ma anche certi schemi come la strofa saffica, che ha una fortuna ricorrente nella poesia italiana. c. Forme libere. Le forme libere sono quelle affidate alla libera inventività degli autori. Anche la libertà, comunque, è sempre relativa, se si esclude il caso della versificazione libera moderna. Alle forme libere si è data giustamente nuova attenzione in manuali recenti. Esiste dal Cinquecento all’Ottocento un’ampia tradizione di forme senza schema, con rime liberamente disposte: la forma breve del madrigale cinquecentesco, quella lunga adottata nel dramma pastorale e nella versificazione teatrale in genere, nell’idillio narrativo secentesco, nel melodramma; nel Seicento questa forma di discorso libero si introduce anche nella canzone; a tutta questa tradizione attinge Leopardi con la sua canzone libera. Altra forma libera è la polimetria, cioè la commistione di più misure metriche nel testo, o con l’alternanza libera di versi di vario tipo. F. Metrica e generi letterari. a. Generi poetici e forme metriche. Un altro aspetto da considerare è il rapporto tra forme metriche e generi letterari, che può essere visto nelle due direzioni: quali forme metriche sono considerate adatte a un determinato genere letterario? A quali generi letterari è considerata adatta una determinata forma metrica? Qualche esempio relativo al primo aspetto, col solo scopo di portare il fatto all’attenzione: il poema di vasto impegno dal Trecento al Cinquecento si scrive in terza rima o in ottava rima, con larga preferenza per la seconda nel tipo narrativo, epico, romanzesco; dal Cinquecento nasce una terza possibilità, l’endecasillabo sciolto, la cui affermazione è fortemente contrastata, nel poema narrativo, dall’ottava, e passa dapprima attraverso la poesia didascalica e le traduzioni. Per Dante la poesia lirica si esprime nella canzone, nella ballata e nel sonetto; Petrarca lascia con il suo un modello di canzoniere che comprende le tre forme e in più la sestina e il madrigale che si imporrà rispetto a modelli di raccolte assai più eterogenee come quella del Sacchetti. b. Forme liriche e forme discorsive. Mentre un genere letterario predilige per lo più un ventaglio ristretto di forme, talvolta una sola, non si può dire che l’uso di una forma metrica sia limitato a un solo genere. Tuttavia si può porre almeno una distinzione: una parte delle forme è propria piuttosto della poesia lirica, le altre piuttosto della poesia discorsiva. Forme liriche sono quelle istituzionalmente brevi, dotate di una certa compattezza stilistica e tematica, non narrative se non per eccezione, ma dedicate a temi amorosi, morali, politici, d’occasione, d’intrattenimento. Originariamente sono destinate al canto, ed in effetti è tutta di canzoni, nel senso di testi da cantare, la poesia delle corti europee da cui prende le mosse la prima scuola poetica italiana, cioè la poesia dei trovatori provenzali. Se la poesia dei Siciliani e dei poeti toscani del Duecento fosse musicata o meno è questione controversa. Per un certo tempo ha prevalso nettamente la tesi del divorzio tra musica e poesia, e si sono indicate come caratteristiche specificamente italiane la separazione netta tra musico e poeta, e la maggiore complessità dell’architettura delle strofe e dell’articolazione sintattica, che dipenderebbero dal fatto che la poesia è pensata in funzione del testo, e musicabile solo in un secondo tempo e non necessariamente. Forma tipicamente estranea alla musica è stato detto il sonetto. In anni recenti ha 4

invece cautamente riguadagnato terreno l’idea che anche la poesia dei Siciliani fosse musicata, come storicamente è più verosimile, ma non suffragabile da prove certe, perché in ogni caso non sopravvivono melodie. Sono forme liriche la canzone in tutte le forme assunte nel tempo, la ballata, il sonetto, il madrigale, lo strambotto o rispetto. Forme discorsive sono quelle lunghe della poesia narrativa, epica, didascalica: il distico, la quartina monorima di alessandrini del Duecento, la terza rima, l’ottava rima, l’endecasillabo sciolto. Alle origini anche la poesia epica romanza, quella delle chansons de geste francesi, era destinata ad un’esecuzione cantata, o meglio cantilenata, come ancora sono i Cantari del Trecento-Quattrocento, ma in questi generi la destinazione alla lettura senza musica si fa strada precocemente. Tra forme liriche e forme discorsive esistono ampie zone di sovrapposizione: la poesia italiana, distinguendosi dalla poesia francese e provenzale da cui ha preso i primi modelli, ha infatti adottato per la poesia discorsiva forme derivate dalla poesia lirica. Le forme della poesia discorsiva delle origini, in accordo con le forme correnti nella poesia discorsiva francese e provenzale non incrociano mai le rime. L’incrocio delle rime è invece un tratto della poesia lirica. Le due forme istituzionali della poesia discorsiva italiana a partire dal Trecento, terza rima e ottava rima, entrambe di origine controversa, rimandano a forme liriche: per la terza rima un modello possibile è sì il serventese caudato, ma altrettanto importante è il modello offerto dalla seconda parte del sonetto; per l’ottava rima si può pensare, con argomenti diversi, alla strofa della canzone o della ballata, che per questo discorso sono equivalenti. 4. Metro e sintassi. Si è visto che le norme metriche sono di tipo non sintattico; conseguentemente, il modo in cui la struttura sintattica è articolata rispetto alla struttura metrica, soprattutto per quanto riguarda la coincidenza o non coincidenza tra fine del verso e fine della frase, può essere considerato un fatto di stile, non vincolato da regole precise. Il termine più comune per designare la mancata coincidenza fra unità sintattica e limite di verso è enjambement. Il termine è francese perché nella poesia francese classica era diventata una norma di stile che unità metrica e unità sintattica coincidessero, e la trattatistica francese nel Seicento se ne occupa ampiamente: mutuati da questa sono anche i termini di rigetto per la parte breve di unità sintattica spezzata che si collochi nel secondo verso, e contro rigetto, per la parte breve che invece si collochi all’inizio del primo verso. In Italia, non c’è mai stato un vero rifiuto dell’enjambement; anzi nell’endecasillabo sciolto, che si afferma dal Cinquecento in Italia, l’enjambement appare necessario per dare sostenutezza al discorso evitando cadenze prosastiche.

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II. CONTARE LE SILLABE 1. Perché si contano le sillabe. Nella metrica italiana due versi sono dello stesso tipo se hanno lo stesso numero di sillabe. La sillaba è una nozione linguistica complessa, ma per quello che qui importa ci si contenterà di definirla come una unità ritmica della catena parlata, e precisamente l’elemento minimo che in condizioni normali può essere pronunciato da solo; sempre in condizioni normali, è costituita almeno da una vocale, preceduta o seguita, non obbligatoriamente, da consonanti o semiconsonanti. La caratteristica dell’italiano per cui il numero delle sillabe è l’elemento costitutivo del verso è che le sillabe sono percepite come se fossero tutte uguali per durata. Due parole sono sentite lunghe uguali se contengono lo stesso numero di sillabe, non lo stesso numero di fonemi. 2. Il principio del sillabismo italiano. Il concetto di sillabismo, valido per la metrica italiana è il seguente: due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa posizione, indipendentemente dal fatto che essa sia l’ultima, o sia seguita da una o più sillabe atone. In altre parole, per stabilire il numero di sillabe di un verso si contano le sillabe fino all’ultima tonica. I casi normali sono tre: - che dopo l’ultima tonica ci sia ancora una sillaba atona, cioè il verso abbia uscita piana (verso piano); - che il verso termini c...


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