Strumenti della poesia PDF

Title Strumenti della poesia
Author Anonymous User
Course Letteratura italiana
Institution Sapienza - Università di Roma
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appunti sul libro "strumenti della poesia" di G. Beltrami...


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LA RIMA La rima  l’identit di suono della parte finale di due o pi parole, a partire dalla vocale tonica compresa, o di due o pi versi, a partire dall’ultima vocale tonica compresa. Il termine rima deriva, attraverso il francese antico “risme”, “rime” e il provenzale “rim” o “rima”, dal latino “rhythmus”, che nella poesia latina medievale designa le forme che non rispettano pi la metrica quantitativa classica, ma si fondano sul numero delle sillabe, sull’accento e sulla rima. A. Funzione demarcativa Fino al Cinquecento, la poesia senza rima  poco meno che inesistente: la rima  stabilmente associata alla fine del verso, necessaria quanto l’esattezza del computo sillabico. In queste condizioni essa ha una funzione demarcativa, cio che favorisce la percezione della divisione in versi: gli eventuali versi senza rima sono inseriti come rime di grado 0, per le quali ha senso il termine “rima irrelata”. B. Funzione strutturante La disposizione delle rime  uno degli elementi di maggiore rilievo nella costruzione di strutture strofiche.  - La rima baciata ha la forma AA BB CC... La forma strofica pi direttamente collegata con questo tipo di rima  il distico. La rima di tipo AA... pu. essere continuata lungo tutta una strofa, che si dice monorima; il caso pi rilevante  la quartina monorima AAAA BBBB CCCC ...  - La rima alternata ha la forma ABAB CDCD EFEF...; nella forma pi semplice si usa nella quartina. La rima alternata per 8 versi ABABABAB d luogo ad un’ottava siciliana. Se gli ultimi due versi sono a rima baciata, ABABABCC, lo schema si dice ottava toscana. Se i versi a rima alterna sono 4, ABABCC, lo schema si dice sestina.  - La rima incrociata ha la forma ABBA CDDC EFFE...; anche questa  usata in quartine. Due quartine a rima incrociata con le stesse rime ABBA ABBA formano la prima parte del secondo e pi diffuso dei due tipi del sonetto.  - La rima incatenata  lo schema della terza rima o terzina dantesca: ABA BCB CDC...  - Rima costante  quella che collega tutte le strofe di un testo nella stessa posizione. C. Funzione ritmica o associativa La ripetizione di serie di suoni in posizione chiave  un elemento importante del ritmo del testo. Questa funzione ritmica della rima si pu. dire anche associativa, perch7 la ripetizione di suoni associa tra loro due o pi parole, ponendo in relazione anche significato e funzione sintattica. Si dice rima facile, cio di scarso impegno stilistico, quella per cui sono disponibili nella lingua molte parole. La rima pi facile  quella desinenziale, cio fra parole di uguale desinenza, insieme con la rima suffissale, quella per cui per esempio tutti gli avverbi in –mente rimano tra loro. La rima difficile  quella per la quale  difficile trovare parole. La rima derivativa  quella fra due parole di cui una deriva dall’altra, anche con derivazione solo apparente. II. L’identit dei suoni nella rima A. Rime fonetiche e rime culturali a. Rima perfetta e imperfetta Si dice rima perfetta quella con identit di tutte le vocali e consonanti a partire dall’ultima vocale tonica del verso. Se l’identit non  completa, la rima si dice imperfetta. Il caso pi rilevante  l’assonanza, che comporta l’identit rigorosa delle sole vocali.

Un’assonanza si pu. dire a sua volta imperfetta se  uguale solo l’ultima vocale tonica. Se sono uguali solo le consonanti, o se manca l’uguaglianza della vocale tonica, la figura si dice consonanza. Quest’ultima non  usata quasi mai in luogo della rima. L’assonanza al posto della rima non  necessariamente segno di trascuratezza: in generi come la lauda, il sirventese, i cantari, l’assonanza  ammessa come figura normale accanto alla rima. La nozione di identit da cui dipende quella di rima perfetta non  solo fonetica, ma  anche culturale. In tutta la tradizione italiana  perfetta la rima di e chiusa con e aperta e con ie e di o chiusa con o aperta e con uo: in ci. la metrica italiana differisce sin dalle origini da ogni altra metrica romanza. Per spiegare questo fatto si  chiamato in causa l’uso della rima della poesia latina medievale: in essa e lunga rima con e breve, o lunga rima con o breve, come a lunga rima con a breve; e nella pronuncia scolastica medievale tutte le e e le o toniche del latino suonano aperte senza distinzione. Una spiegazione pi particolare  nel fatto che i primi modelli di poesia italiana, nel Duecento, sono in siciliano, e hanno agito in Toscana attraverso copie toscanizzate. In siciliano non esiste opposizione tra e aperta e chiusa, o aperta e chiusa, e tutte le e e le o toniche suonano aperte. b. Rima siciliana e altre rime da interferenza linguistica La poesia antica conosce altri tipi di rima culturale che sono poi usciti dall’uso. Il pi notevole  la cosiddetta rima siciliana, di i con e e di u con o. Il riconoscimento del fatto che la rima siciliana  considerata legittima dai poeti antichi, e non va corretta nelle edizioni critiche,  un risultato della filologia recente, acquisito con l’edizione dei Poeti del Duecento di Contini, e la presentazione che qui si d della materia rimane controversa, perch7 si intreccia con i problemi di metodo dell’edizione critica. Essenziale  per. il fatto che la rima siciliana e i tipi di rima pi o meno analoghi costituiscono, nella prosodia poetica duecentesca, un’eccezione ammessa, mai la regola. B. Rima piana, tronca, sdrucciola La rima piana, cio di parole piane,  la pi comune in italiano, cos> come il verso pi comune  il verso piano. La rima tronca e la rima sdrucciola sono rare nella poesia antica, comunque estranee alla tradizione illustre; la compresenza di rime piane, tronche e sdrucciole nello stesso testo trova pieno diritto di cittadinanza nella poesia lirica solo con l’ode-canzonetta di Chiabrera. La rima tronca, rara fino al XVI secolo,  usata sporadicamente nella Commedia, e nel Canzoniere di Petrarca compare solo nella canzone-frottola Rvf. 105. La rima tronca in consonante, di parole come amor, finir, man, che potrebbero dare altrettanto bene rime piane, nella poesia antica  ancora pi rara; si trova nella poesia per musica quattrocentesca e diventa comune solo dopo Chiabrera. La rima sdrucciola, rara anch’essa nel Duecento e in Dante, diventa pi frequente nel Trecento. Caratteristica del Quattrocento  l’idea che la rima sdrucciola abbia un sapore popolareggiante, in virt del quale essa  impiegata nella poesia bucolica in terza rima. C. Rime tecniche Si possono dire genericamente tecniche le rime arricchite da un’estensione all’indietro del segmento identico prima dell’ultima vocale tonica del verso (rima ricca), o complicate da forme aggiuntive di relazioni fra le parole che rimano (rima grammaticale ed equivoca), o da alterazioni dell’accento e della divisone delle parole (rima composta ed equivoca contraffatta). Possono rientrare fra queste anche la rima difficile e la rima derivativa e inclusiva, che si  preferito citare a proposito della funzione associativa della rima, perch7 in esse il tecnicismo  spesso meno evidente. La rima ricca comporta l’identit di uno o pi suoni precedenti l’ultima vocale tonica. Si

possono considerare rime ricche anche quelle che si estendono al di l della parola in rima; questo tipo di rima ricca si pu. dire contraffatta. La rima ricca non ha in italiano un uso istituzionale paragonabile a quello che ha nella poesia francese. La rima grammaticale non  propriamente una rima, ma un rapporto di derivazione o parentela grammaticale istituito fra due serie di rime. Questa figura  rara nella tradizione italiana, e comunque limitata alla poesia antica. La rima equivoca consiste nell’identit di suono delle parole in rima. Il caso estremo  la rima identica, in cui una parola rima con se stessa. L’uso sistematico della rima equivoca  proprio del Duecento, ed  poi sempre pi saltuario; nella tradizione successiva resta invece comune l’uso non sistematico, per cui rime equivoche si inseriscono fra rime non equivoche. Si pu. dire rima equivoca contraffatta quella in cui l’equivocazione  ottenuta sommando due parole. La rima composta  quella in cui una parola in rima  ottenuta artificiosamente sommando parole distinte; questa parola composta viene accentata in modo che l’ultima tonica del verso sia nella giusta posizione. La rima composta viene talvolta considerata un caso particolare di rima per l’occhio, cio nella quale l’identit nella parte finale di due bersi  grafica, ma non fonetica. Anche la rima per l’occhio, come quella composta, appartiene al gusto artificioso del Due-Trecento, e ricompare poi solo sporadicamente. La rima in tmesi divide una parola in fine di verso. Il caso pi comune  la divisione degli avverbi in –mente, nei quali la lingua antica non sente una vera saldatura. III. Rima interna A. Rima interna e rima al mezzo La rima pu. cadere all’interno del verso oltre che alla fine. E bene distinguere la rima al mezzo, che divide il verso in emistichi, da quella interna, che non corrisponde a tale divisone. La rima interna o al mezzo, frequente fino a Dante,  poco usata da Petrarca, e poi di uso sempre raro, se si eccettua il caso dell’endecasillabo trottolato, con rime solo al mezzo. IV. Rima irrelata La rima irrelata  quella del verso che non rima con nessun altro; il concetto ha senso quando il verso  inserito in uno schema di rime che prevede o ammette versi non rimati in certe posizioni. Nella canzone del Duecento sono abbastanza comuni casi in cui uno o due versi restano senza rima in tutte le strofe. Petrarca non ammette questa possibilit, ma lascia frequentemente irrelato il primo verso del congedo. Nella ballata  ammesso che resti senza rima il primo verso della ripresa.

FORME REGOLATE E FORME FISSE I. Forme regolari della poesia lirica A. Canzone Le forme della canzone attraversano tutta la storia della poesia italiana fino al tramonto della metrica tradizionale. La canzone antica o petrarchesca  il metro di maggiore prestigio nella poesia dei primi secoli; la sua funzione di genere poetico guida dura fino a Torquato Tasso, e conosce ancora riprese, se non altro come esercizio di competenza metrica, fino a Carducci e D’Annunzio. a. Canzone antica o petrarchesca La forma della canzone antica, elaborata nel Duecento, ha ricevuto la codificazione definitiva da Dante e da Petrarca, dal quale prende il nome di canzone petrarchesca. La struttura che la

compone  la strofa, detta stanza, che viene ripetuta alcune volte (per lo pi intorno a cinque); la conclusione  normalmente una stanza ridotta, detta congedo. I versi sono endecasillabi e settenari. La stanza in versi di un solo tipo  rara. La stanza in cui prevalgono gli endecasillabi  in genere sentita pi solenne di quella in cui prevalgono i settenari. La stanza  articolata in due parti principali. La prima consta di due piedi, che sono due serie di versi dello stesso tipo nello stesso ordine; la seconda, detta sirma, non  invece divisibile in due parti uguali nello stesso modo, ed  perci. indivisibile; il risultato nell’insieme  una stanza tripartita. E divenuto corrente chiamare l’insieme dei due (o tre) piedi fronte, ma nella terminologia dantesca questo termine designa una prima parte indivisibile della stanza. La divisione tra le due parti principali  detta da Dante diesis. Questo tipo di divisione della stanza  l’unico adottato da Petrarca, e rimane istituzionale con il suo esempio. Nel Duecento si incontra un altro tipo di divisione della stanza: come la prima parte in due piedi, la seconda si articola in due volte, cio in due serie di versi dello stesso tipo nello stesso ordine. La stanza  cos> quadripartita. Per Dante la divisione della stanza  possibile soltanto in presenza di una ripetizione di schema: perci. possono darsi piedi e sirma, piedi e volte, fronte e volte, ma non fronte e sirma. Nel Sei e Settecento si scrivono numerose canzoni in stanze non divisibili regolarmente secondo la norma dantesca, ma che si presentano come elaborazioni relativamente libere della stanza petrarchesca tripartita, con asimmetrie e anche rime irrelate. A questa sperimentazione si collega la forma delle canzoni di Leopardi, prima che questi passi a quella sua propria della canzone libera. Oltre che dal fatto di usare tutte le stesse rime (molto raro in Italia), le stanze possono essere collegate con molti artifici; i principali sono: - l’uso come prima rima della stanza dell’ultima rima della precedente (coblas capcaudadas); - la ripresa nel primo verso della stanza di una parola o di un’espressione contenuta nell’ultimo verso della precedente (coblas capfinidas); - l’uso di marcate analogie nella forma dell’inizio di ogni stanza (coblas capdenals). Il congedo, secondo la regola pi antica, riprende esattamente la parte finale della stanza, per un numero di versi a piacere. La misura pi normale, quando vale la regola descritta, corrisponde all’intera sirma; resta perci. irrelato il primo verso, se nella stanza completa funge da concatenatio, quando questa rima non  pi ripresa nella sirma. Non  infrequente che il congedo abbia invece una struttura propria, restando comunque pi breve della stanza. b. Stanza La stanza della canzone pu. costituire da sola un testo, chiamato con lo stesso nome. L’uso  vivo nella poesia provenzale, molto meno in quella italiana, perch7 la vera stanza in questa  il sonetto, almeno quanto alla funzione di genere. c. Discordo Il discordo  una forma musicale praticata dai trovatori provenzali e francesi, che in Italia ha avuto fortuna limitata nel periodo delle origini. Si compone di stanze ognuna delle quali presenta forme di simmetria interna, ma ha uno schema diverso dalle altre. d. Sestina lirica La sestina  una forma di canzone in stanze indivisibili. Nasce in Italia con “Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra” di Dante, che imita uno schema del provenzale Arnaut Daniel. Col suo esempio, la sestina  divenuta, dal Quattrocento, una forma fissa che ha esercitato il suo fascino anche sui moderni. Le regole della sestina sono le seguenti:  - nessun verso rima all’interno della stanza, ma tutti trovano corrispondenza di rima nelle altre stanze;

 - le rime sono tutte parole-rima, nel senso che tutti i versi che rimano fra loro terminano con la stessa parola;  - la posizione della perole-rima  ruotata di strofa in strofa: il primo verso di ogni stanza ha in rima la parola-rima dell’ultimo della precedente (secondo il principio delle coblas capcaudadas); di l> in poi viene presa dalla strofa precedente la parola-rima pi lontana da quella appena riusata, per cui i versi di ogni stanza corrispondono a quelli della precedente secondo l’ordine ultimo- primo-penultimo-secondo-terzultimo-terzo;  - il congedo di tre versi ha in rima tre delle parole-rima della sestina, e le altre tre all’interno del verso. Lo schema di successione  variabile. e. Canzonepindarica(odepindarica) La canzone (o ode) pindarica, introdotta nei primi decenni del Cinquecento da Giovan Giorgio Trissino, da Luigi Alamanni e dal Minturno, si ispira al sistema delle odi di Pindaro: a una strofe seguono un’antistrofe con lo stesso schema di versi e rime e un ep.do con uno schema diverso; l’insieme pu. essere ripetuto pi volte. Alamanni chiama le tre parti ballata, controballata e stanza; Minturno volta, rivolta e stanza. Particolarmente attratto dallo schema pindarico , fra i moderni, Pascoli, che per. non guarda tanto alla tradizione petrarchistica e chiabreresca, quanto direttamente al modello greco. f. Canzone-ode La canzone-ode  una forma di canzone in stanze semplificate, elaborata dal primo Cinquecento. Sul modello dell’ode oraziana, in strofe di 4 versi, si afferma la quartina di endecasillabi rimati ABBA o ABAB, usata gi da Bembo negli Asolani, del 1505, e da Trissino nelle Rime edite nel 1529, che aprono una tradizione che, attraverso Chiabrera e Fulvio Testi, giunge fino all’Ottocento. g. Ode-canzonetta Genericamente, canzonetta pu. valere come diminutivo di canzone, per indicare lo stile pi facile, l’argomento meno elevato, o gli schemi di versi brevi contrapposti a quelli in cui prevale l’endecasillabo: con questo significato si usa talvolta per la poesia antica. Con lo stesso termine ci si riferisce a testi per musica la cui forma metrica pu. essere varia. Con il termine ode-canzonetta ci si riferisce qui ad un ampio repertorio di forme che hanno avuto corso nella poesia italiana da Chiabrera all’Ottocento. Il principio formale  lo stesso della canzone-ode: il testo  strofico, cio consta di strofe che contano lo stesso numero di versi, degli stessi tipi nello stesso ordine e con lo stesso schema di rime. I versi, per., anzich7 solo endecasillabi e settenari, possono essere di tutte le misure, con preferenza per i versi brevi, cantabili e ben ritmati; le rime, anzich7 tutte piane, possono essere e normalmente sono anche tronche e sdrucciole; gli schemi possono comprendere anche versi irrelati, piani, tronchi o pi spesso sdruccioli; le rime tronche sono frequentemente in consonante. h. Aria L’aria (o arietta)  prima di tutto una forma musicale, che si pu. presentare indipendente o inserita entro la struttura del melodramma o della cantata. Dal punto di vista metrico, le forme dell’aria corrispondono a quelle dell’ode-canzonetta, in genere limitate a due strofe collegate fra loro.

B. Sonetto Il nome del sonetto  provenzale, da sonet, diminutivo di so “suono, melodia”, nel senso di poesia per musica, e nel Duecento  stato dapprima usato per testi di vario tipo; si  poi stabilizzato come nome di una precisa forma metrica, che secondo i pi  stata estranea alla musica fin dalle origini. Di certo si tratta di una forma italiana, nata nella Scuola Siciliana, probabilmente per invenzione di Giacomo da Lentini, e poi frequentissima in tutte le epoche nella storia della nostra poesia, dalla quale  stata imitata, identica o con modifiche, nelle altre letterature europee. Nell’arco della sua storia il sonetto  stato adottato in tutti i livelli di stile e per ogni genere di poesia;

persino nel Novecento, in piena versificazione libera, ne persiste un uso tutt’altro che irrilevante. Nella forma normale, il sonetto  composto di 14 endecasillabi, ed  diviso in due parti, rispettivamente di 8 e di 6 versi. La prima parte si divide tradizionalmente in due quartine, la seconda si divide in due terzine. La prima parte pu. avere lo schema ABABABAB, oppure lo schema ABBA ABBA, che suggerisce con l’ordine delle rime una divisione in quartine, che si  affermato nel corso del Duecento ed  rimasto il pi frequente. Nelle terzine i due schemi principali del sonetto antico sono CDE CDE e CDC DCD; questi sono anche i due tipi pi frequenti in Petrarca. E stato pi volte sostenuto che il sonetto risulta dall’unione di due strambotti, ma ci. non  ammissibile, perch7 lo strambotto  un metro trecentesco. Evidente  invece la prossimit del sonetto alla stanza della canzone (cio alla cobla esparsa dei provenzali), sebbene si possa obiettare che la somiglianza strutturale  tutt’altro che perfetta. Nella forma guittoniana, del sonetto reinterzato (cio rafforzato con l’inserzione di settenari)  aggiunto un settenario dopo ogni verso dispari dell’ottava e dopo il primo e il secondo verso delle due terzine; ogni settenario inserito rima col verso precedente. Quello con un solo settenario per terzina  detto sonetto doppio da Antonio da Tempo. Doppio o reinterzato, il sonetto con settenari inseriti ebbe scarsa fortuna dopo il Duecento, tanto che Bembo prende o piuttosto finge di prendere quello di Dante per una canzone. Ha avuto invece successo, nel tempo, l’ampliamento del sonetto che consiste nell’aggiunta di un’appendice ai 14 versi dello schema normale. Questa pu. essere costituita da un verso conclusivo, detto ritornello, o da un distico, detto ritornello doppio. La forma pi importante  per. quella trecentesca del sonetto caudato, la cui coda  formata da un settenario in rima con l’ultimo verso delle terzine e da un distico a rima baciata. Il sonetto caudato ha avuto una larga diffusione nello stile comico-realistico, da Antonio Pucci nel Trecento a Francesco Berni nel Cinquecento, e ancora fino a Carducci. Altro tipo di variante formale del sonetto  il sonetto minore, cio in versi minori dell’endecasillabo; raro nella poesia antica, ha una rilevante fortuna settecentesca. C. ...


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