Breve storia della globalizzazione in arte PDF

Title Breve storia della globalizzazione in arte
Author Beatrice Galluzzo
Course DAMS - Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo
Institution Università di Bologna
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riassunto del libro. ...


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BREVE STORIA DELLA GLOBALIZZAZIONE IN ARTE

1. Si è sempre molto dibattuto sull’esistenza, presso culturale non occidentali, di un concetto di arte simile a quello che è andato configurandosi da noi negli ultimi 200 anni. La storia dell’arte occidentale, a differenza di altre, è costellata di cambiamenti di stile, tecnica, temi, concetti, e anche quando è entrato in vigore il sistema capitalistico, l’arte occidentale si è perfettamente adattata alle nuove esigenze produttive. Lo spirito del capitalismo e l’etica dell’avanguardia si sono trovati perfettamente d’accordo sotto l’idea di “nuovo”. Infatti, ciò che ha impresso un dinamismo straordinario è stata l’accettazione del “nuovo” come valore principale. Si può considerare il sistema dell’arte come un sistema economica che ruota intorno al prodotto opera d’arte. Il sistema dell’arte comprende la produzione, la diffusione e il collocamento di beni assolutamente superflui, definiti beni di lusso, ma allo stesso tempo di fondamentale importanza perché considerati da sempre l’espressione più alta di ogni cultura. L’economia e la politica decidono le sorti dell’arte, soprattutto se questa si fa interprete e portavoce dei loro stessi valori. La questione che si pone apriori è se la storia del sistema dell’arte occidentale abbia qualcosa da insegnare in una situazione di globalizzazione o invece sia semplicemente da tralasciare per ipotizzare uno sviluppo nuovo. Poi si passerà alla vera incognita della globalizzazione in arte, e cioè se il sistema reggerà l’impatto coi nuovi mercati. In altre parole, come si modifica il sistema iniziale quando è adottato nei paesi emergenti che magari vogliono adottare e imporre un loro modello e regole più congeniali ai loro mercati? In un futuro, la globalizzazione potrebbe rendere più autonomi i sistemi dei paesi emergenti? La prima domanda è verificabile, in quanto il fenomeno ha già iniziato a verificarsi, e quindi si possono analizzare e verificare dati, che possono magari diventare tendenziali. Rispondere alla seconda domanda assume invece i connotati di una profezia perché il fenomeno è appena iniziato e quindi non è ancora possibile valutare le trasformazioni apportate all’attuale sistema. L’idea dell’arte come eurocentrica ha iniziato ad essere diluita negli anni ’50 del ‘900, in primis col passaggio di testimone tra Parigi e New York (perché gli Stati Uniti erano la più grande potenza mondiale, avevano vinto la guerra, erano tecnologicamente all’avanguardia) e poi quando ha fatto la sua entrata nella scena internazionale l’arte giapponese, prima sottovalutata. Moltissimi furono gli artisti che lasciarono il loro paese europeo per trasferirsi negli Stati Uniti e ricordiamo di italiani Depero, de Chirico e Cagli. Chi se n’è andato appartiene sostanzialmente a due categorie: i tedeschi, che per ovvi motivi legati alla libertà d’espressione e al clima soffocante hanno lasciato la Germania, e chi in generale era stanco dell’atmosfera sempre più stagnante dell’Europa. Così, quando nel 1936 vengono allestite al MoMA le prime mostra sull’arte europea, gli artisti americani sono entusiasti di potersi confrontare con le esperienze artistiche del Vecchio continente. In un mondo dell’arte tutto concentrato sui rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, probabilmente è passato come episodio marginale l’affacciarsi sulla scena di artisti giapponesi. Il riferimento è al Gruppo Gutai, fondato nel 1956 da Yoshihara e Shimamoto, che vantava una doppia anima: l’una performativa (che poi avrebbe dato vita alla pratica dell’ happening), l’altra pittorica, legata al comune clima dell’Informale, con la ricerca sul gesto e sul segno che riscosse immediatamente più successo. Quando gli Stati Uniti si resero conto che la cultura giapponese poteva in fondo essere compatibile con quella occidentale, fu una svolta epocale, in primis perché per la prima volta si concepì come interlocutrice potenzialmente paritaria una cultura “non bianca” (per di più sconfitta e annichilita solo pochi anni prima). Prima delle arti visive, ad affermarsi in Occidente fu il cinema giapponese (basti per tutti Akira Kurosawa, che vinse il leone d’oro a Venezia nel ’51 per Rashomon). Tuttavia, quando Saburo Murakami, artista appartenente al Gruppo Gutai, attraversò con un balzo la carta di 21 telai realizzando una lacerazione fisica e simbolica (dello spazio tradizionale della pittura), l’impatto sugli artisti occidentali fu enorme. Anche l’interesse per gli ideogrammi aveva sedotto numerosi artisti, tra i quali ad esempio Mark Tobey. Dalla loro posizione lontana e insulare, che li metteva al riparo da eccessive contaminazioni, gli artisti giapponesi hanno saputo imporre una loro immagine internazionale. Personalità come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara e Mariko Mori hanno sorpreso il mondo dell’arte con una produzione inconfondibile.

2. A stabilire il vero inizio della globalizzazione sono gli anni Ottanta. La situazione in cui si viene a trovare l’intero Occidente è per la prima volta nuova: non si tratta più di contrapporre un sistema all’altro ma di applicare un sistema unico all’intero pianeta. Il sistema in questione è quello occidentale: democratico e capitalistico. Con la prima guerra del golfo (1991) si percepisce che i confronti culturali non sono più tra l’Est e l’Ovest del mondo, ma tra il Nord e il Sud. Le grandi potenze di oggi, Cina e India, non erano considerate se non come “giganti in sonno” e per chissà quanto tempo ancora l’Africa era solo territorio di conquista e di sfruttamento economico. Il mondo era diventato più grande, ma a pensarci bene non poi di molto. La cultura degli anni ’80 ha contribuito all’allargamento degli orizzonti. All’inizio degli anni ’80 un’opera di Fontana costava pochi milioni di lire; alla fine, arrivava anche a 500 milioni. Cos’è accaduto in mezzo? Maggiore circolazione di denaro, aumento di relazioni economiche internazionali, crescita di una fascia giovane di nuovi ricchi. Questi dati però costituiscono soltanto lo zoccolo su cui possono crescere i desideri: ma perché in quel preciso momento storico l’arte contemporanea era il più forte di questi desideri? Perché rappresentava l’idea massima di popolarità ed esclusività. In altra parola, negli anni ’80 l’arte contemporanea iniziò ad essere concepita come uno status symbol. Il mondo dell’arte garantisce a chi lo frequenta un’enorme visibilità, quindi l’arte contemporanea è diventata il mezzo tramite cui i nuovi ricchi potevano ottenere una veloce legittimazione. Da quel momento, nel giro di pochissimi anni l’arte contemporanea è diventata un business. Mai quanto allora il valore di un’opera è stato assimilato al suo prezzo. Il motivo per cui sostanzialmente è stata l’arte contemporanea a diventare status symbol e non tutta l’altra arte è semplice: l’Italia è quasi l’unico paese a vantare un enorme patrimonio d’arte antica. In tutti gli altri paesi, Stati Uniti in primis, l’arte contemporanea è un prodotto infinitamente più disponibile, e in più va detto che l’arte contemporanea si rinnova continuamente e quindi la disponibilità aumenta via via. Anche il passaggio dal collezionismo privato a quello delle fondazioni o delle Corporation inizia in quegli anni e lega indissolubilmente l’idea di arte come status symbol a quella di arte come business. Ormai ogni gruppo bancario ha attivato un sistema Art Consulting per i propri clienti maggiori. Partendo dal presupposto che un’arte facile, che possa prescindere dalla cultura, cioè immediatamente fruibile da chiunque si voglia semplicemente avvicinare, è la condizione indispensabile di ogni popolarità, l’arte contemporanea può essere considerata un fenomeno popolare. Il pubblico si sente attore tanto quanto il collezionista, e d’altra parte va detto che l’arte diventa elemento imprescindibile dall’attenzione dei media quando riesce a muovere le masse. È dunque quando l’arte incarna un evento, che diventa popolare. Il fenomeno russo: In Unione Sovietica la distinzione tra artisti ufficiali (cioè appartenenti all’Unione degli Artisti dell’URSS o all’Accademia delle Arti dell’URSS) e non ufficiali è durata fino a tutti gli anni Ottanta. L’interesse del mondo per ciò che si produceva in Russia è arrivato solo a metà del decennio. Invece che guardare a come il Sistema occidentale si è approcciato alla Russia, è importante guardare a come la Russia si è approcciata al Sistema occidentale. In generale, i luoghi dell’arte russa hanno cercato di “istituzionalizzarsi” il più possibile, cioè essere il più possibile conformi al modello occidentale. L’esempio più lampante, a partire dal nome stesso, è la nascita del MMOMA (Moscow Museum Of Modern Art) nel 1999. Ciò che ora indubbiamente attira l’attenzione sono gli spazi artistici legati ai miliardari, primo tra tutti il Garage CCC (Center of Contemporary Culture) nato per volontà del magnate Roman Abramovič. In casi come questo l’intenzione è chiarissima: entrare il prima possibile nella cerchia ristretta dei collezionisti che possono dirigere il mondo dell’arte. Il mondo dell’arte russo ha cercato di darsi una struttura imitando quelle funzionanti in Occidente. Come spesso succede, è al culmine della parabola che si comincia a intravedere la parte discendente della traiettoria. Così è avvenuto per l’arte europea (Gran Bretagna esclusa): è l’arte stessa a suscitare meno interesse, perfino tra gli stessi europei. Il rispetto per la produzione europea, comunque ancora alto, tende però ad assumere i connotati di una sorta di ossequio dovuto al passato, e che non ha però molto a che vedere con ciò che si pensa ci riserverà il futuro. A partire dalla fine degli anni ’80, l’arte europea ha iniziato a perdere quote di mercato in favore di tutto il resto del mondo. Va detto che comunque da un lato si tratta

di una naturale conseguenza dell’allargamento dei confini del sistema dell’arte all’intero pianeta. È dalla metà degli anni ’80 che non si afferma su scala mondiale un movimento proveniente da ambienti europei.

3. Fin da quando esiste in concetto moderno di Arte, è emersa l’idea che il suo valore dovesse essere basato sulla novità del linguaggio e dei soggetti (avanguardie e neoavanguardie ne sono un palese esempio). Visto che il revival rischia di risultare banale, non resta che cercare in culture ancora ritenute lontane spunti di novità. L’attenzione si focalizza dunque sull’altrove geopolitico. In più, a partire dagli anni ’80, lo scenario dell’arte si è ricomposto diventando un tutt’uno (prima l’avanguardia era divisa da tutto il resto della produzione artistica) dove tutto può funzionare, niente fa più scandalo; l’unico limite sembra essere quello del politically correct che segna i confini moralistici del lecito. Va detto comunque che non è mai facile elaborare nuovi modelli linguistici. Le vere innovazioni linguistiche (della storia) si contano sulle dita di una mano. Questa difficoltà ovviamente contrasta con la necessità di un ricambio costante imposta dal mercato dell’arte. La velocità con cui si consumano le immagini, le forme e i modi di produrre arte superano di gran lunga la capacità dei singoli artisti di introdurre varianti significative. Per accettare l’immissione di energie fresche bisogna per prima cosa saperle riconoscere, e per fare questo è necessario stabilire alcuni criteri per definire il concetto di “fresco”. Diciamo che è ovvio che il portatore di novità debba provenire da culture non ancora contaminate dalla storia del linguaggio che conosciamo, oppure toccate da eventi talmente straordinari da far sviluppare un linguaggio unico.

4. Dove cercare questi linguaggi nuovi? Nel corso degli anni ’90 l’indagine geopolitica si è svolta a tutto campo. Dopo l’interesse per la cultura artistica russa, l’attenzione è stata rivolta a tutti i Balcani e poi a Egitto, Iran, Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio, Australia, Corea del Sud, Turchia, Cuba. Sulla Cina gravava ancora la repressione di piazza Tienanmen dell’89 e l’India era vista ancora come un luogo troppo folcloristicamente esotico. Secondo quali strategie l’attenzione è stata posta su un paese piuttosto che su un altro? Ad esempio, tutte le etnie che si sono ribellate alla Serbia sono state gratificate con l’attenzione da parte del mondo dell’arte che in questo modo si sentiva un po’ dalla parte giusta. La biennale di Johannesburg è stata fondata nel ’95, quella di Istanbul nell’87. Alcuni artisti sudafricani (dello stato del Sudafrica) sono diventati artisti di primo livello (Marlene Dumas e William Kentridge primi tra tutti). Chi non vuole scendere a compromessi è invece l’Islam. Se esiste una biennale del Cairo o se c’è un Guggenheim a Dubai è per una manovra politica ben precisa: costruire una precisa immagine culturale ma indirizzata all’esterno, piuttosto che all’interno. Del resto, perfino la figura dell’artista mantiene nei paesi islamici un significato diverso, quasi profetico. Dalla fine del blocco sovietico è il mondo islamico a costituire per l’Occidente l’antagonista ideologico e culturale. Di fatto, i rappresentanti riconosciuti di quest’area del globo sono soltanto i fuoriusciti, cioè quegli artisti che fanno della cultura da cui provengono il soggetto della propria arte ma che non vivono più nel loro paese ma in quei centri del mondo occidentale che in patria incarnano “il grande Satana”. Esempi: la persiana Shirin Neshat (che parla della condizione della donna sotto i regimi autoritari) e la libanese Mona Hatoum (che realizza metafore meravigliose della situazione israelo-palestinese).

5. La Cina rappresenta invece un problema, perché da una parte è vista come opportunità, ma dall’altro come minaccia. Considerare per molto tempo la Cina come un puro ricettore è stato sintomo di una sottovalutazione pericolosa delle capacità del loro sistema di assimilare il modello occidentale e farlo proprio. I rapporti tra Occidente e Cina sono molto antichi (lo stimolo è sempre stato il commercio) e la Cina è uno dei pochissimi paesi ad aver mantenuto inalterati i propri confini per duemila anni. L’integrità della Cina è

sempre rimasta intatta, e nessuno di esterno è mai riuscito a occuparla interamente e tanto meno a dirigerla. Negli ultimi secoli però i rapporti tra Occidente e Cina sono peggiorati per diversi motivi, tra i quali il fatto che gli Stati Uniti abbiano finito per considerare a lungo la Cina un serbatoio di mano d’opera a buon mercato. Per riunirsi c’è voluto un nemico comune: il Giappone imperialista della seconda guerra mondiale. Poi con l’avvento del comunismo di Mao Zedong si è innescato un silenzio durato trent’anni e poi c’è stata la dura repressione delle proteste di Piazza Tienanmen che ha rimandato ulteriormente l’attuale epoca di investimenti occidentali in Cina e di impressionante crescita economica del Paese. In che modo l’arte entra in questo scenario? Le mosse del sistema dell’arte occidentale nei confronti di un’arte contemporanea cinese pressoché sconosciuta non sono state inizialmente diverse da quelle attuate nei confronti di altre culture improvvisamente apertesi allo scambio dopo la fine della divisione del mondo nei due blocchi capitalista e socialista. Gli anni di preparazione all’esordio dell’arte cinese sulla scena mondiali sono i primi del duemila. La prima asta di arte cinese da Sotheby’s a Hong Kong è stata nel 2004, ma è l’apertura di un vero e proprio dipartimento dedicato all’arte cinese all’interno della sede newyorkese a consacrare come fenomeno di massa quello che fino a poco prima era un fenomeno di nicchia. A Pechino si trova la “zona 798” e a Shanghai l’ “M 50”: sono due enormi quartieri dedicati agli spazi espositivi per l’arte contemporanea dove molte gallerie europee e americane hanno aperto le loro filiali.

6. Fino a ora è stato detto che quando un nuovo paese si affaccia al sistema dell’arte occidentale, lo subisce. Per la Cina la questione è più complessa. Innanzitutto c’è da capire se il linguaggio adottato dagli artisti cinese contemporanei sia d’importazione e non la naturale evoluzione di un proprio percorso linguistico contemporaneo. La cultura cinese è sempre stata fortemente autonoma e centripeta e ad esso non si è mai sovrapposto nessun altro modello che non fosse intimamente accettato. L’insegnamento delle Belle Arti passa ancora per la tradizione antica e per le Accademia, con una formazione molto rigida; non c’è possibilità di evasione dagli schemi dati. Gli insegnamenti sotto la generica nominazione di “design” sono invece infinitamente più liberi. Il mercato cinese è così vasto da comprendere un sesto della popolazione mondiale: anche nel caso in cui ci fosse un rallentamento nell’esportazione, le necessità del mercato interno ammortizzerebbero i mancati guadagni all’estero. Ma se la Cina è un paese gigantesco di consumatori, lo è anche di produttori. Se in Italia ci sono 50mila potenziali artisti, in Cina ce n’è circa 1 milione. Per la prima volta il grande numero rischia di cambiare completamente i modi della diffusione e della fruizione. In più, va detto che la Cina fa parte di quei paesi orientali in cui la concezione del tempo è ben diversa dalla nostra: il tempo è circolare, le cose ritornano, non ha senso conservare il passato negli oggetti perché quegli oggetti saranno ripetuti. Questo è il motivo principale per cui in Cina praticamente non ci sono Musei (non importa conservare) ma solo grandi contenitori per l’arte attuale. Oggi le fiere d’arte cinese sono due, entrambe gestite da operatori europei: ArteFiera di Bologna si occupa di Shanghai e Art Basel di Hong kong.

7. L’altra grande potenza culturale asiatica è l’India, il cui decollo economico si è ormai avviato, anche se in modo molto diverso rispetto alla Cina. La cultura e l’arte indiane sono profondamente diverse sia da quelle europee che da quelle cinesi, mentre il sistema dell’arte per ora ricalca quello occidentale. In questo senso appare cruciale la passa influenza inglese. Essere artisti in India ha ancora un’aura vocazionale, forse in virtù del fatto che mercato non è poi così sviluppato per il momento. I centri della cultura artistica sono Nuova Delhi e Mumbai, ma oggi solo l’India appare potenzialmente in grado di contenere l’esplosione cinese. L’india si trova metaforicamente in mezzo a un guado, a metà tra la sponda folcloristica e quella globalizzata. Il sistema dell’arte indiano è diverso da quello cinese anche per le premesse storiche: la dominazione inglese, finita del 1947, aveva introdotto un embrione di sistema dell’arte modellato su quello esistente in Inghilterra. È stata l’impennata del PIL indiano a cavallo del nuovo millennio a creare le premesse e forse le

promesse per un sistema dell’arte indiano. A essere estremamente carenti in India sono le istituzioni. Gli artisti indiani vengono scelti dal mercato non indiano ma internazionale perché per esempio non possono contare sull’appoggio e sulla promozione dei musei indiani. Il dato di fatto è che due o forse tre delle cinque componenti principali del mondo dell’arte (artista, gallerista, istituzione, collezionista, critica e pubblico) non hanno ancora raggiunto gli standard minimi per poter competere nel mercato internazionale. Il solo fatto però che oggi in Asia si consideri interessante in campo artistico solo il confronto tra India e Cina è già un risultato a favore dell’India, che “sorpassa” una cultura come quella giapponese. L’arte in India è uno status symbol per pochi, e non sta diventando un desiderio di massa.

8. Tra le cose che costituiscono e alimentano la globalizzazione c’è anche la diffusione planetaria di Internet. Quali sono le implicazioni sull’arte e sul suo sistema? Per quanto riguarda l’arte, la rete sembrerebbe realizzare quello che il video aveva potuto solo teorizzare negli anni settanta del XX secolo, vale a dire la trasformazione di ogni creatore/utente in una stazione emittente e ricevente. Ed è proprio il mercato dell’arte ad aver beneficiato della rivoluzione della rete, fornendo a chiunque la situazione, la disponibilità e il costo di ogni singola opera disponibile sul pianeta. Nessun luogo rappresenta la globalizzazione più di Internet. È allo stesso tempo nessun luogo e tutti i luoghi insieme ed è in grado di raggiungere simultaneamente ogni angolo del mondo. Ma questa presenza capillare che risvolti ha avuto nel sistema d...


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