Breve storia della lingua italiana - Claudio Marazzini - Riassunto PDF

Title Breve storia della lingua italiana - Claudio Marazzini - Riassunto
Author Nicola Cecotti
Course Scienze e Tecnologie Multimediali
Institution Università degli Studi di Udine
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Breve storia della lingua italiana - Claudio Marazzini - Riassunto...


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BREVE STORIA DELLA LINGUA ITALIANA 

Storia di chi e di che cosa

La storia della lingua italiana si può riassumere nell’immagine di centro-periferia: il centro (dal quale ha avuto origine) è la Toscana, la periferia le altre regioni. Questa immagine non è stata un’imposizione quanto un fatto riconosciuto anche dalle altre regioni, addirittura dalla prima regione che si è sviluppata industrialmente, che ha imposto modelli giuridici e amministrativi alle altre ma non ha imposto il suo idioma perché parlava francese (il Piemonte). Manzoni osserva imbarazzato che l’Italia è l’unica che non fa corrispondere la sua capitale (Roma) con la capitale linguistica (Firenze) e i dialetti (definiti tali solo dopo l’identificazione della lingua) sono visti fino al quindicesimo secolo circa come “volgari italiani”. La lingua però non vive isolata e si sviluppa soprattutto per il contatto con altre lingue e con i dialetti, attraverso scambi commerciali, viaggi, invasioni ecc. I rapporti linguistici però non sono paritari ma è la lingua di maggior prestigio sociale ad influenzare l’altra, esercitando un prestito linguistico: la nuova parola può essere non adattata (e quindi rimane uguale alla lingua di provenienza, ad esempio “computer” e non “calcolatore elettronico”) oppure può essere adattata, in due modi diversi: nel cosiddetto “calco traduzione” (skyscraper  grattacielo) e nel “calco semantico”, quando una parola italiana assume nuovo significato traendolo da una parola straniera (ad esempio, il verbo realizzare tradotto come “rendersi conto di” dall’inglese “realise” e non di “fare”). I prestiti linguistici inoltre possono avvenire per necessità (ad esempio la parola caffè, quando questo prodotto arrivò da altri paesi) oppure possono essere prestiti di lusso (parole che vengono sostituite sebbene la lingua abbia già il corrispettivo, ad esempio show  spettacolo). Il linguista odierno si limita ad osservare tali prestiti, ma nell’ottocento e nel novecento, movimenti come il fascismo proteggevano rigorosamente la lingua da inflessioni esterne (purismo linguistico), perché la lingua era sentita come segno dell’unità nazionale e non poteva essere influenzata da altri popoli. Solitamente però i tentativi di difesa sono senza successo: basti pensare alla terminologia informatica, tutta inglese perché tale tecnologia è nata lontano dall’Italia ed è quindi naturale che venga totalmente importata senza adattamento. Oltre ai rapporti con le lingue vive, bisogna tener conto anche dell’influenza di latino e greco, che gli intellettuali delle varie epoche conoscevano bene e che quindi sono state lingue che hanno aiutato e potenziato il volgare italiano. Tra le lingue moderne è stato invece il francese a dare all’italiano un grande numero di parole, anche perché la sua letteratura si è sviluppata prima della nostra e soltanto dall’ottocento in poi, con il Purismo, si è messo un freno all’eccessivo “infranciosamento” della lingua. Anche i termini spagnoli sono presenti in italiano per la presenza di spagnoli nelle corti cinquecentesche e seicentesche. Gli anglicismi invece sono un settore attualmente in crescita, tant’è che il numero di parole inglesi nell’italiano è molto elevato. Altra lingua che ha influenzato parzialmente l’italiano è l’arabo, soprattutto nei termini lessicali riferiti al commercio, alla medicina e alla matematica (zero, ammiraglio, arsenale, dogana, tariffa ecc.). Meno influenze sono giunte anche da ebraico, turco e giapponese. Un pregiudizio idealistico assegna al linguaggio letterario degli scrittori maggiore importanza rispetto alla lingua parlata: la linguistica moderna ha fatto giustizia su tale pregiudizio ma non si deve dimenticare l’importanza e l’influenza del linguaggio letterario sulla lingua comune. Il linguaggio letterario può essere studiato mediante la critica stilistica, ma è attraverso esso che spesso e volentieri i grammatici e i teorici hanno stabilito norme e regole grammaticali. Gli scrittori sono quindi i protagonisti della storia linguistica, anche se la lingua non si limita sicuramente allo scritto. Certo è che in un’epoca in cui l’unità nazionale era lontana l’interesse linguistico si è sviluppato nella letteratura ed è in questa che possiamo leggere i cambiamenti epocali significativi della lingua italiana.

Il parlante\scrivente italiano è sempre stato però attirato da campi di forza divergenti: attirato dal toscano, condizionato dal suo dialetto d’origine, influenzato dai libri di cui disponeva. Inoltre lo scrittore italiano non toscano si è sempre trovato in una situazione di diglossia: parlava un dialetto quotidiano considerato però inferiore rispetto alla lingua “nobile” in cui scriveva. Se era colto conosceva un’atra lingua nobile, il latino. Tali condizioni quindi determinavano lo svilupparsi di fenomeni di “lingua mista” detto anche mistilinguismo, che poteva manifestarsi sia volontariamente per scelta stilistica sia involontariamente con errori. I notai sono tra i primi protagonisti della fase iniziale linguistica italiana per la loro necessità di registrare transazioni, affari, ecc. anche in volgare (per farsi comprendere dal popolo). Il “placito capuano” (documento in cui si registrava un atto di proprietà scritto in volgare) segna l’atto di nascita dell’italiano. I notai sono inoltre i primi cultori della poesia antica italiana e perciò il suo mestiere, mescolato con la sua passione, gli dava la possibilità di iniziare a fissare una lingua scritta diversa dal latino. Discorso simile si può fare per i mercanti, che ignorando il latino ma dovendo registrare commerci e vendite o dovendo intrattenere rapporti epistolari con venditori lontani, era “costretto” a scrivere nella lingua in cui parlava. I mercanti e i notai di cui abbiamo testimonianza sono per la maggior parte fiorentini, ma abbiamo anche alcune testimonianze venete. I mercanti, comunque, oltre alle lettere, utilizzavano altre forme di scrittura come le “pratiche di mercatura”, quaderni in cui si trovano disorganicamente cose diverse (problemi matematici, tariffe commerciali, proverbi, ricette, notizie) o come i “libri di famiglia”, vere e proprie memorie in cui si annotavano fatti e avvenimenti personali o cittadini. Anche in questi casi, la maggioranza di documenti è di impronta fiorentina. Dopo il cinquecento si perse la tradizione scrittoria mercantile, a vantaggio delle cosiddette “narrazioni di viaggio” (si pensi al Milione di Marco Polo). Nell’ambito scientifico, fino al Rinascimento, la lingua prediletta era il latino. Ci volle molto tempo affinché il volgare gli strappasse il monopolio. Dante stesso scrive solo alcune sue opere scientificofilosofiche in volgare (come il Convivio) e tutte le altre in latino. Galileo Galilei fu il protagonista della svolta, scrivendo le sue opere scientifiche in volgare. Il linguaggio scientifico però esige rigorosità e specificità e quindi si differenzia dal volgare utilizzato per la prosa e la poesia, per la sua necessità di essere breve e facilmente compreso da tutti. Oggi la lingua scelta per le pubblicazioni scientifiche è l’inglese, sia per la sua diffusione che per il fatto di dover evitare traduzioni, ma se ciò dovesse continuare perderemmo molti termini scientifici italiani. Una lingua esiste prima che i grammatici abbiano determinato le sue regole. L’italiano aveva già numerose opere letterarie quando si iniziò a sperimentare sulla sua grammatica. La prima in assoluto è la Grammatichetta Vaticana di Leon Battista Alberti, nel quattrocento. La prima stampata è invece del secolo successivo di Giovanni Francesco Fortunio (umanista friulano). Più celebre, nel 1525 le “Prose della volgar lingua” di Pietro Bembo. Tutte le norme ipotizzate dai grammatici comunque traevano origine dalle stesse opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Gli effetti di queste grammatiche furono un’omogeneizzazione delle opere successive, visto che venivano consultate prima dai letterati e poi nel settecento anche dagli studenti nelle scuole. Accanto alle grammatiche, grande importanza linguistica ce l’hanno i dizionari. Oggi aperti alle nuove integrazioni e continuamente in crescita erano inizialmente delle raccolte chiuse di parole, realizzati lontani dalla Toscana, a Venezia, per l’esigenza dei non toscani di conoscere parole di uso non comune per loro. I fiorentini tuttavia intervennero con la fondazione dell’Accademia della Crusca, che nel 1612 pubblicò un vocabolario molto più completo rispetto quelli fino ad allora pubblicati e il modello della Crusca fu così forte che Accademia e Vocabolario si identificarono e furono al centro di numerose

dispute: non mancarono infatti successive pubblicazioni che si discostavano dal modello proposto dalla crusca. La letteratura e la cultura hanno quindi diffuso l’italiano, l’unità politica è venuta molto dopo. Gli stati preunitari però hanno fatto importanti scelte che hanno avuto ricadute anche sull’ambito linguistico. In Toscana, lingua parlata e scritta erano omogenee ma tale situazione era impossibile altrove: qui dunque il potere politico era disponibile a promuovere il volgare e tale regione assunse una posizione di vantaggio, anche per la vivacità culturale e politica dell’epoca (si pensi ai Medici). Nel resto d’Italia quindi si tentò di avvicinarsi al toscano anche nello scritto, sostituendolo all’onnipresente latino soprattutto nei documenti della cancelleria di ogni regione preunitaria, per comodità. I dialetti vengono quindi iniziati ad essere visti come qualcosa di non favorevole all’unità linguistica e politica, perché esprimono una diversità regionale. Manzoni stesso li osteggia e tale posizione viene definita “giacobinismo linguistico”. Tale posizione è comprensibile perché denota una richiesta di omogeneità di cultura, ma non è condivisibile per la perdita di lingue minoritarie. L’unità linguistica si realizza anche rispettando i dialetti e la scuola assume un ruolo di rilievo per la diffusione del toscano, dal settecento in poi. Nel 1456 fu inventata la stampa e subito si diffuse anche in Italia, in particolare a Venezia, che divenne la capitale della stampa italiana. Tra le conseguenze di tale invenzione ovviamente vi fu un aumento delle tirature e una diffusione mai vista dei testi scritti. Ciò ovviamente influenzò la lingua, poiché produsse maggiori regolarità di scrittura. Nel primo secolo la stampa fu ovviamente in latino, il primo testo in volgare fu un testo di tradizione popolare devoto (in volgare proprio per farsi comprendere da tutto il popolo), i “Fioretti di San Francesco”. In seguito uscirono anche Decameron, Canzoniere e Divina Commedia, ma in ogni caso i libri in volgare furono una minoranza, inizialmente. Nel quattrocento però il luogo di stampa poteva avere conseguenze vistose sul piano linguistico. Dal cinquecento in poi acquistò quindi maggiore importanza il “correttore tipografico”, un professionista che revisionava i testi; tale figura contribuì ad introdurre e consolidare la punteggiatura. I mass-media sono i mezzi di comunicazione di massa. Nel settecento e ancor di più nell’ottocento acquistò una funzione particolare il giornale. Inizialmente rivolto ad un pubblico colto, si diffuse poi anche un genere di giornale popolare, rivolto ad un pubblico più largo, che da poco era stato alfabetizzato. Nel giornale si possono osservare numerosi fenomeni linguistici: molti neologismi non sempre poi entrati nei vocabolari e nell’uso parlato. Il suo compito di “registro linguistico” fu poi assolto in parte dalla radio e in seguito dalla tv, che contribuirono a scolarizzare involontariamente anche chi a scuola non c’era potuto andare. Gli effetti di internet sono ancora in fase di studio anche se si osserva particolarmente il rapporto esistente tra lingua, comunicazione e persuasione, riportando quindi in auge la retorica. Esistono numerose differenze tra lingua scritta e lingua parlata, infatti non si parla come si scrive, né tantomeno si scrive come si parla. Nell’orale ci sono inoltre elementi che giocoforza non possono essere trascritti: gesti, espressioni, tono della voce ecc. oltre al fatto che il parlato è una “lotta” tra due interlocutori e la parola si intreccia all’azione. La scrittura invece è meno dinamica: permette la correzione, il ripensamento, un controllo maggiore di lessico e sintassi. È quindi più facile vedere l’evoluzione della lingua scritta, poiché per quella orale è possibile vederne l’evoluzione solo da quando è stato possibile registrarla fonicamente. Lo studio della lingua parlata però è difficile perché dipende dalla persona che parla, dalla sua cultura ecc. La maggior parte della storia linguistica italiana è quindi ricostruita a partire dai documenti scritti, dai quali può emergere l’oralità. Un caso a parte riguarda il testo teatrale dove però il “parlato recitato”

non è un vero parlato a tutti gli effetti, seppure molti autori come Pirandello abbiano cercato di documentare il parlato al meglio. Il linguaggio è patrimonio di tutti, non solo delle classi colte, anche se queste ultime sono a lungo state le uniche di fruire della letteratura e di conoscere norme grammaticali. Nella storia di riflessione sulla lingua italiana il ruolo del popolo è stato per cui materia controversa. Inizialmente “popolo” erano i toscani, dai quali si cerca di trarre la lingua corretta: i popoli di altre regioni non sono mai stati considerati portatori della lingua corretta. Anche una volta riconosciuta però la parentale tra la lingua dei grandi scrittori trecenteschi e i toscani rimaneva da considerare se scegliere la tradizione scritta o la lingua viva e su tale tema si è dibattuto molto. Quand’è quindi che è nato l’interesse per il popolo inteso in maniera moderna? Sicuramente nel periodo storico successivo all’unità d’Italia, quando si osservò che il popolo utilizzava un italiano pieno di elementi dialettali e di errori. Il cosiddetto “italiano popolare” è quindi stato materia di studio ed era così definita la parlata di aspirazione sopradialettale e unitaria degli incolti o il tipo di italiano acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto. Inizialmente si è ricercato e studiato questo tipo di italiano solo negli ultimi tre secoli, ultimamente si è estesa la ricerca anche a prima dell’ottocento e iniziano ad emergere dagli archivi documenti scritti da persone semicolte, che in maniera imperfetta ci mostrano un italiano sì scorretto ma sicuramente diverso dai dialetti. I dialetti sono un patrimonio linguistico interessantissimo, che possono essere studiati come oggetti specifici e messi in relazione per capirne l’evoluzione e l’evoluzione stessa dell’italiano. La lingua cambia quindi in base al livello culturale e sociale di chi la usa: l’italiano popolare è quello di chi non riesce a staccarsi dai dialetti, dando luogo ad errori che i linguisti definiscono “varietà diastratiche”. Dal cinquecento, più è modesto il livello culturale tanto più emergono gli elementi legati al dialetto. Le variabilità diastratiche sono però allo stesso tempo permeabili dalle varietà diatopiche ovvero legate al luogo di provenienza del parlante (esistono tutt’oggi italiani regionali che cambiano di regione in regione). Le differenze sono riscontrabili sia a livello fonetico che a livello lessicale. A varietà diastratiche e diatopiche vanno aggiunte quelle diafasiche, ovvero legate allo stile della comunicazione, che varia a seconda degli stili (formale, aulico, informale ecc.). Una lettera sarà infatti diversa rispetto ad un’orazione e può denotare due stili diversi da parte dello stesso scrittore. 

Origini e primi documenti dell’italiano

L’italiano deriva dal latino come le altre lingue romanze, ma dal latino volgare, ovvero dal latino parlato dal popolo e influenzato da componenti sociolinguistiche e diacroniche. Ovviamente il latino non aveva un’unità linguistica assoluta, in quanto si differenziava in base al luogo. Il latino volgare si differenziava dal latino scritto e alcune innovazioni che si presentarono nel parlato non furono registrate subito nello scritto (ad esempio “testa” che deriva da testam ovvero “vaso di terracotta”, parola usata inizialmente per definire una persona “di coccio” e poi entrato nell’uso comune senza accezione ironica). Per ricostruire il latino volgare si utilizzano quindi la comparazione tra le varie lingue romanze e il latino, la ricostruzione etimologica ma anche alcuni testi “non classici” che trattano di argomenti come la cucina, l’agricoltura o il teatro. In tali testi trovano infatti posto anche i termini meno “nobili” e più utilizzati quotidianamente. Particolare rilievo ce l’ha l’ “Appendix Probi”, in cui è riportata una lista di parole che non corrispondevano alla forma corretta ed erano riportate affiancate alla forma corretta. È dall’errore dunque che emergono innovazioni linguistiche ma anche da cosiddetto “sostrato” ovvero dalla lingua pre-esistente parlata in un luogo prima dell’arrivo del latino. I romani hanno infatti conquistato numerosi territori e imposto il latino in luoghi in cui si parlavano altre lingue ma la lingua già presente influenzava la nuova lingua anche e soprattutto nella pronuncia (dal sostrato osco-umbro si ha la tendenza a far diventare il suono -nd- in -nn, ad esempio “quando” “quanno”).

Altrettanta influenza lo ebbero però anche le lingue che si sovrapposero al latino, ovvero il “superstrato” (si pensi al periodo delle invasioni barbariche). Al giorno di oggi si ritiene tuttavia che il superstrato abbia avuto un ruolo meno rilevante rispetto al sostrato, sebbene il longobardo e in misura minore il franco, abbiano contribuito con numerose parole al vocabolario italiano. Le modifiche subite dal latino non sono state casuali: in esse si riscontra regolarità e si possono individuare regole di sviluppo. Questo è il campo della cosiddetta “grammatica storica” in cui rientrano leggi fonetiche oltre che grammaticali. Per comprenderla sono necessarie nozioni di fonetica: le vocali sono classificabili in centrale (a), anteriori (i, è, é) e posteriori (u, ò, ó). Ci sono lingue che hanno le cosiddette vocali “turbate” (ö, ü) e la vocale indistinta (ë). Le vocali sono distinte per durata (lunghe o brevi) e per posizione dell’accento (toniche o atone). Combinazioni di vocali sono detti i dittonghi, che possono essere ascendenti (p iède) o discendenti (càusa). I e u sono definite anche semiconsonanti o semivocali per la loro pronuncia. Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o un’occlusione del flusso d’aria e vengono perciò chiamate fricative nel primo caso e occlusive nel secondo. La combinazione di entrambe produce le affricate. Possono inoltre essere sorde o sonore, ma la classificazione tiene conto del punto di articolazione e quindi avremo fricative (s, z, f, v, sc, je alla francese), occlusive labiali (p, b), dentali (t, d), velari (k), nasali (m,n, gn), laterali (l,gl) e affricate (ts di “alzare”, dz di “zero”, tc di “cena” e dg di “giallo”). La “r” è una consonante vibrante. La lingua italiana ha quindi un sistema di 7 vocali (considerando le differenze di apertura di e ed o) mentre il latino ne aveva 10 (tutte le vocali avevano forma lunga e breve). Ad un certo punto però la quantità vocalica smise di essere avvertita e si trasformò nelle vocali aperte e chiuse che abbiamo ancora oggi in italiano. Di conseguenza dal latino in italiano molte parole hanno “dittongato” (pedem  piede” oppure “monottongato” (aurum  oro). Fenomeno linguistico tipicamente italiano è anche la metafonesi ovvero la modificazione del timbro di una vocale per influenza della vocale che segue. L’anafonesi ovvero la è tonica che diventa i davanti a gn è un fenomeno tipicamente toscano. Molto interessante il fenomeno di formazione delle doppie italiane, che hanno trasformato gruppi consonantici latini in doppie ripetute (es: septem  sette). L’italiano ha inoltre “addolcito” il suono latino c, che inizialmente era pronunciato k anche nei suoni ce e ci (pronunciati alla latina ke e ki). Il passaggio dal latino alle lingue romanze ha fatto inoltre “perdere” le consonanti finali tipiche dei casi latini e dunque anche questi ultimi, scegliendo in genere l’accusativo per la parola italiana (mons, montis il monte, non il monse). Anche il genere neutro, tipico del latino, è sparito, lasciando posto solo a maschile e femminile. Caratteristica la formazione d...


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