Come pintor che con essemplo pinga, Settis PDF

Title Come pintor che con essemplo pinga, Settis
Author Agnese Migliorini
Course Iconografia E Iconologia
Institution Università degli Studi di Siena
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ICONOGRAFIA DELL’ARTE ITALIANA 1110-1500: UNA LINEA Salvatore Settis 7. «Come pintor che con essemplo pinga» Parallelo tra pittura e scrittura, iconografia come linguaggio. Il lavoro del pittore ha uno spessore tecnico enormemente più grande di quello dello scrittore, ma l’artista al pari dello scrittore ha bisogno di un vocabolario prima di accingersi a copiare la realtà. Il pittore, infatti, come un poeta che può prendere in prestito da un altro non le parole, ma il loro ordine e il loro metro, traduce nella sua pittura le formule iconografiche che già altri hanno usato. La tradizione iconografica, che spiega la continuità del numero limitato di tipi iconografici che si possono vedere in chiese o musei, al tempo stesso garantisce la continuità dei significati che a ciascun tipo (o schema) iconografico sono strettamente legati. Come nel linguaggio siamo sicuri che una parola oggi ha lo stesso significato che aveva nel Duecento e nel Settecento, così si può dire di una pittura, che non è un insieme di immagini, ma piuttosto media, attraverso le immagini, un rapporto sociale fra persone che vuol tradursi in messaggio. Mentre, però, la parola è di tutti, la pittura no, così come la scrittura. Le figure dipinte, però, non solo filtrano il linguaggio, ma esse sono il linguaggio e per questo ha un’area di comprensibilità assai maggiore di ogni linguaggio di parole, e ciò sia per il suo rapporto meno mediato con la realtà sensibile sia perché il numero relativamente ristretto di produttori di immagini (artisti e committenti) frena il formarsi di varianti epicoriche (una valle isolata che produce un dialetto nel parlato, chiama artisti di fuori per creare opere d’arte). Imparare l’arte della pittura significa quindi anche impararne il linguaggio, perché ogni richiesta del committente deve essere attraverso quel linguaggio tradotta e articolata. La tradizione iconografica somiglia dunque a quella manoscritta? Sì, ma ancora oggi fra un’opera letteraria e un dipinto l’uso consacra una differenza fondamentale: di un romanzo non si può copiare la trama (anche cambiando le parole), di un quadro è lecito riprodurre l’aspetto generale )la disposizione, le interrelazioni delle figure), purché non se ne copi lo stile. Nella tradizione iconografica la ripetizione di u tipo, o di uno schema, non è dunque copia, ma configura quel linguaggio delle immagini di cui non lessici né precetti scritti potevano trovare gli artisti (mentre molti erano i trattati tecnici). Il sistema di relazioni fra immagini e significati è un codice che deve essere, in principio, inteso da tutti. Lo si può rinnovare, sì, ma dall’interno, come ha fatto Giotto. Era uso consigliato (da Cennino Cennini, ad esempio) visitare chiese e monumenti e portarsi sempre dietro materiale da disegno, per poter studiare le opere. L’apprendistato del pittore include la preparazione e la raccolta di un repertorio di modelli, tratti dall’arte più antica: oggetti d’uso, non d’arte, poi, i taccuini passavano di mano in mano, di artista in artista. Non venivano copiate scene complete, ma una figura o un gruppo di persone, utili all’artista a seconda dell’opera che stava andando a creare. Dante alla fine del Purgatorio (canto XXXII) racconta che non può raccontare come si è addormentato una volta nel Paradiso terrestre e scrive: S’io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati [di Argo] udendo di Siringa, li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro, come pintor che con essemplo pinga disegnerei com’io m’addormentai; ma qual vuol sia, che l’assonnar finga. (vv. 64-69) Disegnare come si è addormentato sarebbe meglio che raccontarlo con parole, ma, se anche fosse pittore, avrebbe pur bisogno di un esempio adeguato che non ha; gli servirebbe un dipinto col sonno di Argo. È ai temi mitologici, all’arte classica che si chiedono ormai esempi dove il linguaggio non basta più, davanti ad eventi così prodigiosi. E così nell’arte ci si rivolge ai modelli antichi, ai sarcofagi e a ciò che rimane e che viene cercato. Con l’aumento della richiesta delle opere d’arte con gli stessi temi gli artisti entrano in concorrenza e ognuno cerca a suo modo di distinguersi all’assidua ricerca di invenzioni che modifichino, portandole a maggiore verità, le formule correnti, portando così a una larga differenziazione dell’iconografia religiosa (atteggiamento di Maria all’Annunciazione o sotto la croce) con variazioni che hanno avuto nel tempo più o meno successo: lo spavento di una Maria sgomentata all’arrivo dell’angelo viene rigettato, mentre si affermerà lo svenimento della Mater dolorosa sotto la croce, che diventerà presto il gruppo autonomo della Pietà, scena terrena e umana (inizialmente a nord delle Alpi - vedi immagine - e diffuse in Italia soprattutto grazie alla devozione domenicana). Il mutamento iconografico (e stilistico) è fondato sull’interazione fra esperimento e formula: i nuovi tipi e schemi vanno ad innestarsi su un lessico costituito, che necessariamente persiste e assicura la continuità della tradizione. Un altro esempio è quello della rappresentazione della Resurrezione, che non avviene direttamente fino al periodo tra Due e Trecento, per poi evolversi con il Cristo sospeso sopra il sepolcro, violando la legge di gravità (analogamente avviene con la Trasfigurazione e l’Ascensione, i momenti in cui la sua natura divina si manifesta più eclatante). L’umano e il divino con la Pietà e la Resurrezione si staccano e si dividono, allontanandosi: il salto dall’esperienza del quotidiano (la morte e il dolore) alla speranza del divino tende ad accrescere la distanza fra i due poli che la duplice natura del Cristo aveva voluto fare uno solo.

Non sull’emergere d’innati archetipi fioriscono le iconografie; non per essersi adeguato finalmente a quell’archetipo decade un tema, e muore. È la memoria storica (per sua natura variabile) che funziona come un filtro, e addita talvolta una formula iconografica particolarmente elaborata classificandola (provvisoriamente) come perfetta, perché dagli antichi abbiamo imparato che l’arte raggiunge un culmine, e decade: la stessa idea della perfezione è un topos. Nella nostra memoria giacciono, splendide e perpetue, iconografie perfette. Non c’è che un solo Discobolo, quello di Mirone; l’Ultima cena l’hanno dipinta in tanti, ma nessuno come Leonardo. Non che dopo Leonardo il tema muoia, ma chiunque, se pensa all’Ultima cena, pensa prima di tutto e soprattutto a quella, figlia perfetta non di un mondo di archetipi, ma di una memoria storica condizionata dalla fama di Leonardo, dalle discussioni, dagli aneddoti sull’opera… Dovendo mediare attraverso i gesti, il lessico della pittura aspira a una perfezione che è: di ciascuna storia offrire la forma più efficace. È dunque la storia stessa che comporta e impone sia la composizione sia i gesti occorrenti se vuole essere illustre e significante, e inserirsi nell’invenzione programmatica con ogni significato, che importa. Lo spazio in cui deve cadere l’immagine è dunque determinato da due poli opposti: i sensi e la memoria. Ma se a Giotto nessuno negava il merito d’aver principiato a riportare l’arte alla natura, era proprio perché non s’era contentato del lessico appreso dei suoi maestri, pur rimanendo dentro a un’arte significativa, importante e per questo degna di memoria....


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