Concorrenza sleale PDF

Title Concorrenza sleale
Author Salvatore Scafuto
Course Diritto Commerciale
Institution Università degli Studi di Napoli Parthenope
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Summary

Aspetti della concorrenza sleale...


Description

Concorrenza sleale : La normativa codicistica contenuta negli artt. 2598 e ss. del codice civile vieta gli atti di concorrenza sleale tipici (gli atti confusori, la denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui) e atipici (gli atti contrari ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda) e definisce la tutela giurisdizionale, inibitoria e risarcitoria, accordata all’imprenditore, consentendo anche alle associazioni di imprese di agire in giudizio. L’art. 2598 dispone che: compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1.

usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2. diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3. si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda Inquadramento sistematico La ratio della norma è quella di imporre alle imprese operanti nel mercato regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si avvantaggi, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti, con l'utilizzo di metodi contrari all'etica commerciale. Nell’inquadramento della concorrenza sleale è diffusa l’affermazione che qualifica tale disciplina come speciale rispetto a quella della responsabilità civile. Da tale punto di vista, il requisito dell’idoneità a danneggiare l’altrui azienda, pur’esso contemplato dalla terza figura tipica dell’art. 2598 c.c. (appropriazione di pregi altrui), è stato valorizzato dagli interpreti soprattutto per sottolineare la differenza tra il carattere risarcitorio dell’ordinaria azione di responsabilità civile (che presuppone un danno già verificatosi, cioè attuale) e il carattere preventivo dell’azione di concorrenza sleale, che può essere esercitata anche di fronte ad un danno soltanto potenziale. I soggetti dell’atto L’opinione prevalente ritiene che i destinatari della norma in esame siano solo imprenditori, in rapporto di concorrenza fra loro. Svariate proposte interpretative hanno cercato di superare questa «chiusura soggettiva» della disciplina della concorrenza sleale, espandendola anche ai liberi professionisti. Gli atti di confusione L’art. 2598, n. 1, c.c. prevede come prima ipotesi di concorrenza sleale i c.d. atti di confusione. La norma dispone, infatti, che: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di

brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente…”. L’elemento caratterizzante le fattispecie dell’art. 2598, risiede nell’idoneità a creare confusione con i prodotti o l’attività dei concorrenti in merito all’origine imprenditoriale dei prodotti o servizi offerti; non rileva, pertanto, la confusione che potrebbe sorgere relativamente ad altre caratteristiche del prodotto. Perché un’imitazione possa produrre confusione, è necessario che l’elemento imitato sia percepibile dal consumatore come un segno di riconoscimento di una determinata impresa. Perché un’imitazione possa essere sanzionata, occorre infatti che essa sia idonea a confondere i consumatori e, quindi, a turbare il mercato. Per l’accertamento di tale requisito, la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri. In primo luogo, per giudicare della confondibilità, si deve aver riguardo all’apparenza complessiva del prodotto, così come esso si presenta a prima vista agli occhi del consumatore. Si deve inoltre considerare la possibilità di equivoco propria del consumatore medio del prodotto. La fattispecie confusione più ricorrente è rappresentata dall’ imitazione servile significa, in altri termini, divieto per l’imprenditore A di imitare il prodotto del suo concorrente B creando i presupposti affinché i destinatari del prodotto acquistino il prodotto di A credendo che sia il prodotto di B. L’imitazione del prodotto di un concorrente sarà pertanto lecita se sono state prese le misure adeguate ad eliminare il rischio di confusione. Il divieto si ritiene che limiti solo le imitazioni dell’aspetto esterno del prodotto, se e in quanto individualizzanti. Per forma del prodotto si intende dunque il modo con cui questo si presenta agli occhi dei consumatori: quindi, tanto la forma dell’oggetto in sé quanto le modalità di confezionamento o etichettatura. Non è tutelata dall’imitazione peraltro la forma che, seppure non brevettabile, risulta già standardizzata, oppure dotata di valore funzionale o ornamentale. Gli atti di denigrazione L’art. 2598, n. 2, vieta la diffusione di notizie ed apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente idonei a determinarne il discredito. L’art. 2598 vieta qualsiasi affermazione denigratoria, sia essa tale perché falsa o perché sì veritiera, ma divulgata in modo da screditare i concorrenti. In altri termini, c’è il divieto assoluto di “parlar male” dei prodotti e dell’attività del concorrente. Il problema principale, nella disciplina della denigrazione, è tradizionalmente costituito dalla critica oggettiva veritiera. Nella dottrina recente prevale la tesi della liceità di questa comunicazione e anche la giurisprudenza è costante nell’ammettere, in linea di principio, la critica veritiera, ma richiede che questa sia oggettiva, completa e non tendenziosa. Tra le pratiche riconducibili nello schema della concorrenza sleale per denigrazione troviamo le denunzie al pubbliche di pratiche concorrenziali illecite da parti di concorrenti specifici, ad esempio la violazione di un proprio brevetto industriale; la pubblicità iperbolica che tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi (non oggettivi). Tra la denigrazione rientra

anche la pubblicità comparativa. Essa consiste nel confronto fra i propri prodotti e quelli di uno o più concorrenti, fatto in modo da gettare discredito sugli altrui prodotti o sull’altrui attività. La pubblicità comparativa non si può ritenere vietata in modo assoluto. Infatti, questa è lecita quando non è ingannevole, confronta oggettivamente caratteristiche essenziali e verificabili, non ingenera confusione sul mercato e non causa discredito L’appropriazione di pregi altrui La seconda parte dell’art. 2598, n.2 rappresenta la terza figura tipica tradizionale di atto di concorrenza sleale, l’appropriazione di pregi altrui, è accostata alla denigrazione. Nell’esperienza giurisprudenziale si fa però di questa figura un impiego promiscuo, oscurandone i connotati tipici. Così accade che si parli di appropriazione di pregi di fronte a fattispecie già qualificabili come atti di confusione (può ben darsi il caso, infatti, che il “pregio” di un prodotto sia anche elemento di identificazione dello stesso). Stessa considerazione può farsi per un caso, frequentemente portato ad esempio di appropriazione di pregi, e cioè l’uso illecito di una denominazione di origine controllata, che può dirsi oggi assorbito dal generale divieto di pubblicità ingannevole. L’appropriazione di pregi può avere anche connotazione parassitaria quando l’imprenditore sfrutta altrui supporti (ad es. pubblicazione, su propri cataloghi, di foto di prodotti altrui) o quando ricorre alla pubblicità per “agganciamento” dichiarando che il proprio prodotto è simile ad un altro, più affermato. Gli atti contrati alla correttezza professionale L’art. 2598 chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale affermando che è tale “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. In questo ambito vi è un criterio elastico che affida al giudice il delicato compito di rendersi interprete della coscienza sociale del momento e ciò al fine di stabilire se un comportamento concorrenziale sia o meno in armonia con i canoni di etica professionale. Non c’è attualmente una classificazione standard degli atti “atipici” di concorrenza sleale, ma possiamo dirne alcuni. Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale rientra sicuramente la pubblicità menzognera: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente. Abbiamo poi la concorrenza parassitaria, la quale consiste nell’imitazione sistematica, continua e protratta nel tempo, da parte di un imprenditore, delle iniziative di mercato realizzate da un concorrente. È unanime anche la qualificazione come concorrenza sleale atipica del comportamento dell’imprenditore che, con mezzi illeciti (ad es. la corruzione di un dipendente altrui) si appropri, o tenti di appropriarsi, di notizie segrete o almeno riservate, riguardanti l’impresa di un concorrente (c.d. spionaggio industriale).

Possono rilevare come atti atipici di concorrenza sleale anche gli abusi monopolistici come il boicottaggio, realizzato dall’impresa in posizione dominante che si rifiuta di vendere i propri prodotti a determinati venditori, escludendoli dal mercato. L’inibitoria Interesse primario dell’imprenditore che subisce un atto di concorrenza sleale è quello di ottenere la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla ancor prima che l’atto gli abbia causato un danno patrimoniale. A tale finalità risponde l’azione inibitoria. Essa è diretta ad ottenere una sentenza che accerti l’illecito concorrenziale, ne inibisca la continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrative per far cessare gli effetti della concorrenza sleale. Ciò è concesso in base a dati puramente oggettivi, mentre è esclusa la rilevanza del dolo o della colpa dell’autore dell’atto come pure quella del danno patrimoniale già verificatosi. E’ invece necessario l’accertamento dell’attualità del danno concorrenziale o, come tradizionalmente si dice, del concreto pericolo di continuazione o ripetizione dell’atto di concorrenza sleale da parte del convenuto. La legge attribuisce al giudice ampia discrezionalità nel determinare il contenuto della condanna atta ad eliminare queste situazioni. Risarcimento del danno Per il risarcimento del danno derivante dalla concorrenza sleale l’art. 2600 c.c. richiama il criterio generale di imputazione soggettiva dell’art. 2043 c.c. Va dunque, in linea di principio, sempre provato il danno, come presupposto del risarcimento e il nesso di causalità. Ai fini del risarcimento, l’art. 2600 c.c. istituisce una presunzione semplice di colpevolezza del convenuto. La colpa presunta si riferisce alla consapevolezza (coscienza e volontà) del comportamento. La presunzione è certamente relativa e la prova contraria può darsi con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici. Il danno risarcibile è la perdita patrimoniale (danno differenziale risentito dal patrimonio del soggetto pregiudicato) depurata del danno che il danneggiato avrebbe potuto e dovuto evitare e determinata, ai sensi dell’art. 2056 c.c. e delle disposizioni da questo richiamate, come danno emergente e lucro cessante. Nel danno emergente sono solitamente comprese, ad esempio, le spese incontrate per accertare i fatti e per assistenza professionale e le spese incontrate per rispondere all’altrui illecito con diffide, smentite ecc. Per la maggior parte, i danni da concorrenza sleale si possono però individuare solo come lucro cessante. Il caso più semplice è quello in cui siano provati recessi di clienti o rotture di trattative, provocati dall’atto di concorrenza sleale. La semplice prova della diminuzione del fatturato non è necessaria né sufficiente per accertare un mancato guadagno. Può avere però un valore indiziario, in vista di quella valutazione equitativa a cui normalmente si ricorre ex art. 2056, co. 2, c.c. E’ pacifico che, per l’azione di risarcimento ex art. 2600 c.c., si applichi la prescrizione generale (di norma quinquennale) dell’azione di risarcimento del danno, di cui all’art. 2947 c.c.,

che decorre da quando è acquisita certezza dell’evento dannoso. Di conseguenza, in caso di illecito permanente, il diritto al risarcimento (e la relativa prescrizione) decorrono giorno per giorno. Pubblicazione della sentenza È discusso il rapporto del comma 2 dell’articolo 2600 che prevede la possibilità di pubblicare la sentenza che accerta la concorrenza sleale e l’art. 120 c.p.c., che prevede in generale la pubblicazione della sentenza come misura accessoria di riparazione del danno. Sostanzialmente conforme è l’opinione secondo cui il provvedimento in questione avrebbe duplice funzione: di risarcimento in forma specifica per i danni già verificatisi, e di rimozione di fonti permanenti di danno, consistenti soprattutto in cattiva informazione del pubblico. L’azione di concorrenza sleale delle associazioni professionali: L’art. 2601 c.c. attribuisce alle associazioni professionali legittimazione ad agire per concorrenza sleale. Nella pratica l’iniziativa delle associazioni professionali è particolarmente frequente in processi intentati a difesa di denominazioni d’origine controllata, atti di denigrazione e di pubblicità menzognera o comparativa scorretta che arrecano danno ad un’intera categoria di imprese, in relazione alla vendita di prodotti a prezzi così bassi da turbare l’equilibrio del mercato o per illeciti antitrust. Caduto l’ordinamento corporativo, si è avanzata da qualcuno la tesi dell’abrogazione implicita della norma. La tesi è però rimasta isolata, ed è prevalsa un’interpretazione evolutiva, che ritiene la norma tuttora in vigore, ed applicabile non soltanto ad enti pubblici rappresentativi di interessi economici di categoria, ma anche ad associazioni di diritto privato. Focus: La pubblicità è ingannevole quando è in grado di indurre in errore l’impresa alla quale è rivolta, pregiudicandone il comportamento economico, o quando è idonea a ledere un concorrente. L’ingannevolezza può riguardare le caratteristiche dei beni o dei servizi, come la loro disponibilità o la data di fabbricazione, il prezzo e le condizioni di fornitura. La pubblicità comparativa è invece quella modalità di comunicazione pubblicitaria con la quale un’impresa promuove i propri beni o servizi mettendoli a confronto con quelli dei concorrenti. Questo tipo di pubblicità è ammessa solo quando non è ingannevole, mette a confronto beni omogenei in modo oggettivo, non ingenera confusione tra le imprese, né provoca discredito al concorrente....


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