Manuale di diritto industriale Manuale Di Diritto Industriale Parte I - La Concorrenza Sleale PDF

Title Manuale di diritto industriale Manuale Di Diritto Industriale Parte I - La Concorrenza Sleale
Course Diritto industriale e della concorrenza
Institution Università degli Studi di Verona
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I. LA CONCORRENZA SLEALE1. Dagli inizi alla situazione attualeGli iniziLa moderna disciplina della concorrenza pone la sua matrice ideologica nel liberismo economico, che vedeva la concorrenza come garanzia per raggiungere livelli ottimali di qualità e prezzo.All’interno di questo contesto è nata l’...


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I. LA CONCORRENZA SLEALE

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1. Dagli inizi alla situazione attuale Gli inizi La moderna disciplina della concorrenza pone la sua matrice ideologica nel liberismo economico, che vedeva la concorrenza come garanzia per raggiungere livelli ottimali di qualità e prezzo. All’interno di questo contesto è nata l’esigenza di sottoporre i comportamenti concorrenziali a una disciplina, concepita non come un limite, ma come salvaguardia del libero mercato.

Dalla tutela dei segni distintivi alla lealtà della concorrenza I segni distintivi sono disciplinati per primi, in Francia. Attribuendo all’imprenditore il diritto esclusivo di valersi del suo segno, si vuole che egli sia riconosciuto e riconoscibile sul mercato per quello che è, si vuol renderlo responsabile del suo comportamento e nel contempo si vuole che altri non possano trarre profitto dal suo credito.

Dal diritto giurisprudenziale alla legislazione Quando una esigenza normativa è fortemente radicata nella coscienza sociale, non è di impedimento a che di fatto a questa repressione si addivenga in sede giudiziale, mediante la riconduzione dei comportamenti disonesti nell’ambito delle norme generali sull’illecito civile. Corretta o meno che fosse giuridicamente questa impostazione, sta di fatto che essa determinò la tipizzazione di una serie di fattispecie qualificate come concorrenzialmente illecite. Cosicché quando si giunse all’emanazione di norme speciali in materia, questa era già notevolmente elaborata e matura.

La situazione legislativa italiana fino agli anni ‘80 La prima norma che si estendeva a cittadini italiani fu introdotta nel 1925 nella Convenzione d’Unione per la tutela della proprietà industriale, che era una convenzione internazionale. Questa norma fu appunto estesa a disciplinare anche i rapporti interni fra cittadini italiani con una legge del 1926 e costituì la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino all’entrata in vigore del Codice Civile nel 1942.

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L’evoluzione più recente della disciplina A partire dagli anni ’80 si è assistito in sede comunitaria e internazionale, e conseguentemente in sede nazionale, ad una vasta produzione legislativa che ha riguardato, direttamente o indirettamente, anche la disciplina della concorrenza sleale. Questa intensa attività legislativa manifesta, per quanto attiene alla concorrenza sleale, una tendenza che si potrebbe definire sociale o paternalistica, comunque favorevole ad un incremento dell’intervento degli Stati in rapporti tra privati per la tutela dei soggetti più deboli. Da tutto ciò si desume che il ruolo giocato tanto a lungo dalla disciplina tradizionale della concorrenza sleale, fondata su poche fondamentali fattispecie specifiche e su una clausola generale, è stato eroso da una legislazione sempre più speciale o più dogmatica, che tende ad attribuirle uno spazio sostanzialmente residuale, quando non solo marginale.

Concorrenza sleale e illecito aquiliano Vedere collegamento con art. 2043 e illecito civile.

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2. I soggetti I presupposti soggettivi e il rapporto di concorrenza La disciplina della concorrenza sleale si applica solo quando ricorrono dei presupposti soggettivi che concernono sia il rapporto in cui devono trovarsi il soggetto attivo ed il soggetto passivo, sia la qualità professionale di entrambi questi soggetti. La disciplina si applica quando l’atto posto in essere dal soggetto attivo ai danni del soggetto passivo è un atto di concorrenza, il che implica che fra i due soggetti intercorra appunto un rapporto di concorrenza. Si ha un rapporto di concorrenza quando due soggetti offrano sullo stesso mercato beni o servizi idonei a soddisfare, anche in via succedanea, gli stessi bisogni o bisogni simili, ovvero quando due imprenditori mirano alla stessa clientela.

1. Profilo merceologico È facile da definire quando due soggetti offrono prodotti identici o comunque simili, mentre possono sorgere problemi quando non vi sia identità tra prodotti e servizi. In questo caso bisogna stabilire cosa significa stessi bisogni o bisogni simili e il profilo territoriale. La disciplina viene di solito applicata dando una definizione ampia di concorrenza, valida anche dove il rapporto di concorrenza non sia attuale, ma meramente potenziale, cioè probabile in un non lontano futuro. Si ritiene, però, che per dar luogo a concorrenza potenziale, questa possibilità debba corrispondere a una probabilità concreta, cioè desumibile da specifiche circostanze o da regole di esperienza.

2. Profilo territoriale Il profilo territoriale assume rilievo quando si abbia a che fare con imprese di piccole dimensioni. Difatti quando una o entrambe le imprese considerate hanno una grande dimensione il profilo territoriale perde di significatività, perché i prodotti sono presenti capillarmente sul territorio e/o la sfera di notorietà è diffusa. Quanto alle imprese per le quali il problema dell’estensione territoriale del mercato si pone, questa viene valutata non solo con riferimento all’estensione attuale, ma anche a quella potenziale, basata su una probabilità concreta di realizzarsi. Infine vi sono settori specifici in cui la dislocazione territoriale può assumere una importanza essenziale e sono:  

Quando la dislocazione territoriale caratterizza il servizio offerto facendo venir meno ogni carattere di fungibilità (es. un albergo); Quando l’impresa opera in un regime di concessione amministrativa ed il cui ambito territoriale di attività è delimitato dalla concessione stessa (es. servizi funebri).

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La concorrenza fra imprese operanti a livelli diversi Un problema ulteriore si ha quando due imprenditori trattano prodotti uguali o analoghi nella stessa zona, ma si collocano a livelli economici diversi, ad esempio un produttore e un distributore dello stesso bene. In linea generale non si ha una situazione di concorrenza tra questi due soggetti, ma la giurisprudenza è dell’avviso che la sussistenza del rapporto di concorrenza debba in certi casi affermarsi, perché l’attività di entrambe le imprese incide, in ultimo, sulla medesima categoria di consumatori. Ne consegue che gli atti commessi da un’impresa possano distrarre la clientela che si sarebbe rivolta verso i prodotti dell’altra.

Rapporto di concorrenza e storno di clientela Lo storno di clientela caratterizza gran parte della fattispecie in relazione alle quali si è posto il problema del rapporto di concorrenza. Bisogna tener presente, però, che esistono anche altri fenomeni, come lo storno dei dipendenti.

La qualifica di imprenditore Sia il soggetto attivo che il soggetto passivo dell’atto di concorrenza sleale devono essere imprenditori. La definizione di imprenditore in questo contesto è ampia e comprende quei soggetti che di fatto esercitino sul mercato una attività d’impresa, ovvero una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Questa visione più ampia consente di comprendere, ad esempio:    

la pubblica amministrazione, gli enti pubblici non economici, le associazioni senza scopo di lucro, le attività non professionali ma occasionali.

Anche per quanto riguarda la natura imprenditoriale dei soggetti interessati, non ci si limita a considerare la situazione attuale, ma si volge pure al futuro. In particolare si ritiene possa assumere la veste di soggetto attivo o passivo dell’atto di concorrenza sleale anche chi sta organizzando un’impresa che ancora non ha iniziato la propria attività. Una società in liquidazione non ha la qualifica di imprenditore, sia quando risulti essere irreversibilmente inattiva, sia quando stia ultimando i rapporti in corso. Fa eccezione il caso in cui una società in liquidazione abbia ancora elementi coordinati che possano far pensare a una ripresa dell’attività. Una impresa fallita potrà veder riconosciuta la qualifica di imprenditore nel caso di autorizzazione all’esercizio provvisorio o ove appaia probabile una chiusura del fallimento senza dissoluzione del nucleo aziendale.

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Atti di terzi imputabili al concorrente Quando si dice che la disciplina della concorrenza sleale si applica solo agli atti dell’imprenditore concorrente, ci si riferisce anche a quelli posti in essere dai suoi dipendenti nell’esercizio delle loro mansioni. Nel caso di ausiliari e collaboratori autonomi, si fa riferimento alla nozione di concorrenza sleale indiretta, assimilata a quella diretta. Tale condizione si verifica quando l’atto del terzo sia stato posto in essere, se non per specifico incarico dell’imprenditore, quanto meno nel suo interesse e ciò consapevolmente. Spetta all’imprenditore dimostrare che egli non fosse consapevole dell’operazione e consenziente. La responsabilità del terzo Quando l’atto di concorrenza sleale è posto in essere da un dipendente ne risponde l’imprenditore. Fa eccezione il caso in cui il dipendente sia rivestito di mansioni che gli consentono di assumere discrezionalmente iniziative. Quando l’atto è compiuto da un terzo, anche quest’ultimo risponde a titolo di concorrenza sleale, in solido con l’imprenditore.

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3. Correttezza professionale e danno concorrenziale Fattispecie nominate e clausola generale nell’art. 2598 Art. 2598 c.c. (Atti di concorrenza sleale). Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo con conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Come si può ben notare la norma è divisa in due parti: 1. indicazioni di ipotesi specifiche quali le fattispecie confusorie nel n.1 e le fattispecie dell’appropriazione di pregi e denigratorie nel n. 2; 2. una clausola generale il cui obiettivo è quello di ricondurre tutti quei casi, impossibili da ipotizzare ed elencare a priori che costituiscono concorrenza sleale. In particolare questi atti devono presentare due caratteri:  contrarietà ai principi della correttezza professionale;  danneggiare l’altrui azienda.

1. I principi di correttezza professionale Parlando di tali principi, la legge sembra riferirsi ad un sistema di regole esistenti al di fuori di essa, al quale operi una sorta di invio ricettizio. I principi di correttezza professionale, però, non sono codificati e perciò è compito dell’interprete quello di attribuire un contenuto alla formula legislativa.

La oggettivazione dei principi di correttezza L’esigenza di sottrarre il più possibile le decisioni all’arbitro del giudice ha portato all’individuazione di punti di riferimento il più possibile oggettivi. 7

Ad esempio regole di natura essenzialmente economica, che vadano a tutelare la libera concorrenza e che siano coerenti ed opportune rispetto alla struttura economica esistente, oppure al dettato costituzionale (Art. 41).

Il riferimento alla morale corrente I criteri elencati nel paragrafo precedente sono tutt’altro che realmente oggettivi, poiché è chiaro che a concetti come quello di utilità sociale ciascuno può dare il contenuto che crede, secondo i propri convincimenti politici. Inoltre non si può trascurare il fatto che i tentativi in esame appaiono in contrasto con la volontà legislativa, che esprimendosi con termini come correttezza e onestà, mostra chiaramente di mirare alla valorizzazione di un dato propriamente etico. Sembra perciò corretto ritenere che il giudizio di conformità o difformità rispetto ai principi della correttezza professionale debba essere un giudizio di natura morale, intesa come morale pubblica corrente, quale è espressa dalla collettività dei consociati, di cui il giudice è interprete.

Il giudizio di correttezza Per stabilire se un comportamento concorrenziale sia o meno conforme ai principi della correttezza professionale, il giudice dovrà dunque riferirsi alla morale corrente, o più esattamente alla propria interpretazione di questa. Questo riferimento va ovviamente temperato in presenza di chiare scelte legislative desumibili ad altre norme, ad esempio la legge antitrust. In ogni caso, le fattispecie “atipiche” di concorrenza sleale ricondotte all’ultimo comma del 2598, sono costituite da un gruppo di ipotesi ormai pienamente e da lungo tempo “tipizzate” che si arricchiscono raramente di nuove figure.

2. L’idoneità a danneggiare l’altrui azienda Il secondo carattere che deve avere un atto per qualificarsi di concorrenza sleale come definito nel comma 3 del 2598 è di danneggiare l’altrui azienda. Questa precisazione non è superflua, ma permette di distinguere tra atti di concorrenza innocui e dannosi, andando ad attribuire rilievo solo a quelli dannosi. L’idoneità dannosa deve essere qualificata, cioè deve essere maggiore rispetto alla normale dannosità di un atto dello stesso tipo non scorretto, qualora esistesse (es. la denigrazione non ha alcun omologo corretto, mentre la pubblicità mendace si contrappone alla veritiera. Il riferimento del danno è l’altrui azienda, intesa, però, in senso più ampio rispetto alla definizione civilistica e andando a identificarsi maggiormente in un’ampia nozione di impresa, che coinvolge l’imprenditore in ogni aspetto della sua specifica attività.

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4. La concorrenza per confondibilità Concorrenza sleale confusoria e Codice della proprietà industriale Il codice della proprietà industriale si sovrappone, almeno quanto ai diritti protetti, al divieto della concorrenza sleale confusoria di cui all’art. 2598 n. 1. La disciplina dettata dal Codice al riguardo, ed in particolare quella sui segni distintivi diversi dal marchio registrato, è incompleta, ed ha bisogno di venire integrata da quella concorrenziale.

Le fattispecie confusorie dell’art. 2598 n.1 Nel primo comma dell’articolo si dice che compie atti di concorrenza sleale chiunque:   

usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi usati da altri, imita servilmente i prodotti di un concorrente, compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente.

Tutte le fattispecie elencate sono accomunate dal fatto che sono idonee a produrre confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente. Nello specifico per confusione si intende un falso convincimento circa i prodotti e/o l’attività con i quali di destinatari del messaggio vengono a contatto. È una confusione all’origine perché e sulla fonte dei prodotti e delle attività prese in esame e perciò sull’identità dell’imprenditore a cui vanno ricondotti.

1. Fattispecie confusorie e segni distintivi La confondibilità dei segni distintivi è il primo caso elencato nell’art. 2598 n. 1 Il presupposto comune delle fattispecie è che producano confondibilità. A sua volta, per fare ciò esse devono consistere in una riproduzione più o meno puntuale di uno o più elementi idonei ad individuare quei prodotti o quella attività, cioè uno o più segni distintivi di essa. Senza la presenza dei segni distintivi imitati, la possibilità stessa che si dia luogo a confondibilità viene meno. 9

I segni distintivi dell’imprenditore sono dunque tutelati contro l’imitazione confusoria.

L’oggetto dei diritti Per segni distintivi si intende qualsiasi entità capace di caratterizzare un prodotto e di distinguerlo dagli altri analoghi di diversa provenienza presenti sul mercato. Ci si è voluto riferire a tutti i segni distintivi che possono essere usati nell’attività imprenditoriale, con la sola eccezione dei segni consistenti nella forma tridimensionale del prodotto o della confezione di esso, che rientrano nel campo dell’imitazione servile.

La capacità distintiva Il segno imitato deve avere capacità distintiva, cioè deve essere concretamente idoneo a distinguere prodotti o l’attività di un determinato imprenditore da quelli di un altro. In pratica ciò avviene quando il segno viene percepito dallo specifico pubblico di quel bene come segno distintivo, che denota l’origine di un prodotto o servizio in capo a un determinato imprenditore. La capacità distintiva può mancare quando:   

il segno consista in un elemento che il pubblico di riferimento sia portato a considerare strutturale del prodotto; il segno consista in una denominazione generica o di una indicazione descrittiva del prodotto contrassegnato; essendo corrispondente alla percezione che il pubblico ha del segno, il presupposto della capacità distintiva è suscettibile di variazione nel tempo in corrispondenza con la variazione di questa percezione.

A seconda che la capacità distintiva sia maggiore o minore, si avrà una tutela più forte o più debole. Si parla appunto di segni forti e segni deboli. Alla forza e rispettivamente alla debolezza di un segno, corrispondono una tutela più o meno intensa. Il segno forte sarà protetto contro ogni somiglianza anche evocatrice, mentre il debole solo da segni identici o con differenze irrilevanti. La dimensione temporale conta molto, perché un segno carente all’origine di capacità distintiva può con il tempo acquistarne di più e viceversa.

Uso e notorietà “qualificata” del segno Il modo in cui il pubblico percepisce il segno, rappresenta la chiave di volta del sistema. Il percorso logico da seguire è il successivo:   

la notorietà deriva dalla concreta presenza sul mercato del segno stesso e quindi dal suo uso; l’uso è condizione necessaria ma non sufficiente, perché deve implicare notorietà. Ne consegue che un uso occasionale nel segno non avrà alcun effetto. La notorietà deve essere qualificata, ovvero deve far sorgere nel pubblico di riferimento la percezione della natura distintiva del segno. Solo così il segno acquisisce capacità distintiva. 10



La cerchia dei soggetti ai quali bisognerà fare riferimento per stabilire se il segno sia percepito come tale dal pubblico sarà anzitutto quella dei consumatori finali del prodotto.

Limiti merceologici e territoriali della tutela Il primo comma del 2598 riguarda la confondibilità all’origine che ha le seguenti applicazioni sul piano merceologico e territoriale. Piano merceologico: la tutela è limitata alla categoria merceologica del bene e si estende ai quei casi in cui il segno possa essere imitato da un concorrente che produce prodotti affini. L’affinità sarà considerata variabile in base al grado di capacità distintiva del segno. Piano territoriale: la tutela dovrà coincidere con quella della notorietà qualificata raggiunta dal segno.

La novità del segno Anche se la legge non specifica nulla a riguardo, si può desumere che la tutela di un segno distintivo è riservata a chi si sia presentato sul mercato non solo prima di colui il quale si chiede la tutela, bensì per primo in assoluto. Ciò in base al fatto che l’articolo parla di segni distintivi legittimamente usati da altri e ha l’obiettivo generale di escludere elementi confusori dal mercato.

La prova dei requisiti di tutelabilità La prova della tutelabilità è a carico di chi invoca giudizialmente la protezione del proprio segno, non essendo presente un sistema di registrazione. Egli dovrà dimostrare di possedere la notorietà qualificata, che si evince da una serie di caratteristiche come la rilevanza quantitativa della presenza del prodotto sul mercato e la durata della presenza, l’ambito territoriale, la pubblicità; il tutto il relazione con la forza o debolezza originaria del marchio.

Confondibilità e confusione L’illecito di cui all’art. 2598 n. 1 è ritenuto un illecito di pe...


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