Diritto Industriale Vanzetti Di Cataldo PDF PDF

Title Diritto Industriale Vanzetti Di Cataldo PDF
Author Alessia Marruncheddu
Course Diritto Industriale
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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Summary

riassunto di diritto industriale per esame prof Spolidoro...


Description

MANUALE DI DIRITTO INDUSTRIALE Vanzetti Di Cataldo

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Il materiale contenuto nei Riassunti è frutto di un’elaborazione propria dei ragazzi che hanno partecipato alla raccolta dei fascicoli. Qualsiasi utilizzo del materiale (rivendita, pubblicazione, ecc) non conforme alle norme vigenti nel nostro ordinamento, sarà perseguibile per legge e soggetto alle dovute conseguenze. Il materiale costituisce una buona preparazione per sostenere l’esame di Diritto Industriale: ogni riassunto è stato prodotto facendo riferimento ad ogni singola pagina del libro, del quale tuttavia si consiglia la presa visione, almeno per gli esempi più importanti contenuti nei manuali e per integrare eventuali argomenti. Chi ha prodotto i riassunti ha personalmente testato il materiale ad oggetto, sostenendo il relativo esame ed ottenendo risultati più che soddisfacenti; in ogni caso il manuale costituisce la base per una preparazione completa ed esauriente. Potete trovare ulteriori Riassunti e informazioni su : https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattoli camilano

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N.B.: laddove vengono saltati paragrafi(si evince dalla numerazione), significa che l’argomento è stato ripreso nel paragrafo precedente o successivo, per ragioni di continuità del discorso.

PARTE PRIMA: LA CONCORRENZA SLEALE Capitolo 1 – Disciplina (dagli inizi alla situazione attuale) Per la disciplina, ci si rifà alla Convenzione d’Unione per la tutela della proprietà industriale, stipulata a Parigi nel 1883 e modificata ed integrata successivamente nel 1925(di particolare rilievo l’inserimento della norma 10 bis, che costituì la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino all’entraa in vigore del Codice Civile del 1942). Il nuovo Codice Civile disciplina la materia all'art 2598 del c.c., che recita quanto segue: “Atti di concorrenza sleale. Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.” A partire dagli anni ’80 del secolo scorso si è avuta una vasta produzione legislativa, che ha portato all’unificazione di molti istituti in un Codice della proprietà industriale(Codice p.i. o c.p.i.). Il c.p.i. ha inciso sul tradizionale assetto della disciplina della concorrenza sleale, soprattutto con riferimento a determinati temi: concorrenza confusoria(art. 2598 n. 1 c.c., sottrazione di segreti(art. 2958 n. 3 c.c., indicazione geografica e denominazione d’origine(art. 2958 n. 2 o 3). Precedentemente all’emenazione di una disciplina specifica, la repressione della sleale concorrenza si riconduceva all’illecito aquiliano, ovvero all'art. 2043 c.c. (“Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), ma si trattava di una forzatura: la concorrenza sleale è soltanto una species del genus dell'illecito civile, e di conseguenze l’idea principale era sicuramente la natura inibitoria, mentre la natura dell’art. 2043 è sicuramente sanzionatoria.

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Capitolo 2 - I Soggetti La disciplina della concorrenza sleale si applica solo quando ricorrano taluni presupposti soggettivi tra soggetto attivo e passivo e quando questi presentino determinate qualità professionali. Tra i due deve intercorrere un rapporto di concorrenza, cioè i due soggetti devono offrire sul mercato beni/servizi idonei a soddisfare, anche in via succedanea, gli stessi bisogni o bisogni simili. Se manca un'identità vera e propria tra prodotti o servizi, occorre stabilire cosa significhi il termine "simili" sotto due profili: - Profilo merceologico (esempio abiti e maglieria intima): basta che il rapporto di concorrenza non sia attuale, ma meramente potenziale, che vi sia una probabilità concreta in un non lontano futuro, desumibile da circostanze del caso o da regole di esperienza. - Profilo territoriale: solitamente assume rilievo per le imprese di piccole dimensioni; il mercato di incidenza di un'impresa deve ritenersi coincidente con la sua sfera di notorietà. E’ ovvio che una panetteria di Enna non possa ritenersi in concorrenza con una panetteria di Bergamo. Per le imprese il cui problema sotto il profilo territoriale si pone, occorre valutare non solo l'estensione attuale, ma anche un dato di estensione potenziale (ad esempio la Barilla dovrà ritenersi in concorrenza con qualsiasi pastifico, anche piccolissimo, in quanto nazionalmente nota). 9. Concorrenza fra imprese operanti a livelli diversi. Un ulteriore problema si ha quando due imprenditori trattìno prodotti uguali o analoghi nella stessa zona, ma a livelli economici diversi; l’esempio tipico è quello di produttore e commerciante. L’esistenza di un rapporto di concorrenza è data dal fatto che il risultato ultimo dell’attività di entrambi incide sulla medesima categoria di consumatori. Vedi situazione in cui il commerciante favorisce un altro produttore, in diretta concorrenza con quello colpito da atto sleale. 10. Concorrenza sleale e storno di clientela Un’altra ricorrente figura di atto di concorrenza sleale atipico è lo storno di dipendenti. Posto infatti il principio di libertà di concorrenza operante anche sul mercato del lavoro, che comporta la mobilità del lavoratore e la libertà, per l’imprenditore, di operare per sottrarre ai concorrenti la manodopera migliore, offrendo migliori retribuzioni o condizioni di lavoro, questa posizione di principio viene temperata, nella prassi giurisprudenziale, dall’affermazione secondo cui lo storno può colorarsi di modalità oggettivamente illecite o essere caratterizzato daanimus nocendi divenendo concorrenza sleale (Cass., 23.5.2008 n. 13424). 11. Qualifica di imprenditore. Per l'applicazione della disciplina in esame, occorre che i soggetti siano imprenditori(art. 2082 c.c.), ma in senso ampio, ovvero soggetti che esercitino sul mercato una attività MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano

economica organizzata al fine della produzione/scambio di beni/servizi. Ciò consente di comprendere nella disciplina anche la P.A. quando eserciti attività d'impresa, liberi professionisti se attività di dimensioni così ampie da superare gli aspetti personali dell'attività (anche se la Suprema Corte ha negato questa possibilità); in particolare si ritiene possa assumere veste di soggetto attivo o passivo dell’atto di concorrenza sleale anche un’impresa in fase di organizzazione, di liquidazione o fallita (se si può ipotizzare una ripresa dell'attività,). 12. Atti di terzi imputabili al concorrente. Vi è concorrenza anche quando gli atti sono posti in essere non solo dall’imprenditore, ma anche dai dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, o da persone che fungono da organi dell'ente quando si tratti di impresa societaria. È necessario, però, che l'atto sia posto in essere nell'interesse dell'imprenditore e ciò consapevolmente. Inoltre è affermato in giurisprudenza il principio per il quale non è necessario che l’atto provenga direttamente dall’impresa concorrente, ma è sufficiente che esso sia volto a procurare vantaggio a quell'impresa per opera di terzo. 13. Responsabilità del terzo. Ci si chiede se negli atti di concorrenza sleale (posti in essere da terzi e dei quali risponde l’imprenditore), sia responsabile anche il terzo ed a che titolo. Si ritiene che quando si tratti di dipendente dell’imprenditore, la responsabilità sia solo di quest’ultimo, a meno che il dipendente non fosse investito di mansioni che gli consentivano decisioni discrezionali. In questo caso, egli sarà responsabile in solido con l'imprenditore. 14. Legittimazione delle associazioni professionali. L’art. 2601 del c.c. accorda la possibilità di agire per la repressione della concorrenza sleale anche ad associazioni professionali ed enti, che rappresentano una categoria imprenditoriale quando si abbia a che fare con atti che pregiudicano gli interessi di tale categoria. Esse possono agire in nome proprio quando si tratti di un atto di concorrenza sleale che abbia leso gli interessi di uno o più dei loro associati o aderenti (quindi come mera sostituzione processuale), in modo da escludere la necessità di presentare una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni. Altrimenti, queste associazioni possono agire in iure proprio come associazioni di categoria: possono chiedere solo il ristoro per il danno che l'ente abbia risentito in proprio, non anche per quello risentito dagli associati. Capitolo 3 - Correttezza professionale e danno concorrenziale 15. Fattispecie nominate e clausola generale nell’art. 2598 c.c. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano

L’art. 2598 c.c. presenta due parti: la prima costituita dall’indicazione di ipotesi specifiche di concorrenza sleale (le c.d. “ipotesi nominate”); la seconda parte è costituita da una clausola generale che qualifica come concorrenza sleale una pluralità di comportamenti innominati, caratterizzati dall’essere non conformi ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’altrui azienda. 16. I principi della correttezza professionale. Generalmente, l’individuazione dei principi della correttezza professionale spetta all’interprete, in quanto non esiste un sistema di regole codificato in merito. Una prima posizione li indentificava negli usi in senso tecnico, cioè in comportamenti abitualmente praticati negli ambienti interessati; ma questo tipo di interpretazione è stato abbandonato in quanto in realtà queste consuetudini non esistono, e se esistessero sarebbe comunque difficile individuarle. Una seconda posizione è quella che fa riferimento ad un “principio etico” universalmente seguito dalla categoria così da diventare costume, quindi da un principio etico che unisca uso e morale; anche questa posizione è stata lentamente abbandonata. L’abbandono di queste tesi è data soprattutto dal bisogno di sottrarre il più possibile le decisioni all’arbitrio del giudice, per avere punti di riferimento il più possibile “oggettivi”, basandosi su regole di natura essenzialmente economica. Ciò, però, comporta un divario tra la morale imprenditoriale e la morale pubblica corrente: sembra perciò corretto ritenere che il giudizio di conformità ai “principi di correttezza professionali” debba avvenire secondo la morale pubblica corrente, e non quella professionale (dell’imprenditore). 17. La oggettivazione dei principi di correttezza La dottrina ha identificato i principi della correttezza professionale in punti oggettivi, basati sullo spirito del tempo, cioè coerenti ed opportuni rispetto alla struttura economica esistente, facendo molta attenzione all’interesse dei consumatori. Il giudizio di correttezza deve essere dato facendo riferimento all’art. 41 Cost.(“L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) e agli interessi in gioco della controversia(in particolare, l’interesse dei consumatori che si identifica con l’utilità sociale dettata dalla norma costituzionale. 18. Il riferimento alla morale corrente Il giudizio di conformità o difformità rispetto ai principi della correttezza professionale deve essere un giudizio anzitutto di natura morale: ma non di morale professionale, bensì di morale pubblica corrente, quale è espressa dalla collettività dei consociati, di cui il giudice è interprete. 19. Giudizio di correttezza. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano

Pare opportuno che il giudice per decidere interpreti la morale corrente, posta in relazione con la tutela del consumatore e della libera concorrenza. Il giudice, dunque, dovrà riferirsi alla morale corrente, temperandola con le scelte legislative, e potrà altresì utilizzare il criterio della maggiore o minore idoneità del comportamento denunciato ai fini della libera concorrenza: in questa prospettiva assume rilievo l’interesse del consumatore. Va, infine, detto che lo strumento valutativo sopra descritto, volto a verificare la conformità o meno dei comportamenti ai principi di correttezza professionale, ha scarso utilizzo, in quanto le fattispecie atipiche di cui all’art. 2598 c.c. sono ormai state tipizzate. 20. L’idoneità a danneggiare l’altrui azienda. L’idoneità dannosa dell’atto (posto in essere per danneggiare l’azienda) deve essere qualificata, nel senso che deve essere maggiore rispetto alla normale dannosità di un atto dello stesso tipo non scorretto(Esempio: lo storno di dipendenti potrà qualificarsi illecito solo in quanto capace di arrecare un danno superiore a quello di una corretta assunzione di ex dipendenti del concorrente). Deve anche concernere l'altrui azienda, ovvero qualsiasi danno economico che colpisca l'impresa del concorrente, vale a dire l’imprenditore in ogni aspetto della sua specifica attività. La dannosità può essere sia interna che esterna (clientela): un danno, dunque, che possa riguardare sia gli elementi organizzativi interni dell’impresa, il suo patrimonio tecnologico e più in generale la sua sfera di segretezza, sia la sua immagine esterna, la sua proiezione sul mercato, sia la sua clientela. 21. Danno concorrenziale e potenzialità. Il danno fin qui visto si definisce danno concorrenziale: solo le fattispecie idonee a produrre un danno concorrenziale potranno essere qualificate come concorrenza sleale, mentre non potranno esserlo quelle che pure provochino un danno all’imprenditore, ma di tipo diverso, per esempio personale. Si ritiene sufficiente in giurisprudenza la mera idoneità dell’atto a produrre effetti dannosi per il concorrente, indipendentemente dal fatto che il danno si sia verificato o meno: si effettua una valutazione ex ante, cioè prescindendo dalla mancata riuscita di esso. Capitolo 4 - La concorrenza per confondibilità 22. Concorrenza sleale confusoria e Codice della proprietà industriale Il Codice di proprietà industriale si sovrappone, almeno quanto ai diritti protetti, al divieto della concorrenza sleale confusoria di cui all’art. 2958 n. 1 c.c.: infatti, anche la tutela concorrenziale contro la confondibilità presuppone l’esistenza di segni distintivi e di diritti sui medesimi; tuttavia, la disciplina dettata dal c.p.i. è incompleta, e necessita di essere integrata dalla disciplina concorrenziale. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano

23. Le fattispecie confusorie dell’art. 2958 n. 1 c.c. Secondo l’art. 2598 c.c., compie concorrenza sleale chi "usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente"; per questo, si parla abitualmente di “concorrenza sleale confusoria”, in quanto si convince il destinatario che i prodotti o l’attività con cui è venuto in contatto siano di un imprenditore, mentre in realtà devono ricondursi ad un altro. Occorre che vi sia confusione, cioè un falso convincimento nei destinatari circa i prodotti o l'attività, una confusione sull’origine, quindi riguardante la figura dell'imprenditore cui essi vanno ricondotti. 24. Fattispecie confusorie e segni distintivi. L’art. 2958 n. 1 c.c. menziona tre specie di atti confusori: l’adozione di nomi o segni distintivi confondibili con quelli di altri; l’imitazione servile di prodotti altrui; la terza è in sostanza una clausola generale, perché si riferisce a qualsiasi altro atto idoneo a creare confusione. L'imprenditore ha un diritto assoluto sui propri segni distintivi: questi sono tutelati contro l’imitazione confusoria. 25. L'oggetto dei diritti. Quali sono le entità capaci di costituire segni distintivi? Essi consistono in qualsiasi entità idonea a caratterizzare un prodotto e distinguerlo dagli altri analoghi di diversa provenienza presenti sul mercato. Dunque questi segni possono consistere in parole, figure, numeri, lettere, suoni, forma di prodotti o della confezione, colori, ecc… 26. La capacità distintiva. La capacità distintiva è l’idoneità a distinguere i prodotti/attività di un imprenditore da quelli analoghi di un altro. La capacità distintiva può mancare in due ipotesi: - quando il segno è considerato dal pubblico come strutturale del prodotto, il che si verificherà soprattutto quando si tratti di segni cistituiti dalla forma del prodotto stesso, ovvero dal suo colore; - quando il segno consiste in denominazione generica o indicazione descrittiva del prodotto contrassegnato (ad esempio la parola “guanti” adottata per contraddistinguere appunto dei guanti). Alla forza di un segno distintivo corrisponde una tutela più o meno intensa: il segno forte sarà protetto contro ogni somiglianza anche solo evocatrice, mentre la protezione del segno debole sarà limitata all’ambito dei segni identici. Inoltre per tutelare un segno dovrà farsi riferimento alla sua capacità distintiva al momento in cui si verifica la supposta violazione di esso(rilevanza della variazione temporale). 28. Uso e notorietà “qualificata nel segno. MATERIALE REALIZZATO DA: Riassunti Dispense Giurisprudenza Cattolica-Milano https://www.facebook.com/riassuntidispense.giurisprudenzacattolicamilano

Occorre, altresì, che la notorietà di cui gode un segno sia qualificata: il segno deve essere noto al pubblico; la cerchia di soggetti a cui si fa riferimento (il “pubblico”) sono i consumatori finali e gli utenti del servizio. 29. Limiti alla tutela. La tutela del segno è limitata da due punti di vista: - Merceologico: quando un medesimo segno sia adottato da due imprenditori merceologicamente molto lontani (per esempio uno operante nel settore delle bicilette e uno nel settore delle caramelle), sarà difficile ipotizzare una confusione sull’origine. Tuttavia sarebbe sbagliato anche escludere una possibilità di confusione ogniqualvolta i prodotti o servizi delle parti non siano i medesimi: per questo si ritiene che la tutela si estenda anche alle ipotesi in cui un segno sia imitato da un concorrente che ponga sul mercato prodotti o servizi affini a quelli del titolare del segno; la tutela varia in base alla misura della capacità distintiva del segno. - Territoriale: l'ambito della tutela dovrà coincidere con quello della notorietà qualificata raggiunta; ove infatti un segno avesse raggiunto notorietà solo in una zona del territorio italiano, non avrebbe senso estendere al di là di questo la tutela del segno stesso. Va però detto che l’aumento della mobilità e quello dei mezzi di comunicazione di massa rende sempre meno frequenti (e comunque marginali) i casi di notorietà meramente locale. 31. La novità del segno. Per godere di tutela è necessario anche i...


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