Cristo si è fermato a Eboli - Riassunto PDF

Title Cristo si è fermato a Eboli - Riassunto
Course Letteratura Italiana
Institution Università degli Studi di Catania
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Summary

Riassunto dettagliato dei vari capitoli e dei saggi presenti nell'edizione. ...


Description

“Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi (Autobiografia) Biografia di Carlo Levi Carlo Levi nacque a Torino nel 1902 e morì a Roma nel 1975. Si laureò in medicina, ma preferì occuparsi di arte e di letteratura. Ebbe una grande passione per la politica: durante un viaggio in Francia vide le opere dei fauves leggendovi un incitamento alla ribellione contro la retorica fascista e la cultura ufficiale in genere. Fece parte dei "Sei pittori di Torino", un gruppo in aperta opposizione agli altri schemi accademici. La sua attività di giornalista e di direttore de "La lotta politica" non potevano sfuggire alla polizia fascista. Venne condannato al confine in Lucania, dove residette dal 1935 al 1936. Qui scoprì il problema meridionale. Non fu autorizzato a esercitare la professione medica. Si dedicò alla pittura ritraendo la gente e la natura del luogo.

Il titolo Il titolo è legato alla cultura lucana. «Noi non siamo cristiani», dicono i lucani. «Cristo si è fermato a Eboli». “Cristiano”, nel loro linguaggio, vuol dire “uomo”: questa frase proverbiale è l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Sta a significare: «Noi non siamo uomini, ma siamo considerati bestie, o anche meno, che devono subire e sopportare il peso del mondo dei cristiani». La condizione dei contadini della Lucania è definibile, secondo Levi, come anteriore alla storia e il Cristo, che si è fermato davvero a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare e si addentrano nelle desolate terre di Lucania, sta nel libro a segnare il limite tra due epoche: quella umana e quella preumana. I contadini non partecipano alla Storia, da cui li esclude il sistema sociale, sopravvivono con l’unica possibilità di patire insieme. È un legame non religioso, ma naturale. Non hanno e non possono avere la “coscienza politica”, perché sono pagini, non cittadini. Da molti Cristo si è fermato a Eboli è considerato il primo e unico libro di Carlo Levi. In realtà, egli scrisse anche: -Paura della libertà: un saggio sulla ricerca del perché del distacco degli Intellettuali borghesi dalle masse, la colpa di essersi lasciati in pratica sostituire dal fascismo e il bisogno di ordine esteriore da assumere a riprova della inesistente moralità; -L’Orologio: ritratto romanzato del passaggio del potere dall’Italia resistenziale di Ferruccio Parri all’Italia della guerra fredda di Alcide De Gasperi; -Altre opere minori, tutte pubblicate con Einaudi.

Introduzione di Italo Calvino Un libro da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi è Paura della libertà, il primo che egli scrisse. Un libro raro nella nostra letteratura, inteso a imporre le grandi linee d’unca concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia. Levi lo scrisse tra il ’39 e il ’40, mentre era esule in Francia. L’ottimismo proverbiale di Levi ha tanto mordente quanto significato, perché è un ottimismo fatto di calma interiore, come stile; e la classicità della parola si realizza di fronte a una materia che è tragedia. La meditazione di Levi si basa sull’opposizione tra sacro e religioso e da essa prende forma una selva di figure allegoriche: nella forata allusività e reticenza che la situazione esterna imponeva, la temperatura magica del libro si carica e la scrittura sostenuta su un tono evocativo, ieratico (= di atteggiamento solenne e grave). C’è nel libro un alto livello intellettuale, vi si respira la cultura europea in cui Levi ha affondato le sue radici; c’è la passione di sistemarne tutti i dati in un discorso coerente e non ancora il timore

di spezzare l’armonia d’una sistemazione con nuove acquisizioni, con nuove messe in questione; non ancora, insomma, l’olimpicità culturalmente paga di se stessa che Levi si forgiò in seguito come una corazza contro tanta parte del problematismo contemporaneo. Con Paura della libertà la passione dell’intelligenza in un momento di scacco generale muove a inglobare e classificare istituzioni, miti, personaggi storici, movimenti profondi dell’animo umano. Questa vena di discorso intellettuale è in Paura della libertà che è animata da una forza continua, mentre nell’Orologio il discorso è distribuito tra vari personaggi, diventa una specie di complesso dialogo filosofico. È il suo libro più costruito, più “scritto”, soprattutto all’inizio, e contiene alcune delle sue pagine più belle, mosse e complesse. È da questo nucleo teorico che bisogna partire per esaminare l’opera di Levi direttamente legata alla testimonianza del nostro tempo. La particolarità di Levi è che egli è il testimone della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro. Il protagonista di Cristo si è fermato a Eboli è un uomo impegnato nella storia che si ritrova in un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più: sono più complesse e più elementari allo stesso tempo. Levi cerca di fissare i punti di passaggio da quel mondo alla storia. Perché è in quel mondo tenuto finora fuori dalla storia che Levi vede una potenziale forza storica determinante. La “rivoluzione contadina” di cui Levi si faceva profeta nel ’45 è diventato uno dei termini del grande dibattito storico del secolo, anche se il quadro si è spostato da quello della meridionalistica italiana a un quadro afroasiatico e latinoamericano. La sua è una strada di chi osserva e rappresenta. In questo senso Calvino ha parlato di Levi come d’un ambasciatore del mondo “contadino” presso il nostro mondo urbano. Le notizie che arrivano allo studio di Levi raramente si trovano sui giornali: sono notizie di paesi dove prima dell’alba gli uomini sono in marcia per raggiungere i campi lontani, notizie di lutti, di arresti, di occupazioni di terre, ma anche notizie di filtri d’amore, incantesimi, spiriti notturni. Che il mondo vero sia quello e non il nostro è per lui una certezza; ma quello che conta è questo senso della compresenza dei tempi che Levi trasmette. Una concezione che potrebbe essere vertiginosa e drammatica se Levi non ce la presentasse costantemente gremita di cose, persone, animali e piante, viste e descritte con grande amore. Questa dell’amore per le cose di cui parla è una caratteristica che bisogna tener presente se si vuole riuscire a definire la singolarità dell’operazione letteraria di Levi. Perché quest’uomo che si dice sempre che metta se stesso al centro d’ogni narrazione è poi lo scrittore più dedito alle cose, al mondo oggettivo, alle persone. La sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione.

Introduzione di Jean-Paul Sartre Sartre rimane colpito dalla forte capacità di adattamento di Levi: ovunque si trovi, sembra a casa propria. Non per arroganza, ma per la sua sensibilità che lo rende capace di sentirsi a suo agio in mezzo agli altri. In Levi c’è una passione della vita, poiché la sua singolare esistenza non può realizzarsi che attraverso una specie di amorosa curiosità per tutte le forme umane del vissuto. Spesso racconta ciò che gli altri chiamerebbero aneddoti: si tratta, a volte, di un particolare, di un gesto intraveduto, di una semplice apparizione; ma ogni volta, dietro la singolarità del fatto raccontato, si può intravedere tutto un mondo –il nostro mondo- in quanto esprime e si realizza nella qualità fuggitiva di una presenza subito dileguata. Darà a tutto questo il nome di senso, ovvero l’incarnarsi del tutto in ciascuna parte, in contrapposizione ai significati.

Discernere “natura” e “cultura” non è possibile: i propositi dello scrittore non si distinguono da quelli dell’uomo. Essere se stesso, per Levi, significa ridurre l’universale al singolare. Scrivere è comunicare questo incomunicabile: l’universalità singolare. L’alto valore di tutte le sue opere si fonda su un duplice rifiuto: egli respinge contemporaneamente l’oggettività di maniera e la pura soggettività. Non c’è uno solo dei suoi libri che nel rappresentare un’avventura della sua vita non racconti il mondo, ma al tempo stesso tramite il mondo oggettivo si afferra la singolarità dell’autore. Cristo si è fermato a Eboli fa parte di una sorta di autobiografia che non può svolgersi altrimenti che ricostruendo la storia della società italiana, dal fascismo ai anni del dopoguerra. Il centro della sua arte è che il moto di universalizzazione è tutt’uno con l’approfondimento del concreto. Ci ha sempre posto contemporaneamente su due piani: quello della storia e quello delle sue storie. Per fare ciò, Sartre sostiene che bisogna avere il coraggio di rifiutare tutti i realismi in nome della realtà. Ciò permette a Levi di farci vivere il senso della nostra epoca. Il vero segreto di tutto ciò, però, è quello che Sartre definisce bontà. Si tratta di una disposizione originale: si direbbe che la vita l’abbia scelto per amarsi in lui e attraverso lui, in tutte le sue forme. Quella curiosità di cui poco fa ho parlato, e che ha fatto di lui lo scrittore di cui non possiamo dimenticarci, è nata dalla passione di vivere, che lo induce a cogliere un valore, in se stesso e negli altri, ogni esperienza vissuta. In Levi tutto si accorda, tutto si tiene. Medico prima, scrittore poi per il suo immenso rispetto per la vita. E questo stesso rispetto è all’origine del suo impegno politico, così come alla sorgente della sua arte.

Sintesi Libro Capitolo 1 Viene spiegato il titolo del libro (leggi sopra). Capitolo 2 Levi racconta del giorno in cui arriva a Gagliano da Grassano, accompagnato da due rappresentanti dello Stato. In generale, è un capitolo abbastanza descrittivo. Gagliano non gli fa un grande effetto, all’inizio: un po’ perché gli sembra un posto tranquillo, un po’ perché vede il paese come un mero insieme di casette sparse, con una certa pretesa nella loro miseria. Impressioni parzialmente fondate. I colori a cui l’autore fa più riferimento sono il bianco dell’argilla e il nero di alcuni stendardi posti fuori dalle case che incorniciano le porte (tradizione: quando qualcuno muore, si tengono questi stendardi fino a quando non sbiadiscono). Il segretario comunale che “accoglie” Levi lo manda dalla cognata vedova, che in casa ha una stanza apposta per i viandanti. Il marito sembrerebbe che sia morto a causa di un veleno datogli dall’amante, con la quale ebbe una figlia. La casa non è particolarmente accogliente. Nemmeno il tempo di posare le cose che i contadini chiedono di Levi, come medico. Non ci sono medici in paese e hanno un estremo bisogno di lui: un loro compagno sta morendo. Purtroppo non c’è più nulla da fare.

Capitolo 3 Gagliano si divide in Gagliano di Sopra (parte alta) e Gagliano di Sotto (parte bassa). Crepuscolo. Il podestà, un giovane altro e robusto, riconosce Levi e lo chiama. È il professore -non lo è realmente, in realtà è un insegnante delle elementari il cui compito è quello di sorvegliare i confini del paese- Magalone Luigi, fascista e fiero di esserlo. È orgoglioso di esercitare il suo potere su un uomo colto come lui –o almeno così credere di essere-. Luigi descrive Gagliano come un luogo ricco e salubre, con un unico problema: la malaria. Luigi insiste affinché Levi continui a curare le persone, ma l’autore preferisce di no. Arriva lo zio di Luigi, il vecchio dottor Milillo, che non si mostra contento dell’arrivo di Levi; quest’ultimo, però, lo rasserena quando gli assicura di non voler esercitare la professione. Come il nipote, Milillo cerca di far sfoggio della sua cultura, ma senza successo –sembrerebbe aver dimenticato tutto ciò che riguarda la medicina-. Levi, per trarlo in salvo da quel mare d’ignoranza, gli chiede del paese e della gente. Milillo descrive degli abitanti buoni, ma ignoranti, e lo mette in guardia suggerendogli di non accettare nulla dalle contadine, poiché queste tenteranno di rifilarli un filtro d’amore. Levi non segue il consiglio e dichiara di mangiare e bere tutto ciò che gli viene offerto. L’altro medico del paese, Gibilisco, di cui Luigi non sembrerebbe aver gran rispetto, appare piuttosto incuriosito da Levi. È un anziano panciuto, con una barba grigia. Si lamenta dei contadini perché non lo contattano quando stanno male, o se lo fanno non vogliono pagare. Anche Gibilisco tenta di mostrare la propria cultura a Levi, che si accorge subito di avere a che fare con una persona addirittura più ignorante di Milillo. Gibilisco è medico non per vocazione, ma per mero lucro. Tutta la sua famiglia è così, comprese le due nipoti farmaciste che non sono autorizzate a esercitare. I contadini sono ostinati e diffidenti, per questo muoiono in continuazione. Il brigadiere dei carabinieri, amante della levatrice, guarda Levi come fosse un criminale da tenere d’occhio, poi confabula col podestà. Dopo ci viene presentato S., avvocato, che è anche il più ricco ed è considerato un brav’uomo. È triste perché il suo unico figlio maschio è morto l’anno precedente. Per tradizione, le figlie Concetta e Maria sono recluse per un anno. Fosse morto il padre, avrebbero dovuto passare tre anni recluse. L’altro avvocato, P., è un giovanotto allegro. Ha ereditato una casa in paese da un suo parente, che gliel’ha lasciata a patto che si laureasse. Ha perso parte della sua eredità con il gioco e alcune sue proprietà sono ipotecate. Il vino lo rende aggressivo. Ad un certo punto, tutti vanno all’ufficio postale in attesa che don Cosimino porti i pacchi contenenti i giornali e la corrispondenza. Il podestà e il brigadiere entrano per primi e, con la scusa, danno un’occhiata alla posta altrui. Col cane Barone, Levi torna nella sua attuale residenza e, guardando il paesaggio, sente d’essere caduto dal cielo, come una pietra in uno stagno.

Capitolo 4

Cena. Levi attende che la vedova finisca di cucinare. Riflettendo sulla malignità degli uomini di potere del paese, Levi sottolinea come questi ultimi siano comunque capaci solo di passioni e azioni più elementari, essendo loro imprigionati in un posto lontano dai paradisi di Napoli o di Roma. A Gagliano dovrà passare ben tre anni, un tempo che gli sembra infinito. L’autore si chiede chi diventerà il suo informatore. Viene posto un paragone con Grassano: sicuramente più grande, ma pieno di disonestà e di violenza. Qui il suo informatore era il capo della Milizia, il tenente Decunto, per il quale la situazione di Grassano era invivibile anche e soprattutto per colpa del fascismo. All’inizio Levi pensò che stesse esagerando, ma poi dovette ricredersi. Il tenente Decunto gli raccontò una breve storia della sua famiglia, che definì “liberale”. Le lotte tra signori di cui gli parlò si trovano, nelle stesse forme, in tutti i paesi della Lucania. Chi può va altrove per cercare una vita migliore, a casa rimangono “gli scarti”, che sono inetti e l’unico modo per avere qualcosa è sfruttando i più deboli. Avere il potere è una questione di vita o di morte. Il tenente Decunto decise di andare in Africa per scappare da quel clima. Capitolo 5 La vedova mette in tavola pane nero e acqua. Levi osserva un certo via vai di donne, le quali fingono di non vederlo, ma una volta ogni tanto gli danno un’occhiata furtiva. Queste persone non gli sembrano donne, ma soldati senza femminilità. Non capisce cosa dicano, essendo il loro un dialetto nuovo per lui. In cucina entra un nuovo personaggio: l’ufficiale Esattoriale di Stigliano, che veniva spesso a Gagliano per i doveri del suo ufficio. Avendo fatto tardi, è costretto a dormire dalla vedova. Non parla volentieri del suo mestiere, ma è un musicista appassionato. Dividono la stanza, assai più triste di quella di Prisco: buia, stretta, con una finestrucola in fondo, le pareti sporche e scrostate. I due iniziano a parlare. Levi chiede all’altro ospite come stia andando il suo lavoro. L’ufficiale gli dice che va male, perché si occupa dei pignoramenti che sono difficili da portare a termine, dato che sono tutti molto poveri e sono malati. Il discorso è evidentemente pesante per lui, così Levi decide di spostare la conversazione sulla musica. Gli richiede una tipica canzone dei contadini, ma al musicista non viene in mente nulla. Levi riflette sul fatto che nemmeno a Grassano aveva sentito niente di particolare. Entrambi si addormentano. Capitolo 6 Levi si sveglia a causa del rumore continuato degli zoccoli degli asini sulle pietre della strada e dal belare delle capre. I contadini fanno molta strada per raggiungere il loro campo. Il compagno di stanza di Levi non c’è più, se n’è già andato. Molte donne vanno da Levi coi loro figli affinché li curi. Dà loro qualche consiglio, poi si congeda per fare un giro di perlustrazione. Qua incontra Don Giuseppe Trajella, il prete del paese che si lamenta di fare messa solo ai bambini –non battezzati- e del fatto di attendere ancora dei soldi che gli spettano. Non è molto amato nel suo paese e tutti ne parlano male. Si dice che si trovi in questo posto perché pedofilo. Don Giuseppe Trajella invita Levi nella sua chiesa, non molto curata e poco fornita –es. non ha campanile-.

Assieme al cane Barone, Levi va via, verso le prime case del paese. È un gruppo di case costruite in disordine ai lati della strada, con attorno degli orticelli stenti e qualche magro olivo. Sono quasi tutte monolocali, senza finestre, con le porte sbarrate poiché i contadini sono nei campi. Le case degli “americani” sono più carine. C’è anche un campo sportivo, opera del podestà Magalone. Levi passa davanti alla scuola e il podestà lo saluta mentre fa lezione. Luigi dice a Levi che gli vuole presentare sua sorella e che quest’ultima aiuterà l’artista a trovare una casa adatta al suo rango. Levi continua la sua perlustrazione e incontra uno zoppo che soffia all’interno di una capra morta, poi ne rovescia la pelle dicendo che “così non si sciupa e si possono farne degli orci”. Ciò avviene per via di un decreto imposto perché si pensa che le capre siano dannose per l’agricoltura. O si paga una tassa, o si uccide l’animale. Infatti lui uccide le sue capre per vendere la loro carne. Alla fine sarà lui a trovargli un posto dove stare, un luogo che viene descritto come dotato di un “triste incanto”. Scopre che esistono altri due confinati come lui, uno studente e un muratore comunista. Questi tre non potrebbero stare nello stesso posto perché il comunista, un tempo, aveva tentato di istruire i contadini ignoranti con le teoria darwiniane, che come ben sappiamo vanno contro il pensiero cattolico. In ogni caso, i contadini vogliono bene al muratore, che sa fare di tutto. A dare queste informazioni a Levi è Don Cosimo, il gobbo della posta. Capitolo 7 Levi incontra la sorella del podestà, donna Caterina Magalone Cuscianna, l’amabilità in persona. La donna ha un aspetto malsano e non è particolarmente bella. Mentre la sorella parla, don Luigi resta in silenzio; poi se ne va perché ha da fare. Caterina tratta molto bene Levi, gli offre da mangiare e si mostra contenta di averlo in paese. Inizia però a insultare le due farmaciste, mostrando a Levi di quanto odio sia capace nei confronti di molti membri della sua stessa famiglia. Vede Levi come la soluzione a tutto: mandare in rovina tutti con le sue abilità di medico –che lui, riconosce più volte, di non avere-. Ce l’ha soprattutto con una delle figlie del farmacista perché, a detta sua, ha una relazione col marito. Caterina sospetta che i due amanti vogliano avvelenarla con le medicine. Il marito di Caterina è in Africa perché, sempre a detta sua, vuole redimersi. Nella scena compare il suocero di Caterina, un maestro in pensione malato e sordo, e dei Milillo: Maria, Margherita –tutte due ben sistemate per il medico Levi- il fratello e il padre. Levi torna dalla vedova che ormai è il crepuscolo. Capitolo 8 Levi rimane per altri 20 giorni in casa della vedova. II campanaro, un ragazzotto sui 18 anni, suona una sua triste fantasia interminabile: per tutte le occasioni, è sempre la campana a morto. Tra mosche e altri animali molesti, l’estate pare più insopportabile. I contadini dicono che la capra è un animale diabolico. Non vuol dire che sia cattiva. Per il contadino è realmente quello che era un tempo il Satiro.

Levi va verso il cimitero con questi occhi, quelli di una capra, che lo osservano. Il cimitero è il solo luogo chiuso, fresco e solitario del paese. E anche il meno triste. Ci va spesso a passare delle ore ...


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