De Angelis - Gloria Anzaldua e la politica del mestizaje PDF

Title De Angelis - Gloria Anzaldua e la politica del mestizaje
Author Klaudia Çollaku
Course Lingue, Culture e Letterature Anglo - Americane 
Institution Università degli Studi di Bari Aldo Moro
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Gloria Anzaldúa e la politica del mestizaje Valerio Massimo De Angelis

Università di Macerata Gloria Anzaldúa è stata (è scomparsa nel 2004) una scrittrice e attivista, omosessuale (o meglio queer) e femminista, interessata soprattutto alla ridefinizione dell’identità culturale e di genere messicano-americana, spesso secondo una prospettiva che privilegia la dimensione linguistica di questa identità. Nata in Texas, nella Valle del Río Grande, da genitori di origine messicana, discende sia da alcuni dei primi colonizzatori spagnoli (baschi) del Messico sia da antenati indigeni. Più che alla elaborazione di una propria distintiva cifra letteraria individuale, l’impegno di Anzaldúa è stato diretto soprattutto alla creazione di reti di relazioni tra autrici e intellettuali chicane o comunque di etnia “mista”, curando raccolte come This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color (1983), assieme a Cherríe Moraga, o Making Face, Making Soul / Haciendo Caras: Creative and Critical Perspectives by Women of Color (1990). Il suo testo più famoso è però il personalissimo Borderlands / La Frontera: The New Mestiza (1987), di assai difficile identificazione in termini di genere, letterario e non. La sua configurazione intreccia l’autobiografia linguistica e sessuale con il manifesto politico, e la storiografia e l’antropologia con la poesia, al punto che ad alcuni critici è sembrato necessario, per definirla, coniare neologismi come “communo-biography” (DE HERNANDEZ 1996) o “autohistoriateoría” (ALDAMA 2000), escludendo comunque dal termine la dimensione prettamente poetica. Ian Bernard sottolinea come, in quanto testo letterario, Borderlands / La Frontera shatters any notion of identity as unitary, fixed, stable, or comfortable in its resistance to the categories of genre that inform traditional English courses and the disciplinary demarcations that constitute academic institutions in general. It seems to encompass, for instance, poetry, theory, autobiography, mythology, criticism, narrative, history, and political science, while suggesting the limitations of these delimitations and, ultimately, of delimitation itself. (BARNARD 1997: 45-46) Se la seconda parte del libro è infatti sostanzialmente una raccolta poetica che traspone nella lingua del verso le intuizioni e le teorie proposte nella prima, in questa (“Atravesando Fronteras / Crossing Borders”), in cui la scrittura saggistica si alterna senza soluzione di continuità con inserti poetici, Anzaldúa ripercorre la storia dell’“espropriazione” materiale e culturale, da parte degli anglos, delle terre che fino al 1848 appartenevano al Messico, e che con il trattato di Guadalupe-Hidalgo divennero parte degli Stati Uniti – un territorio che il Rinascimento chicano, il movimento di rivendicazione dei diritti civili dei messicano-americani, denomina Aztlán, la terra d’origine della cultura azteca. L’autrice recupera e reinventa alcuni miti femminili nati dal contatto/scontro della civiltà nativa con la civiltà europea, come quello della Malinche, la traduttrice-amante nativa di Cortés a lungo ritenuta dai discendenti degli aztechi una “traditrice” e da Anzaldúa presentata come esempio di dolorosa intermediazione linguistico-culturale, o della Virgen de Guadalupe, la Madonna messicana frutto della fusione sincretica con la divinità azteca Coatlique; ma racconta anche della sua esperienza personale di donna lesbica e chicana, e quindi tre volte marginalizzata dalla cultura dominante, e traccia una mappa dinamicamente cangiante delle varie lingue e delle loro varie contaminazioni che contraddistinguono il panorama 1

linguistico delle borderlands tra Messico e Stati Uniti, prendendo come esempio la sua complessa biografia linguistica individuale. Per certi versi, è proprio il plurilinguismo l’aspetto determinante, assai più delle ascendenze etniche, del concetto di meticciato, mestizaje, perché è attraverso le diverse declinazioni della sua competenza linguistica che il soggetto mestizo (o dovremmo dire mestiza, al femminile, come genere per Anzaldúa universale in quanto generatore della vita) acquisisce la sua identità culturale – una identità che non può essere costretta entro i confini politici degli stati e che si inserisce nell’orizzonte più vasto della Raza, termine che non ha le connotazioni ovviamente “razziste” della sua traduzione italiana perché comprende, secondo la definizione di chi lo ha coniato nel 1925, il filosofo messicano José Vasconcelos Calderón, tutte le cosiddette “razze” che popolano il continente americano (quella bianca, quella nera, e quella nativa), e che compongono l’universale “raza cósmica” (cfr. VASCONCELOS CALDERÓN 1925). Questo “meticciato” si riflette nell’articolazione stilistica del testo fin dai “riconoscimenti”, espressi per via di uno slittamento dalla forma esplicitamente poetica dell’esordio (“To you who walked with me and who held out a hand when I stumbled; / to you who brushed past me at crossroads never to touch me again”) a una via di mezzo tra il linguaggio lirico e l’acknowledgment tradizionale (to Kit Quan, for feeding me and listening to me rant and rave; / to Melanie Kaye/Kantrowitz, for believing in me and being there for me) fino alla struttura più prosaicamente standard del resto delle due lunghe pagine, che si chiudono però, circolarmente, con una disposizione grafica tipica dell’articolazione della scrittura poetica, in cui l’autrice fa anche uso del code switching tra inglese e spagnolo (contrassegnato dal passaggio dal tondo al corsivo): and especially to the memory of my father, Urbano, and my grandmothers, Eloisa (Locha) and Ramona; gracias a toditos ustedes. THIS BOOK is dedicated a todos mexicanos on both sides of the border. (ANZALDÚA 1987: s.n.p.) Ma già il titolo propone un code switching che a prima vista sembrerebbe semplicemente un esempio di traduzione interlinguistica della stessa espressione, e che invece “traduce” nello shifting (o dovremmo dire desplazamiento?) dei significati dall’inglese allo spagnolo la poetica/politica della lingua di Anzaldúa. L’autrice infatti non si limita ad assegnare uguale “dignità” alla lingua dominata e “locale” (lo spagnolo) – e alla cultura che in essa si esprime – rispetto alla lingua dominante e “globale” (l’inglese), ma teorizza e mette in pratica procedure di “meticciato” linguistico-culturale che a loro volta non mirano a una riproposizione del mito americano del melting pot, dove tutto andrebbe a fondersi in un’indistinta “uguaglianza”, ma viceversa a configurare un universo plurilingue e pluriculturale basato sullo scambio e sulla contaminazione – in alternativa, se non in contrapposizione, alla politica standard del multiculturalismo angloamericano che prevede solo il riconoscimento di diverse lingue e culture distinte e separate, tutt’al più “protette” ma non comunicanti tra loro. Nel titolo “La Frontera” in effetti non traduce “Borderlands”, ma in qualche modo lo qualifica e lo localizza, e di converso l’espressione inglese permette a quella spagnola di assumere un valore più generale, globale. “Borderlands”, al plurale, indica tutte le “terre di confine” in cui diversi “mondi”, con diverse posizioni di potere, si toccano e, secondo l’immagine di Anzaldúa, aprono una ferita che sanguina. “La Frontera”, al singolare, si 2

riferisce invece allo specifico confine tra Messico e Stati Uniti, ma il termine, in un testo che prevede di essere letto soprattutto da un pubblico statunitense, non può essere interpretato semplicemente secondo l’accezione che ad esso diamo in Europa (appunto quello di un confine, di una linea che demarca la separazione tra due spazi politicamente ben distinti), ma di per sé rimanda alla nozione tipicamente americana di spazio intermedio in continuo movimento e trasformazione dove la civiltà europea e quella nativa vengono a confrontarsi e a scontrarsi. Anziché tradursi reciprocamente, quindi, le due espressioni si arricchiscono l’una con l’altra, acquisendo connotazioni più vaste o viceversa più precise – proprio quel che la politica del “meticciato” linguistico dovrebbe promuovere. Anche nel sottotitolo coesistono inglese e spagnolo: qui assistiamo più propriamente a un fenomeno di code mixing (in italiano, con definizione un po’ barocca, “commutazione di codice interfrasale”) perché il passaggio dall’inglese allo spagnolo avviene non per spiegare in un’altra lingua quel che si è appena detto o per transitare da una frase (o sezione discreta di essa) all’altra, ma per usare all’interno della frase l’espressione più adatta offerta di volta in volta da questa o quella lingua. In inglese, al contrario dell’italiano (o del francese), non esiste infatti una parola che abbia la stessa estensione semantica, al tempo stesso genetica/etnica e culturale, dello spagnolo mestizo/a/aje, perché la sua traduzione solo apparentemente letterale, crossbred e derivati, si riferisce all’incrocio tra diverse linee di sangue, e solo di recente ha acquisito connotazioni analoghe – ma fino a un certo punto: nella traduzione inglese di El pensamiento mestizo (2000), The Mestizo Mind: The Intellectual Dynamics of Colonization and Globalization, il traduttore di Serge Guzinski deve infatti lasciare “mestizo” invariato nel titolo e ricorrere nel testo all’espressione “mestizo crossbreeding” (non so quale sia l’originale spagnolo: forse “cruzado mestizo”?) per manifestare l’intenzione dell’autore di disarticolare l’implicito presupposto dell’esistenza di “pure, physically distinct human groups separated by barriers” – “an embarrassing presupposition for people seeking to free themselves from the notion of race” (GUZINSKI 2002: 19). Comunque sia, la nozione di mestizaje proposta da Gloria Anzaldúa procede innanzitutto dalla sua personale biografia linguistica, dalla quale emerge tutta la complessità (ma anche tutta la ricchezza) delle diverse identità – innanzitutto linguistiche, appunto – che vengono a comporre l’universo mestizo. Nel capitolo “How to Tame a Wild Tongue” (pp. 54-55) l’autrice ricorda per esempio lo shock non della recognition, ma del suo contrario, nell’udire una donna cubana e una donna portoricana riferirsi a sé stesse come nosotras, e cioè con il femminile anziché con il maschile “neutro” nosostros cui lei era stata abituata: la cancellazione dell’identità femminile nel pronome personale plurale porta Anzaldúa a riflettere sulla “posizione culturale” della sua lingua madre (o meglio di quella che in misura maggiore rispetto alle altre può rivendicare questo ruolo), lo spagnolo chicano, e nel farlo, oltre a sottolineare il carattere ibrido di questa lingua, deve elencare anche le altre lingue e i dialetti con cui essa si relaziona, e che Anzaldúa parla – e molte di queste realtà linguistiche sono altrettanto ibride. A questo punto occorrerebbe aprire una parentesi per specificare con esattezza a che cosa si riferiscono queste denominazioni (cosa che l’autrice fa con grande efficacia nel testo). Il primo termine da chiarire è “chicano/a”, che si riferisce alla popolazione di origine messicana residente negli Stati Uniti d’America. In altre parole, un/a chicano/a è tale anche se non è cittadino statunitense, ma si trova nel territorio degli USA. L’origine del termine è tuttora oggetto di dibattito, ma quella più accreditata lo ritiene una forma abbreviata di “Mejicano/a”, pronunciato seguendo la dizione nativa nahuatl; la sua prima occorrenza fu documenta nel 1911 dal poeta Tito Villanueva. Potrebbe essere ritenuto un sinonimo di “messicano-americano”, ma anche questa definizione merita un 3

approfondimento. All’inizio il termine aveva connotazioni dispregiative, anche all’interno della comunità messicano-americana, perché indicava individui che venivano giudicati incapaci di pronunciare correttamente lo spagnolo (sia quello castigliano sia quello messicano). Con la Chicano Renaissance degli anni Sessanta del Novecento è diventato invece strumento di autoidentificazione della comunità messicano-americana, sebbene al suo interno continuino ancora oggi a manifestarsi resistenze perché molti ritengono che “chicano/a” sia comunque indicazione dell’incapacità di aderire o all’identità statunitense o a quella messicana, che i più conservatori” cercano di preservare secondo un’ideale di “purezza” peraltro smentito dalla realtà etnografica della popolazione messicana in quanto tale, che è “meticcia” per il 60%, amerindia per il 20% e di origine europea per il 16%. Il termine “chicano/a” invece rivendica proprio questa mescolanza, ed evita inoltre l’illogico connubio “messicano-americano”, in cui si presume che di norma un messicano non sia anche americano. Ovviamente l’equivoco discende dall’accezione “imperialisticamente” restrittiva che negli Stati Uniti si dà della parola “American”, riducendone il campo semantico e politico ai soli USA. D’altro canto, gli Stati Uniti sono l’unica nazione a non possedere un nome – “Stati Uniti” non distingue una precisa entità geografico-politica: è come chiamare una nazione “Nazione” o “Paese”. E sia in inglese sia in italiano usare l’aggettivo riferito agli Stati Uniti diventa davvero problematico proprio quando si devono indicare le identità “miste” – se “US-Italian” o “Italian US” e “italo-statunitense”, per quanto ineleganti, potrebbero funzionare, in altri casi si creerebbero denominazioni piuttosto cervellotiche: si pensi per esempio ai “nativi americani”, che dovrebbero assurdamente diventare “nativi statunitensi”… La soluzione meno peregrina sta proprio nella strategia “situazionale” che Anzaldúa propone quando elenca i vari contesti in cui si attivano le sue diverse identità linguistiche: allo stesso modo, se si chiarisce fin dall’inizio che un determinato termine, in questo caso “American”, viene utilizzato con questa o quella specifica accezione, più o meno estesa a seconda della situazione in cui viene usato, si esce dalle secche di un nominalismo monolitico e immobile che ignora la polisemanticità dinamica delle lingue. Tutti questi problemi appunto apparentemente nominalistici si riverberano nella politica della lingua mestiza che Anzaldúa propone in Borderlands / La Frontera, una politica che si configura come strategia di resistenza nei confronti di quello che lei chiama “linguistic terrorism”, e che, in una nazione che peraltro non ha una lingua nazionale ufficiale, opera sistematicamente per cancellare le identità linguistiche nonanglofone – quest’ultima è una pratica che negli ultimi anni era fortunatamente in declino, ma solo fino a un certo punto, se si pensa che nel 2012 il Distretto scolastico di Tucson in Arizona ha bandito il libro di Anzaldúa assieme ai Mexican American Studies nel loro complesso (e la situazione minaccia di peggiorare rapidamente e radicalmente dopo le ultime lezioni presidenziali). Per altri versi, proprio questa disposizione testimonia della necessità tuttora attuale di un politica della lingua mestiza come quella proposta da Gloria Anzaldúa. Le Borderlands/Frontera(s) di Anzaldúa in effetti illustrano perfettamente i concetti di pluri/multi-linguismo e pluri/multi-culturalismo nel contesto statunitense. L’accezione della coppia di termini pluri/multi-linguismo/culturalismo, come si sa, spesso slitta e si confonde, e spesso lo stesso termine indica concetti diversi in diversi contesti o viceversa lo stesso concetto è rappresentato da diversi termini. Va da sé che i prefissi multi- e pluri- dovrebbero essere sostanzialmente sinonimi, ma nell’uso che se ne è fatto soprattutto dopo l’ufficializzazione del termine multiculturalismo nella costituzione canadese con l’adozione, nel 1982, della nuova Carta dei diritti e delle libertà, sono emerse delle differenze, che possono essere così sintetizzate e che sarebbe il caso di tener presenti quando si impiegano questi termini. Quando il termine 4

“multiculturalismo” è stato inserito nella costituzione canadese, si riferiva a una situazione in cui lo stesso territorio era abitato da più gruppi linguistico-culturali, a partire dai due gruppi dominanti, quello inglese e quello francese. Il tratto determinante della definizione era cioè la compresenza in uno stesso spazio di più entità linguisticoculturali discrete, senza prendere in grande considerazioni eventuali dialoghi o contaminazioni tra i vari gruppi: ciò che premeva al governo canadese era cioè riconoscere l’esistenza di differenze cui andava concessa uguale dignità politica. La stessa accezione del termine si è poi imposta anche nella cultura statunitense, che usa “multiculturalismo” appunto per definire la compresenza di più gruppi etnico-linguistici tra loro distinti nel proprio territorio. Possiamo quindi intendere il termine “multiculturalismo” in senso paratattico, ovvero per indicare una pluralità di soggetti o gruppi “giustapposti”, considerati l’uno accanto all’altro e sullo stesso piano ma senza interrelazioni che conducano a significative contaminazioni reciproche (o che comunque siano significative per la cultura egemone). I termini plurilinguismo e pluriculturalismo, a questo punto, possono e dovrebbero essere impiegati per designare un fenomeno diverso, di natura per così dire sintattica, perché la “pluralità” del suffisso si riferisce allo stesso soggetto o gruppo, che è plurilingue o pluriculturale se contiene al suo interno più di un’identità linguistico-culturale, e se queste identità dialogano tra loro. Le forme più evidenti di pluriculturalismo sarebbero ad esempio quelle che si manifestano nel sincretismo, mentre il plurilinguismo è facilmente rilevabile nel code switching. Per Anzaldúa questo meticciato plurilinguistico e pluriculturale si esprime appunto nell’uso del code-switching non come forma “difensiva” di ricorso all’altra lingua (di norma, ma non sempre, lo spagnolo: a volte i chicani sono più competenti nell’inglese) quando non si trovano le parole giuste nell’una, ma come fonte di arricchimento, strumento di creatività plurilinguistica. Si tratta ovviamente di una forma d’espressione che ha dovuto riscattarsi rispetto a un sistema culturale che almeno fino a tempi recenti prevedeva una sostanziale monoliticità non solo per quanto concerne l’identità etnica ma anche quella linguistica. Del resto, lo stesso rapporto tra spagnolo e inglese è assai più complesso di una semplice dialettica binaria tra lingua dominante e lingua residuale/emergente. Gloria Anzaldúa è giunta a individuare fino a otto varianti di lingue parlate dai chicani, partendo dalla sua stessa esperienza di utilizzatrice di almeno otto varianti dell’inglese, dello spagnolo, e delle loro contaminazioni. Inoltre, l’autrice si premura di localizzare sempre con estrema precisione geo-politica e culturale l’universo (pluri)linguistico che sta descrivendo – la specifica “terra di frontiera” sui due lati del Río Grande, privilegiando il lato “statunitense”, che si estende peraltro ben oltre le terre immediatamente limitrofe al Messico, arrivando fino a grandi città del Midwest o del Nord-Est come Chicago o New York. I rapporti di potere tra le varie lingue e le loro varianti variano a loro volta, e notevolmente, qualora la localizzazione venga spostata e la prospettiva invertita. Secondo quanto sottolineato da Debra A. Castillo, negli Stati Uniti “Spanish or Spanglish is the second class language of the Indianizing mestizo (not, say, Nahuatl, the language still spoken by the indigenous people of central Mexico whose direct line of descent is from the Aztec peoples evoked in Borderlands / La Frontera); in Mexico, Spanish has the force of that country’s official language” (CASTILLO 2006: 264). E ancora una volta, quando si parla di tali questioni, il problema si raddoppia qualora l’attenzione venga focalizzata sull’universo femminile. E ancora una volta, l’operazione condotta dalle intellettuali e scrittrici chicane per costruire una propria autonoma identità linguistica è partita da una strategia di recupero in positivo di antichi stereotipi negativi. E ancora una volta, l’origine di tutto è la Malinche, dai conquistadores soprannominata Lengua perché fungeva da traduttrice tra lo spagnolo, l’azteco (il 5

nahuatl) e il maya. Proprio colei che era così competente nella mediazione linguistica è infine costretta al silenzio, ed è diventata la prima artefice della sottrazione della lingua nativa e dell’imposizione della lingua del conquistatore, del Chingón; ma proprio per questo v...


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