Docsity storia della giurisprudenza 6 PDF

Title Docsity storia della giurisprudenza 6
Course Storia della giurisprudenza
Institution Università degli Studi del Molise
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Riassunti e integrazioni dal testo di riferimento di Storia....


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Storia della giurisprudenza Storia Del Diritto Medievale E Moderno II Università degli Studi del Molise 115 pag.

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Gli obiettivi di apprendimento saranno quelli di integrare le conoscenze relative alle fonti della cultura giuridica sotto il profilo applicativo, perché il mondo del diritto e delle istituzioni è qualcosa che spesso ci rappresentiamo come un qualcosa che è strettamente legato alla volontà del legislatore che impone una serie di comandi. Il sistema giuridico o il mondo del diritto delle istituzioni non possono certamente ridursi esclusivamente alla volontà del legislatore; il diritto non può essere paragonato alla problematica della teoria del metodo dell’interpretazione giuridica che è, per definizione, una pratica sociale interpretativa e come tale, non può ridursi ad un comando del legislatore, come con una visione semplicistica siamo portati a fare. Il corso di storia della giurisprudenza proverà a integrare le conoscenze storiche dei sistemi giuridici esaminando il dato specifico applicativo della funzione giuridica, cioè ritenendo che il diritto non esiste se non nel suo momento applicativo: cioè il diritto non può esistere come fenomeno della vita di relazione se non è correlato al suo momento applicativo che è diverso dalla semplice enunciazione di una volontà normativa ad opera del legislatore. Esaminando il fenomeno giuridico sotto il profilo eminentemente applicativo, ci concentreremo su una parte dell’ordinamento giuridico relativa alla storia del processo e delle istituzioni penali, che possono e vengono esaminate come forme di risoluzione di conflitti sociali che esistono all’interno della comunità giuridica. Sotto questo aspetto esamineremo i problemi relativi alla storia della giustizia penale attraverso una specifica lente che formerà il binario sul quale ci muoveremo: cioè quello di una classificazione di carattere antropologico culturale, relative alle forme di risoluzione dei conflitti; perché ancora una volta dobbiamo pensare di allargare la nostra mente offrendo le opportunità che ci offre la conoscenza storica. Siamo abituati a pensare come normale che l’effetto della trasgressione di un precetto comporti l’irrogazione di una sanzione ad opera dei poteri pubblici (l’esempio classico è quello di una sanzione penale), volti ad accertare la sussistenza di una responsabilità penale in capo al trasgressore di un fatto o reato previsto in modo astrattamente stabilito da una fattispecie giuridica e che questo processo comporti l’irrogazione di una sanzione criminale o pena da poter dimenticare che le società nel corso della loro esistenza hanno stabilito delle modalità di risoluzione dei conflitti sociali, che sono diverse dall’irrogazione di una pena. Se riflettiamo, la pena ha una caratteristica essenziale: quella di considerare l’atto che viene assunto come presupposto della sua applicazione, come l’esiguo degli interessi dell’intera collettività. Anche nel momento in cui noi commettiamo un reato nei confronti di una persona singola, noi ammettiamo un reato contro la persona singola o l’incolumità individuale (come al reato di lesioni volontarie o al reato di percosse o ingiurie); anche quando individuiamo un soggetto passivo determinato che costituisce il presupposto tipologico sistematica del codice penale (reati contro la persona), in ogni caso, proprio per far sì che questa norma venga considerata una norma penale, consideriamo che l’azione lesiva offenda l’intera collettività. La nostra società risponde attraverso l’irrogazione di una pena. L’irrogazione di una pena normalmente (ma non è affatto l’unica) nel nostro sistema incide sulla libertà individuale dei soggetti (arresto o reclusione); ma non è affatto vero che si esaurisce il novero, l’arsenale delle sanzioni penali, perché è ben possibile che esistano pene criminali che incidano sotto il profilo economico del soggetto (pene pecuniarie: multa o ammenda). In ogni caso, la classificazione come pena qualifica uno specifico settore dell’ordinamento giuridico: quello del diritto penale. Quello al quale la collettività affida beni (giuridici) e interessi considerati talmente importanti per la collettività tali da garantirvi, in caso di inosservanza,

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l’irrogazione di una sanzione più grave che l’ordinamento può stabilire è quella che incide sul principio di libertà personale dei soggetti. Ma questa è una classificazione condizionata dalla nostra visione contemporanea e odierna, cioè solo ed esclusivamente nell’Italia del 2021 possiamo avere questa idea del sistema penale che naturalmente corrisponde a tutti quei sistemi giuridici occidentali, sia di common law che di civil law; ma non è detto che all’interno dell’esperienza storica le società prevedono altri modi di risoluzioni di conflitto diversi dall’irrogazioni della sanzione penale. Esamineremo come le società hanno provato a risolvere tale problema. Un conflitto di natura patrimoniale, personale, tra due soggetti, necessariamente comporta il ricorso alla irrogazione di una pena criminale, oppure può determinare altri modi di reazione ad opera della collettività? Per scoprire ciò, bisogna far riferimento ad un sapere dell’antropologia culturale. L’antropologia culturale ci insegna ad allargare la nostra immaginazione giuridica perché ci fa capire come tutto il diritto e i problemi giuridici sono strettamente collegati al modo di pensare, di agire, di rappresentare fatti, emozioni o sentimenti ad opera delle collettività, sia del presente sia del passato. Un famoso antropologo diceva che il passato è una terra straniera e noi ci dobbiamo avventurare nel passato con la stessa voglia e lo stesso spirito che avevano gli esploratori di terre lontane, perché scopriremo uomini, paesaggi ed emozioni profondamente diversa da quella dei tempi odierni. Grazie a questa classificazione che ci viene dai modi presenti dell’antropologia culturale, parleremo di uno dei mezzi di risoluzione delle controversie che possono intervenire all’interno della società, scoprendo come questo mezzo di risoluzione delle controversie sia o possa rappresentare un mezzo che se volessimo provare a darne una rappresentazione generale dei mezzi che sono stati utilizzati per la realizzazione dei conflitti sociali che emergono dalla trasmissione di specifici precetti giuridici, ha avuto all’interno del panorama di risoluzione delle controversie un posto altissimo e profondamente diverso da quello per il quale ce lo siamo rappresentati oggi giorni e cioè la vendetta. Ad onda della modalità con cui tradizionalmente ci rappresentiamo il concepire la vendetta, quest’ultima non è affatto un sistema rozzo e primitivo di risoluzione della controversia, bensì è un sistema che tradizionalmente ha funzionato e si è sempre affiancato ad altri sistemi delle controversie basati invece sulla pena, tali da non poter affermare non solo che la vendetta rappresenti un modo rozzo, arcaico, barbaro di risoluzioni delle controversie, ma che esso stesso, cioè che la vendetta rappresenti una sorta di precedente arcaico della pena, perché vendetta e pena o comunque una modalità basata sui presupposti concettuali della vendetta coesiste ancor oggi nei sistemi delle risoluzioni delle controversie sociali con la pena. Quindi, la vendetta non è qualcosa di arcaico, rozzo delle società primitive (come siamo abituati a chiamarle) ma non è nemmeno vero che la vendetta preceda storicamente l’affermazione di una pena perché vendetta e pena in ogni sistema giuridico, anche in quelli moderni, anche in quelli temporanei, sostanzialmente coesistono. Quanto alla questione relativa alla modalità della risoluzione dei conflitti che interessano beni consideranti rilevanti per una comunità non sempre la reazione della comunità stessa sia quella relativa all’irrogazione di una pena criminale, perché molto spesso (o nell’esperienza storica ciò è avvenuto tantissimo) le società hanno reagito diversamente. Una delle modalità di risoluzione delle controversie più utilizzate nel corso dell’esperienza storica è la vendetta. Ma quando trattiamo di vendetta, dobbiamo sgombrare il campo da una serie di pregiudizi che spesso rappresentano la cifra della comprensione con la quale ci accostiamo a tale

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argomento; cioè che la vendetta rappresenti qualcosa di rozzo, non fosse altro perché la stessa base del pensiero giuridico con la quale ci confrontiamo quotidianamente con gli stessi padri dell’ordinamento giuridico della modernità hanno da sempre istillato l‘idea che la vendetta sia qualcosa di rozzo, istintuale e che sia stata superata dall’introduzione dei tribunali. Per esempio, lo stesso Grozio nel De Iure belli ac pacis che è da sempre un suo capolavoro, distingue il mondo della natura dal mondo del diritto naturale. Alla natura apparterrebbero gli aspetti più rozzi, animaleschi dell’uomo, tra i quali la vendetta. Pochi anni dopo, un grande filosofo olandese, Benedetto Spinoza, detto Baruch, avrebbe provato a tracciare una piccola storia rapsodica dei sistemi di regolamento dei conflitti basandosi proprio su questa caratteristica: cioè che la vendetta rappresenterebbe un modo primitivo di risoluzione dei conflitti, solo successivamente, attraverso l’istaurazione dello stato che monopolizza la gestione dei conflitti all’interno della società e l’instaurazione dei tribunali, le società avrebbero trovato una modalità per gestire in modo più economico (inteso come modalità di minimizzazione della violenza all’interno del sistema) i conflitti che appartenevano all’ambito sociale, cioè i conflitti che potevano intervenire tra più soggetti. Questa idea della rappresentazione evolutiva della vendetta come qualcosa di istintuale, rozzo, appartiene anche alla nostra contemporaneità; ad esempio un grande autore che ha importanza centrale nel sapere antropologico contemporaneo, ovvero Renè Girard ha scritto un’opera che si chiama “La violenza e il sacro”, in cui l’autore traccia un profilo relativo alla vendetta e ci dice una caratteristica essenziale: cioè, che attraverso la vendetta la violenza si propagava da generazione in generazione e cioè che ogni singolo soggetto era (laddove vigeva come risoluzione dei conflitti quello relativo alla vendetta) posto sempre nella paura di essere oggetto costantemente di un atto di violenza a carico di un altro consociato. Sarebbe stato solo successivamente, con l’introduzione dello stato, che è terzo rispetto ai conflitti, e dunque con l’instaurazione dei tribunali, che le società avrebbero trovato questo mezzo di risoluzione dei conflitti e tra l’altro avrebbero espunto questa violenza onnipervasiva e capillare all’interno della società. Queste di Grozio, Spinoza e Girard sono tutte rappresentazioni della vendetta basate su una caratteristica essenziale, cioè quella di considerare la vendetta come qualcosa di rozzo, primitivo, istintuale; ma considerare il passaggio tra vendetta e pena criminale come modalità di risoluzione delle controversie come una sorta di assaggio evolutivo che avrebbero attraversato le società: atto cioè a minimizzare la violenza e atto a gestire in modo più economico i conflitto che possono sorgere tra gli appartenenti alla società. A questo punto, a fronte di questa considerazione della vendetta, dobbiamo capire se le cose sono andate effettivamente come ce le hanno descritte questi autori, poiché forse le cose non sono andate proprio così o come noi siamo abituati a pensare. Un’indagine ci potrà guidare in questa nostra considerazione ed è un’indagine posta in essere da un antropologo di origine francese che si chiama Bertran Son(?) ed è svolta sul popolo inuit della Groenlandia. Gli inuit sono quelli che noi volgarmente chiamiamo gli eschimesi, cioè sono gli abitanti della regione della Groenlandia, che dallo studio che ha svolto su questa società Bertran Son, praticavano fino a non molto tempo fa la vendetta: i dati che si evincono nell’analisi delle tracce culturali delle società, indurrebbero a pensare che le cose non sono andate come tradizionalmente siamo abituati a pensare e cioè non era vero che la vendetta rappresentava qualcosa che rappresentasse una propagazione incontrollata di violenza all’interno della società; perché Bertran Son ci dimostra come obiettivamente la vendetta, di regola, avveniva soprattutto tra membri di clan (gruppi parentali o gentilizi) diversi tra loro.

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Ad onda della considerazione che la vendetta rappresentava una sorta di esplosione incontrollata di violenza che si propagava di generazione in generazione, la vendetta normalmente terminava dopo il primo atto di ritorsione ad opera di un soggetto. Quindi non è vero che queste società vivessero nella paura, sempre esposte al rischio che qualcuno avrebbe rivendicato su un singolo soggetto una colpa posta in essere da qualcun altro. Naturalmente questa modalità della pratica della vendetta non si attagliava all’idea dei colonizzatori: la Groenlandia sarà colonizzata a partire dal 17esimo secolo, dai danesi. Questa modalità di risoluzione dei conflitti del popolo inuit era troppo lontana dall’ideario dei colonizzatori danesi che provarono e ci riuscirono a rimuovere radicalmente questa modalità di risoluzione dei conflitti e ad operarne una nuova, cioè quella relativa alla gestione pubblica dei conflitti ad opera delle autorità dello stato. Naturalmente, questa sorta di narrazione evolutiva verso il progresso rappresentato dagli stati, si adattava bene allo stesso popolo inuit che poi alla fine condivise, secondo l’idea di Bentran Son questo principio e cioè che successivamente l’introduzione dei tribunali aveva minimizzato la violenza all’interno di queste società. Vero è che i dati antropologici dispongono in tutt’altro senso e che quindi si possa ritenere che la storia di una violenza incontrollata sia una storia fabbricata a posteriori, appiccicata proprio per far coincidere la narrazione della storia della risoluzione dei conflitti con quella che magari fa comodo a noi occidentali, che ritiene che la vedetta rappresenta un mezzo violento di risoluzione dei conflitti. Questa caratterizzazione ha una semplicissima effetto: se si racconta una storia e quest’ultima ci rende tutti protagonisti in una sorta di epopea di progresso che considera la nostra società impegnata a espungere la barbarie e far trionfare un ideario di progresso e civilizzazione; così siamo tutti quanti propensi ad appartenere a questa storia. Ma è vero che i dati antropologici di questa storia possono spingere anche in una realtà profondamente di segno diverso e quindi domandarci se veramente le cose sono andate così. E’ questa la molla che ha spinto alcuni antropologi, tra cui Verdier, a esaminare da vicino e a compiere una serie di studi molto importanti sul sistema vendicatorio. Le conclusioni a cui giunge Verdier sono due: in primo luogo che la vendetta non può ritenersi come una sorta di esplosione incontrollata di violenza che si perpetua da generazione in generazione; in secondo luogo che la vendetta non può ritenersi come una sorta di antesignano arcaico premoderno della pena, perché vendetta e pena, in tutte le società, operano parallelamente, cioè vi è sempre la coesistenza di alcuni istituti o regole giuridiche che fanno remotamente riferimento ai principi vendicatori e altri che fanno riferimento ai principi della pena criminale. Dobbiamo un attimo allontanarci da questa visione un po’ semplicistica della vendetta, poiché in realtà, secondo cosa dice Verdier non possiamo parlare dii vera e propria vendetta, ma dobbiamo abituarci a parlare di sistema vendicatorio: non si tratta cioè della semplice rappresentazione di quella che noi siamo abituati a considerare come matrice della vendetta: occhio per occhio, dente per dente (tu hai posto in essere un offesa a me e io svolgo la medesima offesa contro di te); questa è una visione semplificata della vendetta. Non si può secondo Verdier parlare di semplice vendetta tu cur, ma di vero e proprio sistema vendicatorio, che è basato su un sistema tipico che è quello dello scambio e cioè che la vendetta si basa sullo scambio della posizione di offeso e offensore: cioè si determina la retroversione della posizione di offeso e offensore, ponendo il soggetto offensore in una posizione di scambio nei confronti del soggetto offeso.

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Fin qui è una modalità molto generale e astratta con cui si vuole definire la vendetta, ma nel momento in cui proviamo ad esaminarla più da vicino ci accorgiamo che come si attua la vendetta è qualcosa di molto più complicato rispetto al modo nella quale noi la immaginiamo. La vendetta può essere considerata allo stesso tempo, secondo Verdier, un’etica, ma anche un codice, cioè caratterizzata da una serie di minute prescrizione atte a far sì che si raggiunga il fine dello scambio che si caratterizza la vendetta, cioè che si riattui quell’equilibrio che è stato violato attraverso il primo atto di offesa. La prima caratteristica specifica del sistema vendicatorio secondo Verdier è che la vendetta non si attua mai e poi mai tra gli stessi soggetti appartenenti all’identico gruppo familiare, gentilizio, clanico, tribale. Ciò vuol dire che secondo Vernier i dati antropologici sono unanimi sotto questo aspetto e l’atto di vendetta può avvenire solo ed esclusivamente tra soggetti o gruppo appartenenti ad entità claniche, tribali o societarie tu cur differenti, perché se avviene un atto di offesa all’interno del medesimo gruppo, la distanza sociale è talmente ridotta che ci penserà il capo di questo gruppo a effettuare una qualsiasi azione che tenderà a ristabilire l’ordine giuridico violato. La vendetta può avvenire solo ed esclusivamente tra entità differenti perché proprio attraverso il ristabilimento dell’azione attuata mediante la logica di scambio, può attuarsi una sorta di equiparazione che è il vero e proprio fine della vendetta. Può sembrare un discorso astratto, ma se attuato concretamente può far comprendere da vicino il motivo per cui queste società operano in questo modo. La logica di scambio si spiega in modo semplice: ammettiamo che in una società, un gruppo clanico uccida l’esponente di un altro gruppo clanico > la situazione di scambio che si applica mediante la vendetta, fa si che l’ordine giuridico debba essere ripristinato facendo sì che un membro della tribù che ha perso un uomo, debba ristabilire l’equilibrio uccidendo il membro di un altro clan o gruppo gentilizio. La logica di scambio, si basa proprio su questo: i gruppi per poter coesistere devono rimanere sempre pari; ecco perché si dice che la vendetta attua un principio di debito. Tanto è vero che tutto ciò corrisponde anche all’etimo della parola vendetta nelle società che le praticano. Tanto è vero che in alcune lingue, soprattutto in quelle di popolazioni del nord africa, la vendetta viene anche chiamata con un termine che tecnicamente significa “scambio”; non solo, poiché l’autore di un omicidio viene definito “ertal o erbil”, che significa “prestito di cadavere”, perché se tu attui un omicidio sei nei fatti un morto che cammina, perché sai già che per ripristinare la parità tra i gruppi, la tribù che ha subito un danno, dovrà necessariamente uccidere. Questo è il principio per tendere a ripristinare la parità. L’obiettivo della vendetta della logica vendicatoria è basato proprio per ripristinare l’equilibrio tra i gruppi, affinché i gruppi possano coesistere. Possiamo capirlo se facciamo un’incursione nel mondo della criminalità organizzata: anche quelle sono delle microsocietà che compongono un proprio diritto e anche quelle applicano un vero e proprio codice della vendetta. Possiamo fare un esempio con un film intitolato “La sagra del padrino” in cui si nota immediatamente che l’obiettivo delle varie famiglie coinvolte nei conflitti di mafia, non era quello di vendicare tu cur l’offesa, ma quella di ripristinare la parità del gruppo. Quindi, se un gru...


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