Economie urbane ed etica economica nell\'Italia medievale PDF

Title Economie urbane ed etica economica nell\'Italia medievale
Author Alessandro Righi
Course Storia dell'economia preindustriale
Institution Università degli Studi di Siena
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Breve riassunto del testo Economie urbane ed etica economica nell'Italia medievale di Greci, Pinto e Todeschini....


Description

Insegnamento: Storia dell’economia preindustriale Commento a Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale di R. Greci, G. Pinto e G. Todeschini (Laterza, 2005). A cura di Alessandro Righi (matricola 108854) - Storia e filosofia (indirizzo storico)

Abstract Il presente testo consiste in un riassunto ragionato del manuale Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale di R. Greci, G. Pinto e G. Todeschini 1. Il libro affronta essenzialmente temi di storia economica medievale, offrendo alcune chiavi di lettura aggiornate di determinate problematiche relative alle ragioni e alle conseguenze dello sviluppo economico del territorio italiano nell’età medievale. Le tesi sostenute dagli autori conducono a alcune conclusioni che si differenziano in parte dalla letteratura scientifica sul tema o di cui forniscono una sintesi aggiornata: una interpretazione più concreta e meno spettacolare dello sviluppo economico italiano e della proiezione del commercio mercantile, che mette da parte alcune letture semplicistiche o eccessivamente ottimistiche di questi fenomeni, e che si concentra soprattutto sulla funzione giocata dall’intreccio tra istituzioni politiche e sociali e il capitale agrario, mercantile e commerciale; una nuova lettura delle influenze prodotte sulle direttrici dello sviluppo economico dalla dimensione e dal livello di consapevolezza dell’agire economico dell’uomo medievale, che ridimensiona alcuni caratteri di “spontaneità” e “modernità” sottolineati da parte della letteratura.

1 R. Greci, G. Pinto, G. Todeschini, Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale, Laterza, 2005.

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Introduzione Il testo è composto da tre saggi nei quali vengono affrontate rispettivamente tre tematiche principali: 1) i riflessi economici del rapporto tra città e campagna; 2) il profilo storico delle ragioni dello sviluppo economico dell’Italia medievale; 3) la riflessione filosofica sulla materia economica e la consapevolezza dell’agire economico nella società medievale. Nel primo saggio Giuliano Pinto illustra il rapporto tra territori e città e il ruolo di quest’ultima nel governare l’economia attraverso specifiche policy di carattere politico e sociale e nel confrontarsi con le dinamiche del sistema economico. Nella seconda parte, a cura di Roberto Greci, si ha una panoramica storica e geografica dello sviluppo economico italiano. Infine, Giacomo Todeschini analizza gli aspetti etici e morali legati all’agire economico che contraddistinguono l’uomo e le istituzioni della società medievale e la loro influenza sullo sviluppo dell’economia.

I rapporti economici tra città e campagna

In questo capitolo Giuliano Pinto si confronta con il tema del rapporto tra città e campagne nell’Italia medievale e su come questo abbia segnato il passaggio dall’accumulazione di capitale fondiario a quello mercantile e finanziario. Possiamo categorizzare i fattori che sostanziano questo rapporto, così come indicati da Pinto, in aree tematiche riguardanti rispettivamente caratteri di tipo strutturale-geografico, caratteri legati alle istituzioni economiche e sociali e, infine, al legame di natura amministrativa e politica tra città e campagne. Sul piano strutturale viene dato ampia rilevanza al dato geografico italiano, quello cioè di un territorio caratterizzato da una specifica orogenesi e da una forma 2

peninsulare che rende l’agricoltura praticabile con successo solo in aree limitate e con rendimenti diseguali; di qui la necessità per i maggiori centri urbani di formarsi proprio in quelle località dove uno sfruttamento agricolo era più intenso o nelle aree costiere dove lo scambio commerciale era maggiormente agevolato. In generale, si può quindi parlare di una scarsa produttività del sistema agricolo e di una disponibilità ridotta di aree coltivabili, che comportava un rapporto tra numero di produttori agricoli e consumatori inferiore rispetto al resto d’Europa. Questo ha significato da parte dei centri urbani la necessità di un maggiore controllo sulla produzione agricola delle campagne e una dinamica del possesso fondiario volta proprio a garantire il soddisfacimento del fabbisogno alimentare. A livello teorico si può parlare di un passaggio da ecosistema a agrosistema indotto dall’intervento umano. Per quanto attiene il piano politico/amministrativo Pinto delinea un’evoluzione delle dinamiche proprietarie caratterizzanti la realtà italiana. Descrive una fase iniziale di quasi incomunicabilità tra città e campagna che avrebbe segnato il passaggio tra tardo antico e Medioevo, dovuto al liquefarsi delle strutture di potere romane e all’impoverimento della cultura materiale in seguito alla dominazione longobarda, la quale tuttavia si sostituì in parte alle vecchie aristocrazie terriere nell’esercizio del potere politico e economico. Secondo l’autore, già a partire dall’VIII si ebbe un mutamento nel senso di una maggiore permeabilità delle dinamiche economiche tra città e campagne indotta dalla proprietà ecclesiastica; ma solo a partire dal XI secolo e in quelli successivi si può pienamente ritenere la proprietà della terra inserita in una vera economia di mercato, dove questo bene diventò fonte di reddito e non più, o almeno non solo, fonte di legittimazione di un potere politico. Anche la distribuzione della ricchezza andò mutando per quantità e provenienza sociale: ai grandi proprietari terrieri e alla proprietà curtense si affiancarono piccoli e medi possidenti che generarono fenomeni di inurbamento dalla campagna alla città, e che spesso provenivano direttamente dalla classe urbana e commerciale; fenomeno 3

che è da ricollegare alla cosiddetta “rivoluzione urbana” tra XI e XIV secolo. L’espansione della proprietà “cittadina” sui territori delle campagne portò in minoranza la proprietà “contadina” come dimostrano gli esempi delle aree del centronord citati dall’autore (il sud invece continuava a essere caratterizzato da dinamiche proprietarie più “tradizionali”)2. Più in generale, si può parlare di un aumento del peso della proprietà fondiaria nella ricchezza cittadina. Quindi, tra le ragioni che sospinsero l’investimento in capitale terriero possiamo citare: obiettivi di natura politica; necessità di garantire il proprio fabbisogno alimentare senza dipendere dall’aleatorietà del mercato; diversificazione degli investimenti verso una tipologia di profitti e rendite ritenuti più stabili e meno rischiosi di omologhi investimenti di natura finanziaria o commerciale; maggiore resilienza alle possibili crisi agricole, soprattutto per i prodotti cerealicoli. L’autore opera anche un confronto tra proprietà comunale e cittadina sottolineando come in quei secoli la proprietà delle autorità comunali stesse estendendosi verso beni terrieri diversi dalle aree coltivabili quali foreste e pascoli, risorse minerarie del sottosuolo, opifici idraulici e aree sulle quali non esistevano diritti di proprietà certi; mentre, in parallelo, la proprietà comunale di terreni coltivabili si riduceva a favore dei privati; anche gli arativi si ampliarono a scapito dei terreni da pascolo. Più incerto è il quadro delineato da Pinto relativo agli effetti prodotti dalla presenza cittadina nella proprietà fondiaria; a detta dell’autore le fonti consentono di parlare di un aumento della produttività agricola, dovuto all’ammodernamento delle tecniche di coltivazione e agli interventi compiuti sui terreni, e di uno spostamento della rendita derivante dal capitale terriero a favore della proprietà cittadina. Un andamento messo in crisi solo dal calo demografico che accompagnò la Peste Nera nel XV. Per quanto riguarda la circolazione dei prodotti il fabbisogno delle città fu sufficientemente soddisfatto fino alla poderosa crescita demografica iniziata nel secolo XII, che richiese una diversificazione delle fonti di approvvigionamento verso 2 Pag. 21-22.

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aree non più situate a corta e media distanza; necessario si rivelò l’intervento diretto dei governi comunali nel favorire l’importazione dei beni necessari, nel regolare la commercializzazione di quelli ritenuti sensibili per il fabbisogno della città, nel predisporre e adeguare le strutture cittadine a ospitare mercati. In questo contesto si accentua la suddivisione tra aree rurali, dedite alla produzione primaria, e aree cittadine, rivolte alla trasformazione della materia prima e allo scambio commerciale. Tuttavia, le politiche adottate dalle autorità cittadine non si limitarono a quelle citate precedentemente. Pinto estende l’area d’intervento delle città a politiche relative: alla mobilità e al popolamento del territorio, con l’obiettivo di attrarre cittadini o per mantenere popolate e presidiate determinate aree d’interesse; al controllo delle derrate ritenute di particolare interesse strategico, come le disposizioni relative all’annona, con le quali si imponeva il versamento alla città di determinati quantitativi di beni alimentari, soprattutto cerealicoli, e talvolta il loro acquisto diretto a carico della fiscalità comunale; all’imposizione fiscale, attraverso un sistema duale che divideva tra cives e abitanti del territorio e che poteva attuare diverse tipologie d’imposta quali imposte dirette, indirette, prestiti forzosi e servizi obbligatori; all’intervento nell’organizzazione della produzione agricola attraverso l’allargamento delle terre messe a coltura, opere di bonifica e irrigamento, ma anche agendo sulle caratteristiche della struttura fondiaria, sui rapporti contrattuali e addirittura nell’ordinamento stesso delle colture; alla difesa della proprietà. In conclusione, si può parlare di un accumulo di capitale generato dalla coltivazione della terra e poi rivolto a investimenti commerciali e finanziari in grado di innescare un meccanismo di sviluppo e crescita da parte delle élite urbane che ha reso sempre più le campagne assoggettate agli interessi e alle politiche adottate dalle città.

Nuovi orizzonti di scambio e nuove attività produttive

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In questo capitolo si affronterà la lettura storica proposta da Greci dello sviluppo economico dell’Italia medievale, in cui riveste un ruolo centrale il rapporto osmotico creatosi tra istituzioni politiche e capitale commerciale. A livello metodologico, l’autore sostiene fortemente, come d’altronde buona parte dell’odierna letteratura sul tema, l’ipotesi di continuità tra mondo antico e età medievale e, quindi, l’idea che non si possa parlare di una cesura netta tra antichità mediterranea e medioevo continentale. Secondo Greci i primi secoli del medioevo, seppur segnati dall’impoverimento e dalla ruralizzazione delle città, offrono elementi che permettono di parlare di una dinamicità economica in realtà mai del tutto sopita: la permanenza, nonostante l’acquisita importanza dei centri rurali, di centri urbani di riferimento come luoghi privilegiati del potere politico, ecclesiastico e economico; i traffici commerciali adriatici e dell’area padana; i rapporti di scambio del sud della penisola con Bisanzio; la presenza nella documentazione del tempo di complesse differenziazioni sociali tra i ceti commerciali dei negotiatores che danno prova di un realtà economica sofisticata e variegata. Greci inserisce, nonostante le numerose similarità, le regioni del centro-nord e del sud in due dinamiche di sviluppo diverse, dovute alle differenze nei rapporti commerciali, nelle caratteristiche della classe commerciale e nelle istituzioni del potere politico. Inoltre, il ruolo della città nelle due aree sembra assumere una diversa fisionomia, con i centri urbani del centro-nord che acquisivano autonomia mentre quelli del sud rimanevano radicati in realtà statali mutevoli ma comunque forti e centralizzanti. Il sud fu sempre più estraneo a quelle dinamiche di accumulazione di capitale da parte dei ceti borghesi e commerciali che aveva caratterizzato il centronord e che ne avrebbe segnato il successo economico. Un capitolo del testo di Greci è invece dedicato alle vie del commercio, terrestri e fluviali, arretrate con lo sfaldamento delle istituzioni romane ma senza tuttavia sparire del tutto. Il ripristino dei carreggiati e della sicurezza si accompagnò 6

lentamente e di pari passo all’istituzione di politiche daziarie ( le quali necessitavano di presidi per svolgere il prelievo ), agli interventi sulla sicurezza da parte delle autorità locali e addirittura dalle stesse corporazioni di mestiere e alla nascita di nuovi borghi franchi; importante fu anche l’intervento diretto delle città, spesso con la creazione di istituzioni ad hoc e con imposte di scopo, al fine di agevolare il commercio nel proprio centro urbano e assicurarsi canali di approvvigionamento. Un esempio fra tutti è quello di Milano, che attuò politiche stradali tese a facilitare la viabilità sulla direttrice transalpina. Si può parlare anche della nascita di un’economia dei servizi al trasporto, con vere e proprie attività commerciali che offrivano trasporti e assistenza a mercanti e viaggiatori, e che spesso esercitavano la propria attività acquisendo una concessione da parte delle autorità locali; in certi contesti questo servizio era addirittura di natura totalmente pubblica. Greci si sofferma sula genesi e il ruolo delle forme associative dei mestieri, riportando le posizioni presenti in letteratura in merito alle differenze o alla continuità tra le associazioni di mestieri altomedievali e bassomedievali; a prescindere dall’evoluzione di questo istituto, è placito il carattere eminentemente urbano di questi fenomeni, nati per tutelare i membri delle rispettive categorie professionali da rischi esterni e interni. Rilevante è il fatto che la categoria dei mercanti fosse sempre leader all’interno dell’associazione corporativa di ogni centro cittadino, elemento che rinforza le letture esposte in questa trattazione relativamente al peso e al prestigio dell’attività mercantile nelle economie urbane; si può citare, ad esempio, il ruolo dominante assunto dal settore del tessile nell’economia cittadina italiana e nei mercati internazionali. Un altro fenomeno associativo/societario che apparve in queste fasi di sviluppo è quello delle compagnie, che permettevano una maggiore distribuzione dei rischi collegati all’investimento finanziario e commerciale e garantivano una maggiore disponibilità di capitali da utilizzare. Inoltre, l’accesso al credito bancario e l’innovazione degli strumenti finanziari permisero una riduzione del tasso d’interesse e la possibilità di far fronte ai vincoli di bilancio. Se i mercanti italiani riuscirono a 7

acquistare quote di mercato fu certo grazie a un insieme di fattori che comprendeva le precipue dinamiche di accumulazione del capitale (da agricolo a commerciale e urbano), le ramificazioni tra attività commerciale e bancaria, la modernità delle strutture associative e l’innovazione finanziaria; il primato commerciale dei mercanti italiani sarà messo in crisi solo con il passaggio alle nuove rotte atlantiche e con il successo delle piazze finanziarie dell’Europa continentale. La lettura che Greci dà del ruolo delle repubbliche marinare è quello di connessione tra la produzione e il consumo delle città dell’entroterra e le rotte commerciali a lungo raggio; inoltre, la loro funzione fu storicamente quella di mettere in contatto il mondo mediterraneo con quello europeo. Protagoniste furono Amalfi, Venezia, Pisa e Genova; le prime due inserite nell’area del commercio bizantino e arabo e le altre rivolte alle tratte dell’area tirrenica. Genova e Pisa raggiunsero il livello di maggiore espansione commerciale intorno al XII secolo, divenendo attori fondamentali delle vicende di politica internazionale del tempo, seppur con caratteri diversi: Genova fu un porto naturale con confini netti rispetto all’entroterra (con il qual tuttavia condivideva rapporti economici) e come tale proiettata al commercio marittimo, mentre Pisa risultava inserita in un entroterra ricco ma politicamente combattuto tra la presenza di Lucca e Firenze. Il prestigio di Venezia fu dovuto ai vantaggi rappresentati dagli stretti rapporti commerciali con l’entroterra padano e il mediterraneo orientale e dagli accordi politici e economici con Bisanzio prima e con il mondo ottomano e l’asia poi. In sintesi, è evidente il legame tra la peculiarità delle istituzioni economiche, politiche e sociali dell’Italia medievale e il successo del modello di sviluppo economico che ha caratterizzato questi territori.

La riflessione etica sulle attività economiche 8

In questa sezione si darà conto dell’originale analisi di Todeschini dedicata agli aspetti filosofici e culturali dell’agire economico dell’uomo medievale. Il sostrato della riflessione sull’economia in età medievale è da ricercarsi sin dall’età patristica nel pensiero religioso cristiano e nella sua teologia e, più in generale, nella visione antropocentrica della religiosità cristiana. Le fonti in cui la materia economica viene inizialmente affrontata sono in genere scritti conciliari, commentari e testi di moralistica; solo a partire dal XIII si avranno tipologie di scritti specificamente dedicati a temi economici. La prima fonte individuata da Pinto sono le omelie e i commenti alle scritture dei Padri bizantini della Chiesa, come quelle di Basilio di Cesarea o Clemente Alessandrino, dove vengono svolte riflessioni sulla ricchezza, il denaro, il lavoro e la povertà; lo stesso possiamo rinvenire nei testi di Ambrogio da Milano e Agostino d’Ippona. Le loro riflessioni vertono su temi specifici come il prestito a interesse e l’usura e sul corretto uso della ricchezza e devono essere contestualizzati nella vita economica delle grandi città tardoantiche dove gli autori esercitavano il proprio ruolo episcopale. In tal senso, Pinto parla di “natura governativa” delle prime riflessioni in materia economica, che può essere ritrovata nella connotazione positiva attribuita alla distribuzione della ricchezza sul territorio e alle critiche mosse alla tesaurizzazione, descritta come pratica sterile e infruttuosa; in egual modo, la condanna del prestito a interesse viene intesa come un comportamento che consegue l’accumulazione improduttiva di ricchezza in quanto tale. Inoltre, il ruolo dell’amministrazione ecclesiastica viene identificato nella mediazione tra ricchi e poveri. La riflessione sulla materia economica dà luogo anche a spunti polemici nei confronti di altre religiosità, come quella ebraica e greco-romana, alla quale si attribuisce la mancanza di una regolamentazione riguardo all’invendibilità dei beni consacrati e alla positività della non-simmetria nello scambio commerciale, e più in generale 9

all’indulgenza nei confronti dell’avarizia; elemento, quest’ultimo, che costituirà parte degli stereotipi medievali sull’ebraismo. Una sezione del testo di Pinto è dedicata alla lingua nella quale si esprime la riflessione sul pensiero economico, dalla quale emerge l’ancoraggio lessicale ai testi evangelici, soprattutto quando si affronta il tema della ricchezza e della povertà, e alle codificazioni ecclesiologiche. Risalta il carattere di ambiguità lessicale, in particolar modo sul tema del profitto o del guadagno lecito, in cui si cerca di conciliare il dettato evangelico con la necessarietà dell’accumulo di ricchezza collegato all’attività economica, e in parte risolto con le obbligazioni relative alle opere di carità e di donazione alla Chiesa; operazione filosofica riassumibile nella nozione di “buon uso della ricchezza”. Una trattazione a parte merita il tema del governo economico dei beni ecclesiastici, in cui si ravvisa il tentativo di una sintesi tra le esigenze politiche e economiche dell’istituzione ecclesiastica e la conciliazione con i comandamenti cattolici e, in determinate fasi, le direttive imperiali carolinge. Le insistenze di molti autori sul ruolo sociale e rappresentativo del patrimonio ecclesiastico sembrano rispondere a questa problematica, oltre che a voler rimarcare una propria indipendenza e peculiarità d’intenti rispetto ai patrimoni delle altre autorità governative pubbliche. Il concetto di inalienabilità dei beni ecclesiastici segna, appunto, il bisogno di inquadrare il patrimonio in una dimensione pubblica e non di mercato. La commistione tra autorità imperiale e ecclesiastica...


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